I Sicari della terra

Oggi è stata una bella giornata . Ho visto Senerchia vecchia svuotata degli umani, la cascata dell’Acquabianca che scrosciava in una piccola gola in mezzo al bosco. La Natura parlava e noi la attraversavamo quasi alieni. Dobbiamo rieducarci a essa, re-imparare ad approcciarla da figli e non da padroni/predoni. Poi i momenti del convito e degli scambi comunitari. Dentro di me sentivo una presenza e una mancanza. Tornato a caso, trovo su fb un tag, un invito a leggere una nota. L’ho letta. E la metto qui, d’istinto, senza che l’autrice me lo abbia chiesto e senza sapere se è d’accordo. La metto perchè trovo che questa scrittura sia un bel dono anche per noi, compagni d’avventura, da parte di un’amica grande e imprescindibile. (Salvatore D’Angelo).

I SICARI DELLA TERRA

di Elda Martino

La terra, la proprietà, il figlio a studiare fuori, la vita a spezzarsi la schiena e, quando non si lavorava, a inchinarsi davanti ai medici condotti, ai farmacisti, ai veterinari, ai sindaci.

Il cappone a Natale, le mogli a mangiare in piedi, vicino alla porta, a portare il peso, dividendolo coll’asino. Il maiale a gennaio, appeso per i piedi a strillare con tutti i vicini ad assistere alla sentenza, il sangue a colare nella ciotola per il sanguinaccio, il coltello e l’acqua calda per strappare il pelo. Lo scatto d’ira, lo sguardo basso, cupo, mai buono. Il mulo che si piegava sotto la fatica, le frustate con i rami di nocciolo, le gambe sanguinanti dei figli, le alzate prima dell’alba, la colazione, dopo il lavoro, alle dieci, col pane di due giorni prima e la frittata con i peperoni. Il bue che tirava l’aratro, e poi macellato per ricompensa, l’agnello da sgozzare a testa in giù a pasqua e la festa intorno alla morte. La chiesa, la religione, le processioni, il grano verde portato il venerdì santo con i nastri colorati intorno alla zolla. E le dicerie, e l’onore, le pezze sullo stesso pantalone di fustagno ormai lucido. E le passeggiate di domenica, con gli uomini dietro e le donne davanti, come ai funerali, quelli con la banda; il calzolaio a suonare la tuba, il barbiere la tromba e il becchino il tamburo, le serrande che si abbassavano quando passava la bara. E dopo le case nuove, le case della 219, tre piani e mezzo di cemento armato in campagna, la casa nel sottano e la plastica sui divani del salone la piano superiore, i termosifoni spenti e il camino acceso, i bagni buoni che non si possono sporcare, l’odore di muffa e di chiuso. I contributi, il doppio lavoro, la fiat e la mietitura, il tabacco, le quote latte, i consorzi agricoli, le olive, i certificati medici falsi a luglio e a ottobre. E le pale eoliche, ventimila euro all’anno di fitto, i confini, i mediatori, i SUV, i trattori. Le botte a sangue alle mogli e alle figlie e alle sorelle, i figli maschi esposti come vitelli sulla coperta buona. E poi le femmine vendute insieme al corredo steso sul letto matrimoniale, dieci asciugamani di lino, dieci lenzuola ricamate, dieci pezzi di panno tessuto a mano con le iniziali a punto pieno. I pidocchi, il vino alle sette e poi alle dieci di mattina, i rutti, la sera, vicino al fuoco, la sporcizia, le bestemmie. I bambini lasciati a giocare nella merda di vacca, il freddo insopportabile, gli aborti in casa con la mammana per non avere il dodicesimo figlio, i materassi di pannocchie. La mia tata, Carmela, Quàquà, le guance rosa come ciliege, l’oro degli orecchini a pendaglio, il fazzoletto a fiori rosa in testa, la gonna larga e il sonale sopra, la camicia bianchissima di cotone che sapeva di lavato in casa. Ogni giorno, a piedi, dalla campagna dei nonni, dei miei nonni. Entrava con la sua voce da donna antica, la sua voce di testa e mi chiamava con quel richiamo che assomigliava alla voce delle oche che chiamano i figli. Quaquaqua , dov’è la mia paperella?Colombella, pulcino, paperella, agnellino, coniglietto , mi chiamava come tutti gli animali, e non bambola, principessa, non un nome umano. Arrivava e io saltavo dal letto, la sua colazione, la rosetta appena sfornata che lei mi spalmava di burro fatto col latte delle vacche che mio nonno aveva portato dall’Emilia, vacche enormi, grandissime. Il giorno che arrivarono, dieci erano, tutti i contadini del paese scesero a vederle. Le corna lunate, il corpo enorme, il manto bianco e marrone. Vacche rigogliose, silenziose e serene. Carmela e suo fratello Nicola, che l’aveva violentata da bambina e che lei curava come un figlio. La loro casa, al margine del terreno, sotto la grande rupe di arenaria che faceva da ingresso ai “Due olivi”. Dormivano nello stesso letto, un letto altissimo, col braciere sotto la rete. Le coperte fatte all’uncinetto, come lo scialle di Quaqua. Da un lato la stufa sempre accesa col fornello sopra per cucinare. Il bagno fuori. Una sola