Identità Provvisorie

Sono davvero lieto che lo scritto di Papini abbia suscitato un commento come quello di Mauro Orlando, così corposo e intenso, e su cui adesso mi piacerebbe dire qualcos’altro, approfittando di questa profonda e genuina sponda di senso, e rispondendo altrettanto provvisoriamente alla già provvisoria, come da titolo, e prima risposta di questo possibile dialogo sull’identità, oltre che le comunità, provvisoria, attraverso la “solitudine” di Giovanni Papini e dell’essere umano.

“L’intendere l’identità come sostanza significa legare l’identità a una sorta di a priori trascendentale, mentre l’identità che corrisponde a una “storia di vita” è, letteralmente, ciò che ci si lascia dietro”

Sono sostanzialmente, parola che uso non a caso, d’accordo su questo fulcro tematico. Sostanzialmente come concettualmente, come a dire: a priori da ciò che sono, sono d’accordo.
Per quella poi che è la mia storia, pur ancora breve, di vita, dissento parzialmente, non per una risposta solo parzialmente convincente, ma per il tentativo di oggettivizzazione che ne traspare, o che almeno mi pare di cogliere. Parlare di identità in termini oggettivi non è per me possibile, e anche se la tesi che ho letto mi affascina in modo sincero, non posso che confutarla.


Io, ad esempio, perchè si può esser esperti al massimo di se stessi, non  so dove inizio io e dove inizia l’altro. Questo, per iniziare, è il peggior presupposto per oggettivizzare una teoria sull’identità. Altri da me, grandissimi, peraltro, hanno provato a rispondere a quest’interrogativo millenario. Forse, per dirla con le parole di Rimbaud, “Io è un altro” e una dose di narcisismo è una spezia che da profumo alla vita, parafrasando Kohut, perchè come si può amare gli altri senza amare pur in modo limitato se stessi? Concluderei questo piccolo ciclo di citazioni che ci aiutano ad indagare la tematica in esame con Plotino, che diceva saggiamente ed ironicamente che “la vita non è qualcosa di personale”, per affermare il dubbio e la complessità come principi insondabili, le cui domande possono condurre a una sola risposta: la meraviglia di sentirsi immersi in qualcosa di immenso, e per questo la necessità di ritrovarsi in un piccolo contesto, in una comunità, in una relazione, di cui qua tanto viene scritto per testimoniarne l’urgenza, o comunque, a prescindere dal luogo esatto, un luogo generico, talvolta solo immaginabile, dove ognuno possa raccontare storie senza l’illusione di raccontare altro da se stesso. Quel se stesso da amare, ma non per amare il prossimo tuo come fosse me stesso. Quel prossimo da amare, amandolo per ciò che egli è, perchè una relazione, una comunità di relazioni, è anche una storia di conflitti, di scontro, di dialettiche opposte che mentre si fanno la guerra hanno a cuore quel qualcosa che sopravvive ad esse, alzando barricate per non farsi troppo male e salvare una storia dove il conflitto e la solitudine sono accettati come l’oceano accetta il vento, ed anzi, ne costituiscono la componente più tipica dal risultato del loro incontro: le onde.

Si dice, la solitudine, ma la vera solitudine, nonchè l’unica, è la solitudine dell’uomo moderno che non può permettersi di sentirsi solo,  circondato da altri per finire nel non sentire neppure se stesso, in quel vuoto pieno che permea il tempo presente, che evoca quella parola qui contestata, quel “narcisismo” di oggi che mostra meccanicamente presunte grandezze rivelandone la miseria per sfogare una fragilità che ci si ostina a nascondere a se stessi, mal supportati da legami precari con gli altri significativi, ma soprattutto significanti. Un altro “narcisismo”, che io chiamerei con passione, studio, discorso, e non amore, per e su se stessi, è quello che mostra la propria presunta miseria nel Tutto che ci sovrasta rivelando la grandezza implicita d’un Sisifo che non è condannato a portare il masso sulla cima del monte, ma che dona il masso allo stesso, un Sisifo che effonde consonanze di senso nella tensione al bello di cui vibra, con echi di abbracci ad una domanda che sfugge e che trova risposta solo nella terra e nella spiritualità.

Eccolo, Giovanni Papini, terra e spirito, in un uomo che ha dedicato se stesso, non senza coraggio, alla “vita della mente”, come ha scritto Coetzee, e che col primo narcisismo, quello dell’oggi, non c’entra davvero niente. Una solitudine creativa e coraggiosa, umile e testarda, che oggi, cent’anni dopo l’esser stata scritta, permette ad un ragazzo come me di conoscere un fratello insospettabile, nato con un secolo d’anticipo, su me stesso e sul tempo, tanto da destare l’impressione di vivere in “un mondo dopo il mondo”, e, citando Emidio Clementi, con il peso del mondo sulle sue spalle, quel “peso del mondo che è un peso d’amore”.

