terracarne e cartoline dai morti

di Andrea Di Consoli, da IL RIFORMISTA del 21-10-2011

La lettura del nuovo libro di Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia (Mondadori, 353 pagine, 18,00 euro), conferma uno dei talenti più originali della nostra letteratura. L’originalità di Arminio consiste in uno sguardo nuovo sui piccoli paesi del Sud, visti e scrutati non più nella loro valenza meridionalistica e dunque politica (come svilupparli, come arginare l’emigrazione, in che modo ripopolarli, ecc.), ma nella loro essenza reale, nella loro scoperta e quotidiana verità. L’obiettivo non è più quello di sviluppare o modernizzare realtà marginali, ma accettarli per quello che sono. Quest’attitudine di accettare la realtà per quello che è, anche nelle sue desolazioni più anguste, anche nei suoi tanti sfinimenti psicologici, Arminio la deve un poco allo scrittore Gianni Celati (con il quale collaborò ai tempi della rivista “Il Semplice”), che proprio come Arminio utilizza molto il documentario randagio (di Celati è da poco uscita la raccolta di tre documentari, Cinema all’aperto, edito da Fandango), il vagabondaggio solitario, l’amore per la marginalità, ovvero quella che Celati, con un felice neologismo, ha definito “qualsiasità”.

L’idea è chiara: in un mondo che è alla continua ricerca di un centro illuminato e trendy (politico, culturale, mediatico, ecc.) scrittori come Celati e Arminio raccontano il massimamente trascurato, il negletto, il nascosto, ovvero la realtà totalmente deprivata di effetti speciali, di cronaca, di memorabilità. Quest’idea di guardare il mondo dal punto di vista del cane, cioè rasoterra, fraternamente, riducendo lo scrittore non più a sapiente legislatore del mondo, ma a umile e sfiancato camminatore (uno “qualsiasi”) senza certezze e, in fondo, senza speranze, è un esito avanzato della nostra letteratura, benché in apparenza “provinciale”, perché frantuma i romanzi meccanicistici o commerciali, e porta alle estreme conseguenze una morale della spogliazione, della sincerità e della nuda verità dei propri pensieri.

Quest’attitudine della nostra letteratura ad abbassare lo sguardo al livello del cane, e a riconnettere la parola con la geografia, è qualcosa che non paga in termini di fortuna editoriale (perché è poco vendibile, soprattutto all’estero), ma è qualcosa che sta rinnovando in profondità la nostra letteratura, perché la spoglia di ogni ideologia (in specie quelle di importazione, come per esempio il postmoderno) e di ogni tipo di professionismo carrierista, magari volontaristico (scrivere dei libri perché ci s’impone di farlo, o perché lo impone il mercato).

Scrive Arminio in Terracarne, che è una galleria di soste (“di visite”, come a dei malati) nei tanti paesi del Sud (dalla Puglia alla Campania, dalla Basilicata alla Calabria fino a escursioni in Abruzzo e nel Trentino Alto Adige) che il poeta di Bisaccia visita ogni giorno (come un culto antropologico) senza scopo alcuno: “Mi piacciono i vecchi, gli inattuali, i malcapitati della sorte, mi piace chi non smercia, chi butta un occhio alla vita e uno alla morte”; e ancora: “Il Sud che cerco ogni giorno è annidato nei paesi più sperduti, il Sud che resiste dove c’è poca gente, dove ci sono alberi, erbacce, cardi, il Sud che vive ancora solo dove è più dimesso, il Sud che non crede alla pagliacciata del progresso, il Sud dei cani randagi, dei vecchi seduti sulle scale… Il Sud che amo ha più di ottant’anni e rughe non lisciate, è una tribù di reumi e bastoni, è ugualmente lontano dall’Europa e dall’Africa, è una terra di magie arrangiate, di cimiteri sempre ampliati, di piazze livide e rancorose”.