finestra per la luce. Nicola, il fratello di cui avevamo tanta paura. Parlava da solo e girava per la campagna. Lo trovavamo spesso vicino ai grandi pozzi d’acqua, dove c’erano anche i rospi, enormi, boriosi e allegri. Lui stava lì e ci chiamava e noi scappavamo. Nessuno ci aveva detto perché, sapevamo solo che dovevamo correre via. Carmela Quaqua lei no, lei non correva, lo lavava come un eroe tornato dalla battaglia, lo rivestiva e gli preparava la cena e si coricava con lui, ogni sera. Non si era sposata, nessuno l’avrebbe mai sposata. Gli occhi azzurrissimi di Carmela, le sopracciglia sottili, le rughe intorno agli occhi quando sorrideva e le sue mani ruvide, incallite per il lavoro ma capaci di carezze vere. Portava conigli e oche e agnelli e galline dalla campagna e uova e verdure e pane sfornato da poco. Mia nonna si andava a nascondere quando li uccidevano e piangevamo tutte e due. Non mi permetteva mai di vederli nel momento della morte. Voleva proteggermi, ma non ci riuscì perché c’erano altre campagne e altre abitudini. Zia Maddalena, un giorno, uno dei tanti giorni che mi avevano mandato da altri parenti di campagna per farmi prendere aria buona, mi disse di tenere per le zampe di dietro un coniglio. Era un coniglio grigio con grandissimi occhi scuri. Tremava, io non capivo. Poi, zia Maddalena, gli tagliò la gola con un coltello grande, troppo più grande di quella piccola creatura e il coniglio continuò a tremare mentre il sangue rosso gli usciva pulsando dal collo arrivando sulle mie braccia scoperte. Portavo una scamiciata rosa quel giorno. Le zampe smisero di fare resistenza, il corpo si afflosciò nelle mie mani. Scappai terrorizzata. Fu quella la prima volta che vidi la morte. Non lo dissi a nessuno perché sapevo che zia Maddalena sarebbe stata sgridata, così come sapevo che non dovevo raccontare tante altre cose che vedevo. La colona dei due olivi che comandava come fosse la padrona anche sugli altri coloni, era lei che decideva tutto, girava nei campi come una padrona, sapeva di stalla, di pecora, aveva gli occhi grandi e di un colore incerto e aveva una stanza nella quale nessuno poteva entrare, già girare l’angolo e proseguire nell’aia, nella sua aia, poteva essere un motivo di colpa. La colona che aveva preso mio zio, il più piccolo dei fratelli, quando lui aveva tredici anni e lei trenta, lo aveva preso, forse, nel granaio, o forse nel grande deposito delle ciliege e delle amarene. La colona che, quando mia nonna arrivava, non veniva a salutarla, ma aspettava che fosse lei ad andare in casa.Il filare di bosso altissimo fatto piantare dai nonni. Centinaia di metri di bosso per raggiungere le due case coloniche. Le grotte di arenaria e i fossili. Il cavalluccio marino che gli operai mi portarono un giorno di maggio, e altre conchiglie con valve enormi, grandi più delle mie mani unite e la sabbia così fine, gialla, sottile, impalpabile come cipria.C’erano montagne di sabbia come quella da scalare, ci rotolavamo dentro e inventavamo giochi, avventure, lì dalla cima. Intorno i contadini lavoravano, c’era la raccolta delle ciliege e quella delle amarene, enormi cesti di palline rosse e quasi nere che venivano su e giù dai campi. Le portavano nello “stabilimento”, come lo chiamava mio nonno. Lo stabilimento, una costruzione enorme, con tre volte, tutta di mattoni rossi. Lì dentro si faceva la cernita e, poi, c’erano le spedizioni e la lavorazione. Poi, un giorno, lo “stabilimento” non raccolse più il rosso cupo delle amarene, ma gli autobus del comune, tutto lo spiazzo che, prima, era servito per stendere la frutta e che, a giugno, sembrava un mare di sangue risplendente al sole, era diventato un parcheggio di motori puzzolenti e grandissimi, arancioni e verdi. Andavano e venivano fino alle otto di sera. Allora i cancelli si chiudevano. La casa di Quaqua era piena della polvere che quei mostri alzavano, ce n’era sul tetto, sui muri di pietra, sulla porta di legno sbarrata con una trave di castagno. Le ciliege rimanevano sui rami. Solo noi andavamo a trovarle, salivamo sugli alberi e ci sporcavamo le mani e la faccia. Certe volte i contadini ci portavano le amarene in grossi bicchieri e le cospargevano di zucchero o di miele. Noi le schiacciavamo col cucchiaino e bevevamo solo il succo e a me tornava in mente il sangue che solo una volta avevo visto e vomitavo e piangevo. Più tardi la grande casa colonica in fondo ai due olivi si svuotò, i suoi abitanti andarono via, non so dove, non me li ricordo, non ho alcuna memoria delle loro facce. Mi ricordo solo una figlia femmina che portava al pascolo le pecore. Aveva spesso gonne che erano state di mia zia o di mia madre, gonne larghe, allegre, di cotone o di lino, e una frontiera a tenerle i capelli che erano corti e castani. Solo ogni tanto potevamo andare