festival dei sensi

programma serale di domenica 28 agosto

dalle ore 20,00 alle 21,45
Cisternino, Cimitero vecchio
L’Italia vista dal cielo. Puglia | Lungometraggio di Folco Quilici

ore 21,00
Locorotondo, Parco del Vaglio
Le seduzioni dei luoghi | Conversazione di Joseph Rykwert con Ruggero Pierantoni

ore 22,30
Cisternino, Masseria Montereale
Di mestiere faccio il paesologo | Conversazione di Franco Arminio con
Franco Cassano
    in preparazione di questo incontro ripubblichiamo l’utile introduzione di F. Cassano a “Oratorio bizantino” ediesse editore

Nobiltà dell’altura

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di ARMIN _ metto qui la prefazione a ORATORIO BIZANTINO scritta da franco cassano e apparsa sul mattino di oggi. il capitolo finale del libro è dedicato a cairano, la nostra rupe dell’utopia.

Nobiltà dell’altura _ Franco Arminio è una figura di intellettuale insieme tipica e assolutamente originale nel panorama del nostro Sud. Egli, pur possedendo tutte le qualità per farlo, non è mai partito, non ha mai usato la sua intelligenza per scappare altrove. È rimasto invece fedele al-la sua terra, senza sacrificare a tale fedeltà la sua mobilità intellettuale o il suo spirito critico, di cui le pagine di questo libro sono un documento ricco e vibrante. Infatti per Arminio, e questo è un altro tratto singolare, l’amore dei luoghi nasce non, come spesso accade, dalla rimozione dei loro veleni, delle loro miserie e delle loro impotenze, ma da uno sguardo lucido, che non nasconde nulla e non fa sconti a nessuno. Ci sono troppi che, deprecando, sbattono la porta e se ne vanno altrove e di lì pontificano a distanza. E troppi, tra quelli che rimangono, che sono convinti che la modernità sia soprattutto vendersi e sapersi vendere. Troppe volte oggi l’amore dei luoghi è diventato un’industria, un modo per venderli nel grande mercato globale, marketing territoriale, l’idea che si possa diventare commercianti della propria identità, e quindi parte della grande simulazione e dello spettacolo globale. Ma i luoghi di Arminio, i paesi dell’Irpinia, non sono stati assaltati direttamente, non sono stati invasi da turisti. Dall’esterno i cambiamenti sono minori, anche se sono stati fortissimi anche qui, e quei luoghi sono stati distrutti da un’arma silenziosa, da una «modernità incivile», che ne ha disinnescato l’anima, trasformando gli abitanti in profondità.
La paesologia, la disciplina che Arminio ha messo al mondo un po’ per gioco un po’ sul serio, è una «scienza arresa», non mira a vendere, ma a far capire, non è seduzione, ma un gesto di amore doloroso e insieme inaffondabile. In questo Oratorio bizantino, che raccoglie scritti che attraversano più di un decennio, s’incontrano all’improvviso delle descrizioni commoventi, ci s’imbatte nell’Irpinia d’Oriente, una terra alta e battuta dai venti, una vera e propria «Mecca dei venti», uno dei pochi luoghi nei quali può venire in mente l’idea di un Museo dell’aria. Ma questi venti, che prendono la rincorsa da altre terre alte e arrivano da lontano, sono anche e soprattutto un luogo dell’anima, sottolineano la di-stanza dell’altura dai riti fescenninici della costa, dall’opulenza volgare e rumorosa di un mare fatto non più da marinai e navigatori, ma dalle plebi estive notturne e accaldate, dai terremoti sonori scagliati nel buio a decine di miglia di distanza, testimonianza di quella perdita del rapporto con i luoghi che li rende una discarica dello stordimento, un fondale dove il rumore annega in un solo colpo la bellezza e la coscienza, «una fossa comune dello spirito».

Ma questa nobiltà dell’altura, questa diversità riservata e austera, non diventano mai in Arminio la caduta in una sorta di mitizzazione, perché il benessere pesante e volgare non è rimasto confinato sul mare, ma è arrivato fino sui monti dell’Irpinia, in una forma fredda, ma non meno velenosa, e ha trasformato l’antica ritrosia in un collettivo voltare le spalle non solo ai luoghi e alla loro cura, ma a tutte le storie collettive. È come se sulla comunità fosse caduta una bomba silenziosa quando sono arrivati prima il trauma del terremoto dell’80 e poi i soldi, che hanno ricostruito le case, ma sembrano aver seppellito nelle loro fondamenta anche le coscienze: «Quello che una volta era il popolo della sinistra è un informe ammasso di solitudini e disperazione guidate da larve di una stagione politica cupa e disfatta».
I segni esterni di questa «disfatta antropologica» non sono clamorosi, ma non sfuggono al sismografo del paesologo, a chi possiede memoria di ciò che era e sa cogliere le differenze anche nei segni più piccoli, nei vuoti che si dilatano nelle strade, nell’estraneità che cresce anche nei paesi dove ci si conosce tutti. Oggi, dice Arminio, in questi paesi le porte sono chiuse, sempre chiuse. Ognuno sta dentro la propria casa, ha come unico dio il proprio utile privato, si è ritirato dalla comunità, le ha chiuso la porta in faccia, lasciandola fuori in preda ai venti. La bomba è esplosa dentro, producendo una mutazione delle anime. E quello che succede fuori scompare, sostituito dalla televisione, che ti fa abitare altrove, che ti rende cieco con un’orgia di immagini. Si incontra qui uno dei bersagli polemici privilegiati di Arminio, quella piccola borghesia che vive la propria casa come un rifugio antiatomico, che non riesce più a vedere i propri luoghi, omologata fin nel profondo dell’anima, arredata dai miti del consumo nel proprio immaginario, spenta nelle passioni collettive. E quando esce di casa, questa classe lo fa solo per esportare la chiusura dell’anima e la «planetaria fornicazione dei mediocri», per incrementare il suo bottino privato. È da questo grado zero della passione che inizia a prosperare una politica non politica, trasformata in affare da chi la fa, in carriera e compromessi, che presenta come sano senso della realtà la tecnica della spartizione del bottino. Ecco perché domina la vigliaccheria, quella tara dell’anima su cui i politici hanno costruito il proprio dominio, ecco perché in tanti, salendo di rango, sono arrivati in cima, ma non sanno più dire nulla.
Arminio detesta il compromesso non per moralismo, ma per una ragione più tellurica e profonda: il compromesso porta al tradimento dei luoghi, spinge ad abitare in essi come se si fosse degli uccelli predatori, emissari di un Occidente minore, volgare e arraffone. È questa fedeltà che lo rende molto di più di un don Chisciotte: il suo legame con la terra non è libresco, ma sensoriale, è un rapporto con le passioni collettive, quelle che hanno abitato in tanti suoi amici e coetanei e poi si sono placate lentamente, arenandosi in una waste land dello spirito. Il suo sogno è quello di un paese capace di ritrovare se stesso, i propri legami, capace di uscire dalle case, di aprire quelle porte chiuse che separano le anime le une dalle altre, è la fatica, ma anche l’ebbrezza dell’azione collettiva, l’unica impresa oggi paragonabile alle gesta dei cavalieri, ma che, al contrario di quelle, deve essere fondata su una grande mobilitazione di tutti. L’eroe di questa epopea non vuole essere solo o il primo, anzi vede la propria solitudine come una sconfitta, come il prologo della sua riduzione, nella migliore delle ipotesi, a un tipo originale, un po’ matto e diverso, un poeta e uno scrittore, uno che sarà anche una brava persona e avrà let-to tanti libri, ma forse proprio per questo non è in grado di accettare la realtà. Qualcuno da tenere buono e da lasciare solo.
