La terra e la carne dell’io e del paesaggio

Metto qui il testo di presentazione di Terracarne e del suo autore, assieme ad alcune foto della serata al BAD MUSEUM di Casandrino il 18 Novembre scorso. Una maniera per far conoscere ai frequentatori del nostro blog  un luogo unico nella caotica  conurbazione napoletana, tra Casandrino, Sant’Antimo, Grumo Nevano e Giugliano. BAD è acronimo per Bunker Art Division. La BUNKER è una azienda  di Casandrino (Napoli) che progetta e produce macchine per l’edizia, vendendole in tutta Europa. Peppe Buonanno  ne è comproprietario e animatore principe del BAD,  in attività da una decina d’anni. Intorno al BAD sta crescendo il nucleo di una possibile Comunità Provvisoria della conurbazione sub metropolitana, che ha in comune con quella irpina la serena obiezione all’esistente, il gusto della bellezza e la voglia di aggregare attorno ad essa chi non accetta lo stato delle cose. Mi pare giusto mettere in connessione  frammenti atomizzati  che si sforzano di ri/leggere, ri/creare una realtà altra da quella sfinita in cui annaspiamo. Ne riparleremo. (Salvatore D’Angelo)

 

Presentare un  libro e un autore non sempre è agevole quando c’è di mezzo l’amicizia : si corre il rischio di farsi prendere dall’entusiasmo e di perdere l’    obiettività necessaria anche a chi, come me, si diletta a far di critica e a recensire.

Ma chi  ama i libri passa oltre, perché in essi c’è come uno specchio in cui il lettore non vede solo tracce, volto e sentimenti dell’autore, ma anche i propri, con il rimando ad altri libri tracce volti sentimenti, in una sorta di impalpabile gioco degli specchi necessario più che mai a decrittare  la realtà.

Quando il gioco funziona, vuol dire che il libro vive e parla all’intelligenza e all’emozione. E’ allora che  scatta  l’affabulazione del cosa dice l’autore e del come lo dice e se il cosa e il come  si fondono nella forma più appropriata.

Rispetto a Franco Arminio devo dire che quasi sempre il gioco ha funzionato. Ora cercherò di proporvene i perché.

Senza contare le sei plaquettes di poesia, questo è il suo ottavo libro in prosa . Prima di Terracarne ci sono stati Diario Civile, Viaggio nel cratere, Circo dell’ipocondria, Vento forte tra Lacedonia e Candela, Nevica e ho le prove, Cartoline dai morti e Oratorio bizantino.

Chi non ne conosce i libri non si aspetti romanzi o racconti né si aspetti il libro di viaggi o il reportage giornalistico, né il saggio sociologico o la raccolta di articoli riproposti per temi, tanto meno il referto  autobiografico. Nondimeno, i suoi libri  sono anche questo, in forme sorprendenti, come per Circo dell’ipocondria, Cartoline dai morti  e  Nevica e ho le prove; talvolta in quelle più distese di Diario Civile, Viaggio nel cratere, Vento forte tra Lacedonia e Candela , permeati di lirismo antilirico, o in quelle più politiche di Oratorio bizantino.  In Terracarne l’autore prova a sintetizzare il cosa  e il come  della sua scrittura in una misura media  di  stile alla portata di tutti e a lettura multistrato, con tocchi riconoscibili di innovatività.

 Ma di chi  e di cosa parla Arminio?

Parla invariabilmente di sé e del mondo che lo circonda. Risposta banale, ma solo in apparenza. Perché parlando di sé e dei luoghi in cui è immerso e attraverso i quali si muove in una erranza inquieta,  mette in pagina altro, mette in pagina  il nostro  tempo, attraverso due personaggi attanti : l’io narrante  e il paesaggio.