con lei, Santina si chiamava, ci raccontava dei serpenti che andavano a bere vicino al pozzo più lontano e, quando arrivavamo lì, ci divertivamo a gridare i nostri nomi nell’atrio del pozzo e a sentire l’eco che ne veniva fuori, voci acutissime e confuse, risate e corse improvvise perché a qualcuno era sembrato di vedere il serpente nero. La casa era cupa, aveva una scalinata di pietra che portava direttamente al piano superiore. Sotto c’erano i depositi per gli attrezzi e la stalla per le mucche. Aveva anche lo stazzo per i maiali e quello per le galline, i tacchini. Poi c’era il recinto dei conigli. Conigli di tutte le razze. Quelli che mi facevano più paura erano i conigli sardi, così li chiamava il colono. Grandi occhi rossi e orecchie nere e la punta bianca, assai più grossi degli altri, ci dicevano sempre di non toccarli perché mordevano. A me sembravano solo delle povere anime in pena costrette tra le sbarre della rete di ferro che non sapevano rompere. Stavano lì, dritti, col muso che annusava perennemente l’aria. Enormi giganti della loro specie resi impotenti dalla mente dell’utile, dall’intelligenza. Le giornate in campagna, ai due olivi o alla valle, avevano qualcosa di amaro. Forse era l’odore della cenere e del fumo che si alzava al crepuscolo, quando gli uomini tornavano dalla terra. Ogni cosa diventava silenziosa, ogni risata veniva repressa, e anch’io che non ero di quel mondo, che ero un’ospite, mi zittivo e mi impaurivo di fronte a quelle ombre scure e alte che entravano in cucina e si sedevano vicino al fuoco, senza una carezza per i figli, una parola per le mogli. Non ero di quel mondo e di nessun altro. Non ero della casa in paese, bella, con le mattonelle di vietri in tutte le stanze e la grande libreria e il mio letto di ferro battuto con una placca di ottone su cui stava inciso un angelo e la madonna di gesso che mamma aveva fatto fare da uno degli ultimi gessai di Ariano. Non ero delle altre case, quelle dei nonni, maestose, imponenti e caldissime, piene di oggetti straordinari e sempre profumate di cera per i marmi o di cibo raffinato. Non ero delle strade del paese, non ero delle pietre bianche della via che scendeva al corso, pietre scivolose e sconnesse, non ero dei muri, delle porte, delle finestre aperte con le coperte buone a prendere aria. Mi portavano in campagna per gli animali. Solo con loro sorridevo. Fuggivo gli esseri umani, fuggivo i giochi, fuggivo le voci. Cercavo ogni forma di vita, camminavo con lo sguardo basso sulla terra per non calpestare nulla che fosse vivo, mi incantavo per ore vicino a un formicaio. Sentivo l’ingiustizia di quel mondo, la sentivo gridare in me come una seconda natura, una natura più profonda, più vera. Ai piccioni si tagliavano le piume delle ali per impedirgli il volo, stavano a terra cercando disperatamente di alzarsi, aprivano ossessivamente la ali, le scuotevano, lanciavano grida gutturali, non si spiegavano la loro condizione; me li ricordo nel recinto di una fattoria, a terra, insieme alle papere, alle galline, umiliati, frastornati, ultimi degli ultimi senza la possibilità di fare ciò per cui la Natura li aveva fatti; e me li ricordo nel retro di un ristorante, in fila, morti, orrendo catalogo dell’ingordigia e dell’oscenità umana che si vanta del suo dominio, che lo mette in menu, che lo vende come fosse merce, merce e non vita. E poi c’era il mercato, il lunedì e il mercoledì, qualche volta ci andavo con Quaqua o con qualcun’altra delle donne che lavoravano dai nonni. Le contadine arrivavano a vendere, vendevano tutto, soprattutto gli animali. Li vendevano vivi. Tenevano le galline per le zampe a testa in giù, e i conigli, a coppia, per le lunghe orecchie. Gli occhi di quegli animali non mi hanno mai abbandonata. Lo sguardo attonito, sorpreso di chi, un’ora prima, era “libero” e ora veniva maneggiato da dita sapienti che decidevano cosa farne. Quando venivano comprati, le contadine li uccidevano davanti al cliente. Gli rompevano il collo alle galline e ai piccioni, ai conigli glielo tagliavano, proprio come aveva fatto zia Maddalena. Alla fine di quelle giornate, gli spazzini passavano a pulire, a togliere le tracce del massacro, a nascondere la vergogna. I cani randagi frugavano per recuperare quel poco che era stato buttato via, viscere, pelle, occhi. La miseria del mondo umano era tutta lì, in quel mucchio di resti che venivano lasciati a terra, nel sangue che si spazzava con l’acqua, nel ricordo di quegli sguardi che erano vita e che rotolavano ora come biglie su una pista malfatta. Erano gli uomini e le donne gli esecutori, i sicari spietati di ciò che non poteva appartenergli, che non ci appartiene perché non è nostro. Ogni giorno aveva il colore di quegli eccidi silenziosi, ogni mano ne portava la macchia, ogni anima la colpa.