Terracarne fa il paio con il recente Cartoline dai morti (Nottetempo, 137 pagine, 8,00 euro), dove in 128 brevissime e folgoranti prose – epigrafi poetiche in cui parlano post mortem gli stessi defunti – Arminio fotografa i morti del suo paese nelle loro ultime pose terrene, registrandone umori, stupori, paure, rammarichi, diagnosi mediche: insomma, l’attimo triste del trapasso. I paesani morti di Arminio non aggrediscono il destino e non osannano la vita; piuttosto parlano con in bocca uno sgradevole sapore amaro, di chi è persuaso del destino nonostante sia come invitto sotterraneamente un desiderio, pudico, sussurrato, di rimanere ancora in vita. La morte dei paesani di Arminio arriva rasoterra nella vita quotidiana, taglia le gambe, stordisce la testa, gela le mani, coglie le sue prede con un bicchiere in mano, con la finestra aperta, in una posa goffa e sperduta, fraterna.

Ecco alcune di queste dichiarazioni da un altrove che odora dello stesso odore delle nostre case di ogni giorno: “Avevo la cirrosi epatica, ma fino a un paio di giorni prima di morire me ne andavo in giro, con la sciarpa del Napoli”; e ancora: “L’ultimo mio respiro è stato un respiro da formica. E’ stato così piccolo che nessuno l’ha notato. Già erano tutti agitati, già cercavano le scarpe nuove, il fazzoletto, la giacca nera”; infine: “Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima”.

In ogni pagina Arminio si chiede: cosa accade a un uomo prima di morire? In che modo si capisce, a un certo punto, che si sta lasciando per sempre la vita? Taluni soccombono lentamente; altri, i più fortunati, cadono sul colpo, come quell’uomo che dice: “Avevo appena parlato con Vincenzo il marmista. Non avevo la minima idea che stavo per morire”. E sempre, i paesani di Arminio, muoiono lasciando in sospeso faccende di casa, piccoli affari, trascurabili compravendite (“Adesso ho una curiosità un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei milioni”), e mai, neanche una volta, muoiono invocando grandi speranze o grandi ideali. In questo modo Arminio scarnifica l’uomo – come un Giacometti ilare, in vena clownesca – e lo riduce a pura biologia, a vita quotidiana, a manutenzione degli organi, a paura. Quella paura che da anni Arminio blandisce in mille modi per eccesso di paura, mostro elettrico a cui cerca di dare in pasto montagne di parole, e a cui dedica uno studio sismografico ossessivo (in prima persona) tanto da essere dominato da una sorta di tirannica spaventocrazia. Non è difficile intuire che la galleria di voci di queste Cartoline dai morti è una voce sola che si presenta con tante facce diverse, ché quello che molto semplicemente Arminio desidera – come molti, forse tutti – è di non morire mai; e, in attesa di morire, racconta la morte degli altri per rimandare un poco la propria. Come una piccola Sherazade irpina con gli attacchi di panico.

A quest’altezza è evidente che la paura di morire di Arminio si lega all’ipocondria dei piccoli paesi sperduti, che diventano antropomorfi, percorsi da esili arterie in procinto di occludersi o di scoppiare. In fondo, quello di Arminio è un pensiero magico che tende a sciogliere il proprio io (a disfarsene) nel comune destino di un microcosmo che giorno dopo giorno dismette se stesso, sia pure con dolcezza, con piccoli livori senza importanza.

14 pensieri riguardo “terracarne e cartoline dai morti

  1. Ottima recensione del Di Consoli , che mette bene in luce la poetica della “scarnificazione” presente in tutta la ricerca di Arminio. Il verso finale di una celebre poesia di Montale “voglio essere scabro ed essenziale … siccome i ciottoli della corrente che tu volvi….” , in Arminio l’elemento che “essenzializza” il mondo è il vento delle sue montagne , per il poeta ligure , ovviamente , era il mare a cui la poesia i cui versi ho citato era rivolta .
    Nel caravanserraglio dei sud è difficile portare avanti questo tipo di atteggiamento : il sud , di solito , è pomposo , barocco , ma forse lo è solo in superficie , nel profondo è atavicamente ossuto, scabroso, pietroso.

  2. mi si perdoni la brutta scrittura del commento ….

    p.s.
    vorrei fare una constatazione : il blog è pieno di interventi interessanti , testi poetici etc , ma noto che c’è poco dibattito poca discussione , mi dispiace .