Se Il tema di fondo  è  il corpo vivo dello scrittore che si fa scrittura, tuttavia esso è messo in pagina attraverso i concetti di dio-poesia- morte, ossessivamente presenti nel corpo a corpo del sé con ciò che  lo avviluppa e ciò avviene come sporgendosi da un orlo  da cui osservare con ansia  la lotta tra essere e nulla di cui è impregnato il reale.   Lo segnalano  questi due secchi aforismi  da Nevica e ho le prove:  “io sono uno che sta dentro di me perché non ha nessun altro posto dove andare”, oppure “Vorrei vivere un minuto della mia vita senza di me”.

Il teatro della lotta è l’Irpinia d’Oriente e Bisaccia . Ma non per un nuovo strapaese, perché il luogo della paesologia è un  accidente naturale, un dato entro cui esercitare la fuga dal sé e dalla propria carne.

In questa fuga egli ausculta i sintomi  di un  male di vivere che nei paesi ha la tinta della rassegnazione e dell’accidia, nelle città  il colore dell’indifferenza e del cinismo.

Indicativa è questa notazione:

“Le giornate del paese procedono in verticale, nel senso che si mettono una sopra l’altra a formare il muro che ti separa dal mondo. Le giornate cittadine procedono in orizzontale, a formare la strada che ti porta nel nulla del mondo”. (Nevica e ho le prove – Sezione “Pensatori delle panchine”)

Ecco, il muro dell’immobilità dei paesi, il nulla del falso movimento delle città come opposti e coincidenti sintomi della crisi  di un sistema di rapporti e relazioni, di un modo di vivere e produrre, la cui cifra connotativa è la desolazione che pervade il paesaggio antropologico e geografico come un surreale panorama post-atomico.

Insomma l’idea pervasiva della morte  opposta al vitale, al creativo, all’umano; un’idea della morte a cui l’autore si ribella programmaticamente e lo dice nell’epigrafe poetica  in testa a DIARI DELL’IMPAZIENZA, altra  sezione di Nevica e ho le prove :

Salto da una morte all’ altra/ed è sempre dentro la mia vita/che mi ritrovo,/sabotatore universale/che vorrebbe far saltare/anche il suo covo./

Uno stato di  morte in vita, a cui l’io  si ribella con la notazione sarcastica, umoristica o sulfurea  attraverso i mille personaggi ritratti e  trasfusi in soggetti di pura fantasia .

Riporto bevi citazioni sempre la Nevica e ho le prove, uno dei liberi più belli:

Nino Ambrosecchia arrivava sempre in anticipo agli appuntamenti. Morì piuttosto giovane. (DICERIE pagina 92);

Quelli come Nicola Cefalo danno l’idea che hanno avuto molte occasioni di morire e non le hanno sapute sfruttare: (DICERIE, pagina 91);

A certi la vita deve proprio capitare tra i piedi, altrimenti proseguono come se non ci fosse.(PENSATORI DELLE PANCHINE, pagina 100)

All’ossessione panica della morte l’autore cerca di sottrarsi dando vita a quello che secondo me è il romanzo epigrammatico di Cartoline dai morti,  un libro di folgoranti piani sequenza dove ciascun personaggio dichiara il proprio esistere nell’attimo in cui dissolve: tragicomiche, grottesche microstorie suggerite in una frase, una parola,  a dar  vita – è il caso di dire – ai 128 morti che formano questo antiromanzo in progress scarnificato di struttura romanzesca, che rimanda alla  Spoon River di Lee Masters, senza il rimpianto desolato che permea quel testo, ma  con  l’asciutta evidenza delle istantanee e un humor nero appena rattenuto.

Eppure  Cartoline dai morti  non rappresenta solo l’esorcismo della  morte, ma il segnale che è l’ora di vivere appieno la vita, è la denuncia del  deserto che la soffoca nel nulla dell’inazione, come viene   sottolineato nella nota di congedo:

puoi (solo)scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa.”

Un altro tema del cosa che informa i libri di Franco Arminio è l’idea di Dio e del divino vissuti come assenza e che  qua e là si insinua  nei modi e nelle forme più insospettate, a volte con  humour surreale, come in questo tocco tratto da Nevica e ho le prove  :

“Il maestro Iannella è convinto che da un giorno all’altro  dio verrà a giustificarsi”.