In effetti qualcosa di vero in tutto questo c’è: solo a uno come Franco Arminio poteva venire in mente di proporre la nascita di una nuova disciplina, la paesologia, la scienza arresa, che proclama il primato dell’esperienza sul logos. Che si tratti di una «scienza arresa» è una vera e propria bugia, perché in questo vivere la condizione incerta e malferma dei paesi, specialmente di quelli più dissanguati, si può cogliere il rovescio delle retoriche dominanti, di quella rincorsa collettiva che ha riempito le bocche e le case, ma ha succhiato via ogni momento di vita comune, di riconoscimento negli altri. Una scienza, quella della paesologia, che non può nascere dagli algoritmi dello scienziato sociale, ma solo dallo stare dentro, da un legame con i suoni, gli odori, le case, i panorami, e da un rapporto forte con la memoria, il legame più pericoloso, perché ricorda i momenti in cui tutti sono stati migliori di quello che sono diventati, in cui non avevano ancora il piombo nelle ali, in cui non erano ancora diventati vigliacchi, vittime ma anche e soprattutto complici del potere, di un piccolo potere fatto di interni arredati con vasche per idromassaggi e di esterni con vacanze ai tropici, come nei cinepanettoni e nel racconto di un’Italia tutta ruotante intorno ai genitali e alle carte di credito.
«Tutto è relegato in una dimensione ineluttabilmente privata»: la politica è stata risucchiata dai cuori delle persone e trasformata nella pratica della spartizione delle risorse, nell’assegnazione delle poltrone e degli strapuntini. I segretari di sezione ormai sanno custodire solo il loro segreto bancario. E non sarebbe male se nelle piazze di quei paesi il sindaco, con una solenne cerimonia, scoprisse, accanto a quelle che ricordano i caduti, una lapide dedicata alla politica scomparsa. Ebbene, in questa situazione post-atomica, senza nascondere nulla, Arminio da tempo prova a vedere se è possibile cambiare le cose, se è possibile provare a far rivivere il calore della grande politica: la politica, dice, «se non è grande non è niente»; per contare qualcosa essa deve contenere la vita «che è slancio, coraggio, esposizione all’ignoto». La politica piccola non esiste e non merita questo nome: è riunione di condominio, liti feroci per centimetri o centesimi. E gli strumenti per comunicare la necessità di ripartire sono tanti e molto diversi: si può provare a svegliare le coscienze scrivendo su un giornale oppure costruendo una battaglia collettiva per la difesa e la qualità dell’ospedale e dei servizi sanitari, battersi contro una discarica, impegnarsi per far passare le grandi idee nella cruna dell’ago dei conti e dei bilanci.
È difficile, ma bisogna provarci, non stancarsi neanche di fronte ai riflussi e alle sconfitte, anche quando si rimane da soli, e gli altri si defilano, prima l’uno, poi l’altro, chi con una scusa, chi con l’altra. Perché, anche in questo quadro difficile, non vengono mai a mancare le persone-paese, quelle che, nella loro vicenda individuale, riassumono i passaggi di una storia comune, le nascite, le unioni, le morti, talvolta tragiche e improvvise, talvolta annunciate e colpevolmente ignorate. E le persone¬paese sono anche quelle che, pur risiedendo altrove, sono rimaste legate ai luoghi in cui sono nate, e sono capaci di riconsegnare a essi l’energia e l’allegria che partendo avevano portato via nelle loro valigie. E Arminio le ricorda: quando il sogno a cui ci si alimenta è collettivo si riesce ancora a ringraziare gli altri, perché essi non sono concorrenti, ma parte di una catena fatta di braccia e di persone con cui si è mangiato insieme il pane, con cui una volta si è stati com-pagni e lo si rimane, quale che sia stata allora la tessera di partito.
E per innescare questa energia, per allungare il respiro, per demastellizzare l’anima, è necessaria un po’ di follia. È anche per questo che oggi i poeti e gli scrittori al Sud sembrano essere diventati più credibili e creativi della maggior parte dei politici. Se non si rimette un po’ di speranza e di futuro nel nostro modo di ragionare, se non si aprono le porte e non si guarda fuori, non ci basteranno le vibrazioni delle Jacuzzi. È di qui che nasce l’ultima «invenzione» di Arminio, il festival di Cairano, un paese che sembra un «meteorite che guarda tutta l’Irpinia». Non si tratta di un investimento turistico, ma di una riscoperta dei «luoghi comuni», della bellezza che nasce dalla loro singolarità, di una festa che non lascia a terra lattine o bottiglie, dove l’ebbrezza è quella di una convivialità abitata da una misura, che sa bene che qui, grazie alla loro asperità, sono i luoghi a comandare e che essi non amano le tribù dello sballo. Non è un caso che il tradimento di questa austerità in Irpinia si sia dovuto nascondere negli interni delle case e raramente abbia avuto il coraggio di andare in giro sfidando il giudizio severo delle salite e dei venti.
