La felicità e la lotta.

Rimetto quì un vecchio post scritto più di un anno fa agli amici di cp. Non credo sia inattuale, anzi, no, credo lo sia, ed è per questo motivo, per la sua inattualità, che lo ripropongo a voi.

un abbraccio

elda

“La felicità deve ridiventare un concetto politico (…) il nostro è il riso della distruzione, che accompagna in battaglia contro il male (…) la soppressione in noi stessi del pervicace attaccamento all’identità e, in generale, alle condizioni del nostro asservimento sarà forse terrificante ( e dolorosa -aggiungo io-), eppure continueremo a ridere.”

M Hardt- A. Negri,Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano 2010

Il punto in cui mi trovo è definitivo. Sento chiaramente la morte, la morte del mondo e degli umani. La specie che, per migliaia di anni, ha dominato la terra, corpo celeste, in nome della sua presunta superiorità, è moribonda. Non ha risposte, non sa dove andare, è smarrita senza riuscire a vedere il suo smarrimento, è sfinita senza avvertire la sua condizione. Ci siamo presi troppa cura di noi stessi, e per troppo tempo. Ognuno per sé, e poi, ognuno per il suo nucleo, la famiglia, la nazione, la specie. Nuclei sempre più piccoli, sguardi miopi. La morte del mondo è qualcosa che ormai si tocca con mano, possiamo agitarci quanto ci pare, l’unica vera via è ripensare, ripensarci come parte di un tutto molto più importante e grande di noi. Giorno dopo giorno le speranze si affievoliscono e le possibilità di rifondare l’umano si fanno vane. Rifondare l’umano, ripensandolo. Io non so dire, ora, come fare, non ho indicazioni, scelte, istruzioni per l’uso. E credo giusto che sia così. Poiché l’umano, per ripensare se stesso, deve prima rinunciare a se stesso. Deve oggettivizzarsi, guardarsi dall’esterno, sciogliendo ogni legame con gli schemi dell’antropocentrismo psicoanalitico e falsamente razionale che lo hanno condotto a questo. Quando dico oggettivizzarsi intendo proprio l’azione di distrazione dal proprio io, la possibilità di iniziare a considerarsi come una cosa, una qualsiasi, di questo mondo. Una pietra, una formica, un albero. Le tentazioni new age sono dietro l’angolo, ma non mi sfiorano, poiché, nel mio rimandare a un estraniamento dell’io da sé, non vado conseguentemente verso un annullamento dello stesso. È un processo più complesso e singolare, ossia singolarmente vissuto. Ognuno, ognuno di noi deve guardare modestamente alla propria persona. Considerare che la ragione è il nostro limite, come lo è per la natura, che dalla ragione è dominata. Lo scontro, quindi, non è, come sempre si è detto, tra fùsis e lògos, non c’è scontro. Lo scontro è tra singolarità, ego, e collettività, altro. E questo altro, questo altro da sé non può più essere inteso nella semplicistica accezione di umano. Qui si tratta di creare una nuova umanità, che comprenda ogni singolo atomo di questo universo, che riduca l’uomo solo a una minuscola parte di esso, che lo conduca a una visione più grande, illimitata, ma capace di indicargli, poi, i suoi confini, i confini dell’intelligenza. La strada passa prima di tutto per il dolore, per l’avvertimento del dolore e per la lacerazione. Oggettivizzarsi significa aprirsi, squartarsi, esporsi. Mettere il proprio corpo, prima ancora che la mente, se davvero sono divisi, sul campo. E abbandonare le categorie di specie, di genere, di razza. In questo ordine. La specie va negata come tale. La scienza continuerà ad occuparsene e a studiarla, ma questo non deve implicare più una ricaduta etica in senso negativo, nel senso di un giudizio di merito di superiorità. Lo specismo va minato dalle basi. E il dolore del mondo va ascoltato, pure quando diviene insopportabile per la sua enormità. Se vogliamo sentire di nuovo la vita, aspirare alla felicità non come condizione contingente, ma come stato, dobbiamo passare per il dolore, il dolore della distruzione di noi stessi, e il dolore per la distruzione che abbiamo, invece, imposto all’altro. A tutto ciò che, da sempre, abbiamo considerato indegno di sentimenti, di sofferenza, di anima (e uso questo termine in modo del tutto laico). So bene che non siamo pronti per tutto questo, perché è più semplice chiudersi nelle celle sempre più ristrette di una personalità egotica che non sente e non vede nulla, se non la propria immagine, riflessa nello schermo del pc, ora, negli specchi , prima. Ma io non posso più tacere di fronte allo strazio che sento, lo strazio che infliggiamo e per il quale non veniamo puniti da nessuna forza soprannaturale, poiché essa non esiste, se non come ente da noi stessi creato per assolverci dal male che produciamo. Il male vero, il più grande è quello che portiamo al mondo, è l’indifferenza verso ciò che non è, che noi non riteniamo umano. Il male che facciamo agli altri uomini è innato, esso nasce con noi, ce lo portiamo dentro, e non c’è piacere più grande che quello di vincere sugli altri annullandoli. La differenza sta in questo. Pure se dovessimo abolire il male “umano”, noi non saremmo mai innocenti, non lo saremo mai fino a quando non usciremo da queste prigioni che sono i nostri corpi, fino a quando non diventeremo ciò che, in fondo, siamo: terra, acqua, sangue, carne, aria. Proprio come tutto il resto, come tutto ciò che – muto e dignitoso- da tempo ormai ci guarda e ci teme.