Un dio cancellato dall’accidia, un dio- assenza  in un paesaggio interiore devastato dall’autismo corale, ma che si riaffaccia  in pagina attraverso la corda della poesia, la vera cifra denotativa di Franco Arminio, il quale è irredimibilmente poeta, anche quando scrive in prosa, una prosa che, grazie a questo, ha sorprendenti accensioni  nel piano incedere del reportage o del referto, come nelle belle pagine di Vento forte tra Lacedonia e Candela.

Terracarne fa parte della corda più paesologica dello scrittore, magari non è fra i suoi libri più sorprendenti, di certo rappresenta un tentativo riuscito di  dare una misura pop  ai temi, al linguaggio e alle forme della sua scrittura. Insomma, una maniera di coniugarli  in un  nazional popolare godibile, accessibile a tutti.

Centellinando le pagine  di Terracarne , se ne ricava come un sapore di buone vecchie cose fatte a mano, con la maestria degli artigiani.

Scandito in quattordici sezioni  – ciascuna a marcare lo stigma in cui sono iscritti i brevi capitoli- reportages – il libro poggia su una struttura dal peso leggero e su un ritmo prevalentemente disteso, interrotto nel suo cuore centrale dai testi di Vocabolario e di Rasoterra, i cui stili elencativo l’uno  e di notazione aforistica l’altro, danno ondulazione e movimento al ritmo stesso.

Si stagliano con nitore i due personaggi attanti principali: l’io narrante e il paesaggio, avvinghiati nel ben noto  corpo a corpo, che richiama quello di  L’homme et la mer di Baudelaire : una lotta non  di pugni e di violenza, ma  un  confronto trapuntato di domande quasi sempre senza risposta, perché l’uno è specchio dell’altro; e – si sa- lo specchio altra risposta non ha se non riflettere l’immagine di chi vi si pone innanzi. Così è il paesaggio per Arminio. Così è Arminio per il paesaggio che attraversa, e che vive con gli umori del momento, essendone continuamente stimolato.

La scrittura piana ma non piatta, che  accompagna la  scansione di capitoli e sezioni e che sciorina i temi della desolazione e dell’abbandono dei paesi, è una  critica poetica, ancorché e ancor prima che  politica, non gridata ma puntuale al modello di sviluppo che ha devitalizzato e spento la geografia d’un Sud e di paesi sfiatati nella rincorsa di modelli urbanocentrici, che li hanno resi simili a maschere d’ un kitsch da cadavere in putrefazione.

L’ errare tra le terre dell’ Irpinia, degli Alburni, della Lucania, della Puglia e del Molise, con incursioni in Abruzzo, Lazio, Marche e perfino in Alto Adige o Friuli, tra la terra del proprio io e la carne del paesaggio, in una geografia di erranze e fughe da sé a dai luoghi sono  sintomo della crisi del mondo nell’era del postmoderno e del post industriale.

Terracarne  coniuga in chiave di reportage paesologico i temi dell’orlo e della cementificazione, dell’autismo corale e della clemenza, dell’accidia e del rancore, i due veleni effetto e causa della morte dei paesi, osservati con disincanto e un fondo di malcelato amore. Morte dei paesi che è  morte tout court del mondo, di questo mondo, sfinito, periferizzato;  temi che si adagiano sulla pagina con l’incisività e lo stile poetico che denota la scrittura di Franco Arminio, come in  questa cartolina, emblematica di cosa si intenda per terracarne :

“C’è un’ora del giorno, tra le quattro e le sei del pomeriggio, in cui il paese diventa un sasso in mezzo alla giornata. E’ una vecchia pena, non puoi aggirarlo, devi salire fino in cima a mani nude e poi cadere verso il buio e la cena”

Il tema dell’alterazione e della perdita nel rapporto tra uomo e paesaggio, interiorità ed esterni, suggerito dall’erranza inquieta del paesologo tra luoghi che ben conosce, ma da cui si aspetta sempre uno scatto, una sorpresa.