Ma non si tratta di «invenzioni» senza passato e senza futuro, senza una cucitura concettuale che li tiene insieme. E la proposta cuore del libro è quella che mira a vedere nell’Irpinia non un residuo o una periferia, una terra minore e in stato terminale, ma un nuovo centro, che va dal Pollino alla Maiella, che prova a rovesciare il rango tra la polpa e l’osso dell’Italia, le famose figure di Rossi-Doria, che vuole dare alla civiltà dell’interno la dignità di una voce che interessa tutti. L’Irpinia non è uno di quei centri che pensano che tutto sia loro dovuto, che succhiano le risorse dal territorio circostante per poi scaricarvi i loro rifiuti, ma un luogo di incontro tra i punti cardinali, un punto di equilibrio tra le virtù contenute in ognuno di essi, un centro che non mira a dominare, ma a far incontrare. Non bisogna quindi sottovalutare la scienza arresa di Arminio. La sua cedevolezza è come quella dell’ju-jitsu, la capacità di sfruttare la debolezza come un vantaggio, mettendo spalle a terra i giganti boriosi convinti della loro irresistibilità. Tutti ricordiamo quello splendido giro di frasi della Luna e i falò di Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Ma quella che in Pavese era una nostalgia, le Langhe viste da Torino, in Arminio, con pudore, ma anche con costanza, diventa un possibile nuovo inizio: «Forse l’Italia può essere salvata dai luoghi più nascosti, dalle persone più appartate. L’Italia può essere salvata dalle Alpi e dall’Appennino, dalle pietre, dai sentieri, dai rovi, dai paesi affranti e sperduti, più che dalle autostrade, dai calciatori e dalle veline. Forse le assemblee di Bisaccia sono più letteratura che politica, forse viviamo in un luogo fuori dal mondo, oppure semplicemente a Bisaccia è il mondo a essere fuori luogo».
In certi momenti, quando si concepiscono idee un po’ ardite e folli, si teme di essere soli, ma il paese sta lì silenzioso a ricordarti che questa solitudine può essere provvisoria, che i luoghi lavorano al corpo la gente, che ci sono tanti che la pensano come te e che, senza saperlo, aspettano che tu scriva e gli dia le parole per uscire dal silenzio. Far parlare un paese vuol dire costruire una voce capace di spingere la gente ad aprire la porta e ad assaggiare, insieme all’odore del vento, quello degli altri. E anche se questa voce nasce da un luogo determinato, essa è una voce universa¬le, molto più che una specialità gastronomica, una sopravvivenza etnica. Dai luoghi austeri e riservati e dalla loro stessa serietà parte un messaggio di cui il mondo, prima o dopo, si accorgerà di avere bisogno, la necessità di una misura, di interrompere l’inseguimento infinito al consumo e di provare per un attimo a sostare e a guardarsi attorno. È proprio in queste soste che può accadere di sorprendere la nostra vita da un’altra angolazione, non come un’idrovora vorace e cieca, ma come un punto di affaccio sul mondo, un’esperienza a termine, più preziosa e più attenta a chi è debole, a chi sta iniziando e a chi sta finendo. E allora scopriamo che siamo un imballaggio delicato su cui sta scritto: alto e fragile. Le pagine di Arminio sulla debolezza e la morte ci ricordano che esse sono il gran rimosso della nostra civiltà deragliata per eccesso di velocità, di desiderio, di potenza.
In un mondo usa e getta, la delicatezza non è solo una virtù morale, una ricchezza interiore, ma una virtù sociale, perché vuol dire rispetto per il pianeta. Sobrietà e anche amicizia, rispetto e reciprocità, lunghi discorsi dentro lunghe passeggiate, l’affacciarsi dei dubbi, ma anche le scommesse vinte in comune, i piccoli momenti di trascendenza nei quali ci mettiamo in gioco, i più preziosi della nostra vita, quelli che segnano il nostro sacro e i nostri calendari. Il discorso di Arminio non è una nostalgia, ma un desiderio di futuro, e anche un atto di accusa: «Siamo noi la cosa che manca».

Franco Cassano

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