(elda martino, settembre 2010)

14 pensieri riguardo “La felicità e la lotta.

    1. caro Franco, come sai bene, l’esposizione in rete non mi piace, meno che mai quando non è sostenuta da una pratica quotidiana e rigorosa di mutamento di se stessi. la “rivoluzione”, per me, non è un’esperienza letteraria né un’operazione reazionaria. Bensì è la Vita. Ma, lo ripeto, questo tu lo sai.
      Grazie a te per l’invito e un bacio ai miei amici “naufraghi”…
      elda

      p.s. Stefano caro, no, non mi piace il verbo al posto della congiunzione. il verbo è assertivo, è sicuro di sé, è statico, immobile. il verbo dice, dichiara. la congiunzione, invece, suggerisce…un abbraccio

  1. Cara Elda, il tuo scritto lo ricordo molto bene…. l’ho letto una mattinata dello scorso settembre , mentre contemplavo dalla stanza il nespolo del mio giardino. lo guardo ancora oggi ed è sempre più nuovo, sempre più antico….

    stavo leggendo un libro di lettere del quasi dimenticato Hofmannsthal (amatissimo dalla “tua” Cristina Campo), in una lettera scrive: “V’è una differenza decisiva tra gli uomini che possono contenersi di fronte agli altri come spettatori e quelli che condividono sempre con gli altri il dolore, la gioia, la colpa: questi sono i veri viventi”.

    un abbraccio

    Antonio

  2. la miseria morale è a livelli spaventosa. abbiamo bisogno di creature mirabili come elda. e abbiamo bisogno anche della sua scrittura.

  3. Antonio caro, avercene, al giorno d’oggi di Hofmannsthal, di Campo, di Mansfield, di Moore e di altri “imperdonabili”! Avercene di “viventi” che sanno sentire e condividere la Vita, la Vita vera, di questo corpo universale…grazie ancora.
    E grazie, Amici miei. Siete sempre una gioia in questo mondo di cuori meccanici e tronfi, siete belli come il flos recisus di Virgilio, che se ne sta al margine del prato, silenzioso e innocente, dopo che l’aratro, il crudele aratro dell’uomo meccanico, lo ha falciato via, siete belli come gli occhi dei cani che si affidano senza remore, senza avarizie, senza calcoli.

    Bene, sarà che non ci sono più abituata, ma mi pare già di aver esagerato con la scrittura.

    un abbraccio

  4. Come un atleta spingi fino all’ultimo appoggio, poi dopo lo stacco, nella fase di volo, non ti manca mai il coraggio di lasciare solo il corpo per uscire e vedere cosa c’è realmente fuori.
    Cara Elda è bello vederti saltare così lontano.
    Un abbraccio e grazie.

  5. Mi piacciono tante cose di questo post.
    Noi possiamo trasformare come un punto nell’universo, l’universo intero semplicemente agganciandoci a tutto il resto.Datemi un punto, sarò il mondo.
    La relatività sta nei pensieri della sola mente ( corpo e mente sono due ma non due ) e in tempo di neutrini, siamo in tema con la scoperta di altre teorie.
    Quando il mio dentro è anche il mio fuori, e sono un tetto, una strada, un anziano, perchè essi risuonano in me, la mia carne è atomizzata e corre sulle vite parallele.
    Clemenza e compassione, avvicinamento alla passione degli altri : un turismo inedito.
    Io qui, vivo vite parellele, ortogonali alle vostre. Facciamoci un giro su questi punti legati gli uni accanto agli altri.
    (La brigantessa dell’Accidia, dalla Terra di Lavoro)

  6. Grazie del post.
    Niente giova di più di una rilettura e di una commozione ritrovata!
    Un abbraccio garbatissimo a Elda e, attraverso lei a tutti voi, amici, Gaetano.

  7. I testi di Elda non sono mai scontati. Mettono addosso una sorta di vertigine dovuta all’intensità del “come” e del “cosa” scrive. Privatamente mi ha fatto dono di un gruppo di suoi scritti che trovo assolutamente straordinari, per le ragioni appena dette. Io trovo che lei sia un’ottima scrittrice ed è un vero delitto che non possa dedicarsi alla scrittura con convinzione e dedizione.
    Mi trovo in una condizione che non mi permette di essere presente come vorrei . Ad ogni modo mi riprometto di pubblicare qui e altrove gli scritti donatimi da Elda. Per me sarà un piacere e un dovere farlo.
    A presto riabbracciare questa re-incarnazione all’ennesima potenza dei temi ortesiani (e non esagero).

  8. Stima e ammirazione -umane- enormi per chi sente e conosce bene il rischio della deriva (per chi scrive come per chi legge/ascolta) nel mero fatto linguistico, in sé, e quando e se comunica lo fa dal fondo e sulla base inattaccabile d’una pratica di vita quotidiana che può in qualsiasi momento smentire ogni chiacchiera vuota sui fatti.
    Se abitiamo distanti geograficamente, umanamente mi sento compaesano di Elda.
    E non solo. Un grande abbraccio a tutti i viandanti… Sì, la felicità è metro d’infinito.

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