Cogliere un paese al tramonto  è come  fissare  qualcosa che si è alterato e che sta per andare in nero. Così il bizzarro manifesto funebre  su un muro sconnesso  richiama la sensazione che altro si sia irrimediabilmente alterato e perso nella comunità indifferente dei paesi e nei luoghi, muti testimoni di quella rassegnazione.

Terracarne, via via che si procede nella lettura e si giunge in fondo,  lascia dentro un ritmo lieve, che  stimola alla riflessione e all’ azione attraverso le cadenze e il linguaggio della poesia, perché il libro non è ciò che appare in superficie, un reportage sui paesi sperduti del Sud interno, ma è poesia in prosa, poesia di  grana buona.

In alcuni tratti si ha la sensazione di essere presi per mano e condotti sulle alture, lungo valli e calanchi o nel bel mezzo di paesi- palazzine, nel caos polveroso della pianura devastata della Campania (in)felix dove giacciono i “paesi giganti”, felice espressione che suggella la pretenziosità di città-periferie che altro non sono se non paesi gonfiati a dismisura, escrescenze di metropoli.

Altre volte si ha la sensazione  di trovarsi a fianco di chi parla, in una sorta di  “campo americano” continuo della narrazione, ove ogni elemento nell’inquadratura/scrittura è bene a fuoco e lo sfondo è proscenio, quinta e dettaglio allo stesso tempo, come se si leggesse/vedesse attraverso una lente bifocale.

Ecco, in Terracarne mi pare di cogliere questo dato nuovo: la capacità di sintetizzare il paesaggio sulla pagina  in una sorta di “punto di vista del pubblico in sala”, a inquadratura fissa, come nel cinema degli inizi; ciononostante, la  scrittura  prospetta il movimento attraverso dettagli illuminanti, bastanti a se stessi, a esprimere in maniera fulminante un punto di vista critico, come in questi passaggi :

Nei paesi di montagna la gente col passare del tempo provvede a spianare le montagne russe dell’emozione. A quarant’anni sono già quasi tutti pianeggianti”

“Case di città in paese, case di paese in campagna, case di campagna in città, case ovunque”

“Il paese è un ring dove spesso la contesa è tra chi ha gettato la spugna e chi non si è mai messo i guantoni”

“Nei paesi il sentimento prevalente è questo: non c’è niente da fare e anche se ci fosse qualcosa da fare non potremmo farla noi”

Osservazioni denotative d’uno  stile che sprizza in pagina con  fluidità, come nato di getto, eppure frutto di un lavoro costante di revisione e di cesello.

Una scrittura  alla portata di un pubblico molto più vasto della ormai familiare platea del poeta bisaccese; e che  in Terracarne  trova ( se vuole) non solo evasione  ma anche una maniera piacevole  di approcciare temi  di sottotesto sintetizzabili in questo straordinario esergo :

“Il punto in cui mi trovo è definitivo. Sento chiaramente la morte, la morte del mondo e degli umani. La specie che ha creduto di poter dominare la terra, corpo celeste, è moribonda. Non ha risposte, non sa dove andare, è smarrita senza riuscire a vedere il suo smarrimento, è sfinita senza avvertire la sua condizione. Ci siamo presi troppa cura di noi stessi, e per troppo tempo. Ognuno per sé, e poi, ognuno per il suo nucleo, la famiglia, il paese, la nazione, la specie. Nuclei sempre più piccoli, sguardi miopi. Possiamo agitarci quanto ci pare, l’unica vera via è ripensare, ripensarci come parte di un tutto molto più importante e grande di noi.”

Uno scritto di Elda Martino davvero forte, perché riassume in poche righe la tensione di   fondo verso cui vorrebbe inclinare la scrittura arminiana.

Glielo auguro di vero cuore, come auguro un felice esito di vendite per Terracarne e tanti e nuovi lettori attenti.

Che così sia, dunque.