E tu, Carmela? Quanti conigli, quante galline, quanti piccioni hai ucciso perché te lo avevano comandato? Lo sapevi tu, con i tuoi occhi cristallini e sereni sul mondo, che quella era vita non tua, non nostra? Te lo chiedevi la sera prima di addormentarti? Ti rimproveravi per questo o per cosa invece? Tu che io aspettavo come un pulcino la chioccia, tu che mi lasciavi stare attaccata alla tua gonna di tela pesante per ore mentre preparavi la pasta a mano sul grande tavolo di marmo con movimenti lenti e costanti, raccontandomi brevi storie di streghe e orchi o cantandomi antiche canzoni con la tua voce da colomba? Eri innocente anche tu, come loro, sorridevi a un mondo che non ti amava, sorridevi e cantavi come gli uccelli. Non ho mai saputo i tuoi pensieri, non parlavi mai di te, ma mi facevi il verso di tutti gli animali e, quando chiamavi le galline, facevi un suono incantato, dolcissimo e ritmato e loro ti venivano intorno e le oche si facevano accarezzare e agitavano le ali bianche e tu sembravi una di loro, inconsapevole, felice, leggera e dolente a dispetto di quel corpo tarchiato e nerboruto che la tua genìa ti aveva dato, a dispetto del fratello pazzo, della povertà, dei mariti che non erano mai arrivati, del tuo essere trasparente per molti. Quando sei morta ti hanno messo il fazzoletto più bello che avevi sulla testa, allora ho visto che avevi pochissimi capelli, ancora grigi, e dei boccoli sottili sottili che ti scendevano lungo il collo tozzo. Avevi anche gli orecchini a pendaglio con la chiusura a spoletta, per non perderli, e un anello e una collana di maglia d’oro che ti aveva regalato mia nonna, una collana lunga, a due giri con due ciuffi di catenelle piccole alle estremità. Sorridevi e le guance erano piene. Tu non sei tornata alla terra, Quaqua perché sei sempre stata con lei, non l’hai mai tradita, non l’hai mai avvelenata con l’odio, non hai mai creduto che fosse tua, le sei appartenuta, sempre. Tu non dovevi chiederle perdono, non dovevi pentirti, non avevi alcun peso sul cuore. Hai vissuto come quei conigli in gabbia, come gli agnellini al pascolo, come le belle mucche dell’Emilia. Hai vissuto senza pretendere nulla, senza chiedere nulla. In silenzio o cantando, e ogni tuo dolore lo hai affidato alla più sicura delle amiche, lo hai condiviso con la Natura e non con gli uomini. Quando ero già grande, un giorno, venni a trovarti, mi chiamasti colombella e gli occhi lacrimavano e tu ti asciugasti le guance che io pizzicavo da bambina col dorso della mano e, poi, con la punta del grembiule. Colombella, come ti sei fatta grande, colombella mia! Ogni essere, per te, somigliava a un animale, perché tu, Quaqua, mia dolce e innocente Quaqua, sentivi che la vita è uguale in ogni cuore, in ogni radice, in ogni stelo tremante. Tu sapevi la Vita e la amavi, colomba tra le colombe, grano tra il grano, cucciolo tra i randagi afflitti dalla fame, goccia d’acqua nel pozzo del nero serpente,ciliegia rossa nel cesto di mille ciliege.