– Opera di Sam3, 2009, Campofelice di Roccella (Pa), visibile al seguente link: http://imageshack.us/photo/my-images/406/43sisifo.jpg/

6 pensieri riguardo “Identità Provvisorie

  1. Non so se si tratti di sentirsi solo, ma credo che vi sia una certa differenza fra sentirsi soli ed esserlo. Moltissimi esseri umani provano la prima condizione, e si augurano, più o meno, di non affrontare mai la seconda.
    Anche quelli di noi che si distanziano dalla società e iniziano un’esistenza nella natura.
    M’incuriosisce questa affermazione: “non so dove inizio io e dove inizia l’altro”.
    Già nell’azione dello scrivere “non so” che equivale (ovviamente) ad “io non so”, definisco un io che è circoscritto, non visibile dal di fuori ma benissimo da chi lo esprime.

    1. “Già dire “Io”, è percepirsi in un insieme di Altri, dare voce all’urgenza (culturale?) di identità, più che all’istinto (connaturato all’esperienza di essere) della stessa. “Io non so”, ingloba questa questione dell’Io ed inoltre è un’affermazione che senza il confronto con l’Altro, e soprattutto senza un Altro che sa, non arriveremmo mai a dire.
      “Io non so”, è un buon esempio di ciò che volevo esprimere con l’articolo, grazie di questa bella sponda.

  2. che belle “sponde” e che bella compagnia!!!
    …preciso:
    Ci sono parole buone che ci sostengono nelle decisioni importanti della nostra vita,che illuminano i passi che compiamo, che ispirano i nostri modi di orientarci nel mondo,che riempiono i vuoti e gli spazi della nostra mente,dei ricordi,della memoria e danno senso ai rapporti con gli altri. Ma le stesse parole possono essere ‘avvelenate’ quando confondono realtà,finzione e aspirazione e diventano “mito” per persone ,singoli,gruppi o comunità e diventano “sostanza”,”essenza” che escludono il dibattito,il conflitto,le differenze o peggio si fanno “sostanza” biologica,storica o culturale sfociando nel razzismo e nel fondamentalismo. Essa è parola che determina incompletezza,comunicazione,convivenza,scambio,interazione …alterità. Non privilegia la coerenza,la stabilità,l’unità,la chiusura ,la sufficienza ma l’apertura,la comunicazione,lo scambio,il mutamento,la trasformazione,la creatività e l’innovazione. Identità può diventare parola avvelenata e tossica pur essendo parola nitida e bella,fiduciosamente condivisa,di uso universale quando promette ciò che non c’è,quando ci illude in ciò che “non siamo e non vogliamo”,quando fa passare per reale ciò che è finzione ,al massimo ,aspirazione o “falsa coscienza” e “mito” di una modernità strapiena di beni,di merci,di ricchezza e desolatamente povera di relazioni e di progetti di convivenza e condivisione.

    1. Si, son proprio le parole più belle, rigonfie e piene di significato, le più pericolose. Si pensi, per esempio, a cosa è divenuta la parola “crescita”, un tempo ciclo di vita di ogni vivente, ed oggi binario obbligato d’un modello di mondo allo sfascio. Spesso per esempio mi chiedo, come molti, se la parola “decrescita” sia la parola (su concetto non ci sono dubbi, almeno qui) giusta.
      Su questo tuo commento, Mauro, metto un bel punto esclamativo a coronamento d’un bellissimo (almeno per me) dialogo. In ogni caso, non ci poteva esser occasione migliorare per fare la tua conoscenza, augurandomi di aver sortito qualche effetto reciproco in te, e magari persino in qualche lettore.

  3. Può la biografia scritta da qualcun’ altro essere davvero il mezzo privilegiato per riferire l’ identità di una persona altra? Cioè, se l’autobiografia è narcisismo, la biografia non rischia di essere la trasposizione di bisogni e proiezioni di chi scrive piuttosto che la reale storia di chi viene scritto?Penso che non possiamo mai riuscire a parlare ragionevolmente di un’altra persona, ma possiamo al massimo narrare della relazione che con questa abbiamo o abbiamo avuto, e da questo la seconda domanda: intendere l’identità in senso relazionale, con tutti i significati sommersi che la relazione stessa racchiude in sé, non è il modo per allontanarla maggiormente da una sua definizione oggettiva?

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