9 pensieri riguardo “La terra e la carne dell’io e del paesaggio

  1. Io amo i racconti di Karen Blixen che in un bellissimo racconto intitolato” Il secondo racconto del cardinale” affronta il problema del rapporto tra narratività ed identità, descrvendo la seguente situazione: c’è una signora che chiede al cardinale: “Ma tu chi sei?”, e a questa domanda “chi sei?” il cardinale risponde: “Risponderò con una regola classica: racconterò una storia”. Questo tipo di domande richiedono l’identificazione di una persona, l’individuazione di essa colta in tutta la sua irripetibilità, ossia nella irripetibile esistenza che ciascuno di noi ha, e c’è una sola domanda capace di far riemergere questa esistenza in tutta la sua irripetibilità: “Chi sei?” Perché se io chiedo: “cosa sei?” ebbene, allora posso rispondere accennando a una mia qualità, al mestiere che svolgo, a una mia appartenenza culturale, alla mia natura biologica, la mia specie di appartenenza… ma il “chi sei?” ha una sola risposta intesa come risposta verbale che può rendere il suo contenuto dotato di senso. Risposta che si dà nel discorso e che è appunto la narrazione, il raccontare una storia. In questo caso è ovviamente la storia di una vita.Ecco allora capisco l’imbarazzo e la reticenza di Franco nel rispondere alla domanda di rito….”sei un paesologo? Sei irpino? Sei maestro elementare? e giu di lì….

  2. salvatore, mi perdonerai se mi fermo per ora solo alla presentazione del post. ti sono massimamente grato se trasmetterai i miei deferenti omaggi a Buonanno.
    Un imprenditore che 1) produce 2) a Casandrino 3) macchine 4) per calcestruzzo e 5) ospita la presentazione di arminio, illustra al meglio la felice intuizione del nostro che “La realtà, a dispetto di ogni oltraggio, rimane colossale e merita di essere raccontata”.

  3. nei territori minacciati da assalti (o già assaltati come è successo nelll’enorme periferia a nord di napoli) si costruiscono bunker. il BAD come fisiologica difesa.
    Salvatore, lunga vita a te e a chi come te umanizza questi luoghi.

  4. il BAD nasce dallo spirito visionario di Peppe Buonanno. la Bunker è una realtà aziendale che, rispetto alle imprese presenti sul territorio, brilla per l’umanità che circola tra i dipendenti e il senso etico della famiglia Buonanno. è una vera eccezione nel panorama del territorio a nord di Napoli.
    Il BAD nasce da esperienze lungamente sedimentate di dedizione al lavoro , di passione per l’arte e amore per la propria terra.
    è una “sacca di resistenza” come l’avrebbe definita Berger…….

  5. Prendendola da un altro lato volevo dire che anche nei dintorni delle betoniere battono cuori puliti e intelligenti. Buonanno e il suo bunker aperto – accipicchia, che ossimoro! – segna per tutti una strada e per la paesologia un bell’insegnamento a tenere sempre fermo il dovere del discernimento e della ricerca del clinamen…

  6. @ Salvatore e @ tutti gli Amici del nostro blog:
    vivo compiacimento per il ricco post e per il clima meraviglioso delle sensibilità ed impegno per questa umanità nuova che perseguiamo da più fronti, per come erigiamo muri contro l’indifferenza, lo scempio, l’abbandono, per come noi massa critica poniamo attenzione a riscoprirci nell’onestà intellettiva; un abbraccio a tutti per dirvi sempre che sono qui e sarò con voi, Gaetano:-)

  7. ça va sans dire, Paolo. Ti aspetto quest’oggi ad Andretta. Grazie Lucrezia, ma il merito è tutto di Peppe Buonanno, una bellissima persona. Spero di coinvolgerlo quanto prima nei nostri giri paesologici in Irpinia d’Oriente e nel Cilento, assieme a tutti quelli che frequentano il BAD e continuano ad essere irriducibili sacche di resistenza, come giustamente chiosa Antonio D’Agostino, altro imprescindibile animatore del Bad, ora col progetto di APO ZONA, la cui prima puntata – e non a caso – ha visto la presenza di Franco Arminio. Ma di APO ZONA ne riparleremo.

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