(elda martino)

 

15 pensieri riguardo “I Sicari della terra

  1. Sono commosso , quasi senza parole, davanti a tanta forza evocativa e bellezza. Qui pulsano ricordo, amore, dolore, orrore, dolcezza, tenerezza, smarrimento e sgomento in un unicum della rappresentazione che è ritmo e verità, con passo drammatico, come è drammatica e stupefacente la Vita che viene uccisa a dosi sempre più industriali da noi, dalla nostra specie…

  2. la successione, la cadenza gli eventi e lo stile danno vita al racconto. L’evocazione, la semplicità di esposizione, il rimembrare ciò che in molti di noi era rimasto celato sotto la coperta del dimenticatoio da forza e carattere al tuo articolo. Apprezzo lo stile della scrittura, uno dei pochi di questo blog rimasto ancora sincero e non pompato, schietto come la vita.
    Auguri di buon anno.
    (dal paese morente)

  3. io rimango dell’idea, espressa molte volte, che elda è il fuoco centrale di questa nostra esperienza collettiva. e ieri si sentiva molto la sua assenza.
    pure sulla scrittura mi sono espresso molto volte. elda è più di una scrittrice, è un essere sconfinato e rendere formalmente questa condizione non è facile. è un’impresa a cui tutti dovremmo guardare con trepidante partecipazione.

  4. ecco, una buona idea sarebbe fare un bel copia incolla di questo testo e mandarlo in giro agli amici, come viatico per l’anno nuovo. comunità provvisorie ha questi umori, questa sensibilità….

  5. C’è in questa pagina di Elda qualcosa che sta insieme al suo lavoro di archeologa, al venire alla luce dei reperti sotterrati fra cumuli immensi di presente caotico e mai leggibile per davvero. Poi, ti metti a scavare, e vengono fuori i reperti e ti mostrano come ‘erano’ le cose e come stavano tra di loro. Lo stesso modo di comporre il testo è un po’ così, quel periodo che non vuole finire, così denso e tutto disposto in altezza. Un abbraccio. Adelelmo

  6. Questo commento-appello, che arriva dall’estremo oriente irpino, aiuta a leggere il post di elda.Confesso di essere un ladro, ho rubato vita e tagliato ali. Da maschio-bambino dovevo afferrare un orecchio del maiale mentre lo sgozzavano. Cara elda il tuo racconto mi colpisce e mi fa male, ed è giusto così.

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