  3. Lioni, 21 Ott.2011 ore 12:35, alé 🙂
    Salve Amici, buona ottobrata dall’Irpinia!
    Bellisima recensione, bravo Andrea!.
    Andrea è spontaneo, equilibrato nel fare questo lavoro.
    Ama il ‘nostro’ ma se ne sa distaccare per coglierne la cifra espressiva e lo dice con la semplicità di voler condividere un pensiero, il sentire che forgia ogni autore.
    Le recensioni dovrebbero essere fatte così, sempre, fuori dalle parole di circostanza, oppure come le fa un altro grande amico – mi riferisco a Mimmo Scarpa – capacissimo e attentissimo – sempre – a cogliere i nessi delle originalità/novità stilistiche di Franco.
    Che bello stare qui, con i libri e i vostri sorrisi tra le mani!
    Grazie Andrea, un abbraccio di luce tra nuvole e azzurro a tutti, vostro Gaetano Calabrese

  4. che bello questo nostro tempo e che bella compagnia…..le parole poetiche,visionarie e profetiche di Andrea nella sua lucidità e profondità di analisi ci obbligano a non considerare ovvia e generosa la nostra esperienza comunitaria in un contesto degradato e mortificato …..ci avvalora, ci intriga, ci nobilita ma ci obbliga a un carico di lavoro mentale ed affettivo da grande “tragedia greca”………
    Edipo, Medea, Antigone contro “i nani,buffoni e ballerine” della nostra commedia dell’arte……

  5. una volta una bella recensione come questa spiccava, rimaneva nell’aria per molto tempo…
    adesso sembra che tutto si perda dopo pochi minuti….
    ha ragione antonio: testi bellissimi, poca voglia di discuterli.
    la nuova comunità deve ancora nascere, ma io non mi arrendo, in qualche modo nascerà

    1. Ci vuole tempo e costruzione paziente Franco, l’antimito della frammentazione del tempo, unica costruzione collettiva inconscia, ovvero lo spezzettamento di ogni istante per l’applauso televisivo, mediatico o web, fa attrito. Tutto scorre, non diceva Eraclito, ma glielo han lo stesso attribuito. Stare in compagnia della prospettiva di cane, non è facile.Ma sarà.

  6. Quando si gode del pregio di uno scritto aggiungere e/ o dire criticamente a caldo può deturpare e /o innestare le pretestuosità del ‘pou parler’. Vivacità non sempre è sinonimo di esatteza e competenza. Uno scritto che ti prende è come una bottiglia di vino buono, darà il miglior gusto al momento giusto, per un fine giusto, per un motivo giusto e felice anche dopo! (para-frasando un filosofo!), Gaetano.

  7. Mi permetto di aggiungere che questa recensione finalmente sottolinea il portato “innovativo” (invero molto tradizionale e legato ad un solco fondamentale della nostra letteratura nazionale) della tua forma scrittoria: i grandi libri dell’antropologia italiana, avevano il tuo stesso tono e non piacquero affatto, anche se fecero storia. E anche in quelli si crevano personaggi come “l’Arminio dal mal di pancia e rigurgito”. Così accadrà per Terracarne, è troppo scomoda la prospettiva del cane, l’antimito dello scrittore, la denuncia poetica e politica senza clamore. Ma per me, che ho fatto vacanze affittando case al Sud (a Senise in cerca delle piangenti…) e che ho visto Alianello ferma ai calendari dell’abbandono, o sono andata a documentare i cambiamenti della festa di Viggiano, restando attonita e stordita dai pozzi di petrolio e dall’odore acre nell’aria tutta, per me dicevo, la pancia a terra è un privilegio. Quando ti trovi in un posto in cui il fiume che non scorre più si chiama Serrapotamo e nasconde isole albanesi, sai che sei al confine della Storia. O è destinata a rimanere “altrui”, o la fai tua.

  8. La recensione di Andrea di Consoli, mette in chiara evidenza l’aspetto più politico e quindi più controverso della scrittura e quindi dei pensieri di Arminio: “L’obiettivo non è più quello di sviluppare o modernizzare realtà marginali, ma accettarli per quello che sono.”. E’ evidente che accettare le realtà per quelle che sono non può non consentire a chi vive al Sud, – per scelta – ma molto di più per costrizione o impossibilità a cambiare – di poter immaginare un altro futuro. Casomai fondato sulla terra e sullo scambio con l’europa, su una agricoltura che non sia peggiore dell’industria in termini di impatti ambientali, su una integrazione ed un accoglimento dei nuovi migranti africani.

Rispondi

Scopri di più da Casa della Paesologia

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading