La danza degli uomini con “ghirlande di fiori sulle ferree catene”

Gli uomini, scriveva Rousseau, stendono “ghirlande di fiori sulle ferree catene”.
Della Tav in Val di Susa si è detto spesso, ed a ragione, che è l’atto finale dello smembramento tra cittadini e istituzioni. Ma non è la fine della democrazia, ne è bensì l’essenza stessa, almeno di quella indiretta (ossia quella “occidentale”), creare questa distanza in nome di una serie di diritti/doveri presunti e basati sui valori predominanti alla nascita dello Stato e sostenuti da una cultura di fondo, quella della delega, che porta l’uomo ad un destino ancora più nefasto, ossia all’apprendere dai sistemi educativi vigenti  e dalla scuola (“l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è” nelle parole di Ivan Illich) che questa distanza del singolo dal potere di determinare la storia collettiva non solo non è grave, ma è condizione naturale ed auspicabile.

“Democrazia rappresentativa – forma di stato, fondata sulla pretesa sovranità, di una pretesa volontà del popolo che si suppone espressa da sedicenti rappresentanti del popolo in assemblee definite popolari, riunisce in sé le due principali condizioni necessarie al loro progressso: la centralizzazione dello stato e la reale sottomissione del popolo sovrano alla minoranza intellettuale che lo governa, che pretende di rappresentarlo e che inffallibilmente lo sfrutta. (…) La differenza fra la monarchia e la repubblica più democratica consiste nel fatto che nella prima il mondo burocratico opprime e taglieggia il popolo per maggior profitto dei privilegiati, delle classi proprietarie, e delle sue proprie tasche in nome del sovrano; nella repubblica opprimerà e spoglierà il popolo nella stessa maniera, a profitto delle medesime classi, però in nome della volontà del popolo. Nella repubblica la cosiddetta nazione, la nazione legale, che si suppone rappresentata dallo stato, soffoca e soffocherà sempre il popolo vivente e reale. Ma il popolo non si sentirà affatto più sollevato quando il bastone che lo percuote prenderà il nome di bastone del popolo”

Michail Bakunin, Stato e Anarchia.

Dovremmo forse iniziare a chiederci quale tipo di cambiamento esigiamo con le attuali rivendicazioni sostenute dal filo comune di una “maggiore democrazia”: chiediamo uno strumento migliore di delega o una reale partecipazione?
Nel senso comune è accettata la battuta (espressa con tono serio e arrendovole, e un umorismo involontario) per cui non esisterebbe attualmente sistema migliore della democrazia. Non è mio compito scrivere una analisi storicizzata delle varie dottrine politiche che si sono succedute nei secoli, ma dovere d’osservatore è il constatare che è con questa battuta, insieme alla seconda persona plurale della grammatica italiana, che inizia la suddetta cultura della delega, ed è difficile, muovendo da questa premessa, incanalarsi verso forme innovative dello “stare insieme” e del “vivere in comunità”.

Quali sono le prerogative adatte a supportare un reale cambiamento?
Passare dal concetto di produttività a quello di convivialità, per esempio e citando Ivan Illich, sembra essere un inizio promettente. Ma torniamo adesso alla Tav.
Quale logica di fondo può produrre l’attuale strappo finale tra Sistema (lo Stato) e i suoi Sottosistemi (i cittadini)? Numerose sono le cause, uno può sembrare in questi giorni il presupposto di fondo: lo Stato non è i suoi cittadini. Ed ancora: ha la forma statale, centralizzata per definizione, la capacità e la propensione ad esserlo?
Ripensare nuove forme di comunità è un relativamente nuovo ma ancor piccolo mantra che si leva da quei luoghi laddove la modernità sia intervenuta più smascheratamente, ponendosi come chiara alternativa, ossia le piccole realtà di paese che nell’ultimo secolo sono state continuamente sfidate dai grandi centri di aggregazione urbana e di attività produttive a cui tutti diamo il nome di città, deformando luoghi pulsanti di vita per secoli prima che azzerando il fantomatico “capitale sociale” del luogo, come una sinistra terminologia economicista in essere vorrebbe (sono coloro che credono possibile uscire dalla crisi con gli stessi strumenti con cui ci siamo entrati).

Ascoltare queste persone, questi luoghi, è il primo atto d’umiltà che le vittime della centralizzazione si trovano ad affrontare, ed io sono tra queste numerosissime vittime. E’ un atto che è l’inizio di un percorso a ritroso, perchè siamo al capolinea, cercando disperatamente vie di fuga.
Ma i capolinea sono sempre due. Esiste la strada dell’andata e del ritorno. Una porta all’abisso, l’altra può ancora salvarci. Latouche illustra questo percorso a ritroso e lo chiama “Decrescita”, Thoreau ne descrive già l’esigenza in “Walden, vita nei boschi”, era solo il 1854, ancora prima della Seconda Rivoluzione Industriale. Per me è il “restare umani” che Vittorio Arrigoni esortava a fare in altre occasioni, davanti alle barbarie di guerra, ed è un concetto assai simile alla “Convivialità” di Ivan Illich, forse ne è il primo ed unico presupposto.
Non sarà un semplice ritorno al passato: percorreremo lo stesso sentiero avendo però come orizzonte estremo l’origine e non la nuova ideologia sull’uomo da comporre a tutti i costi, ed una storia da leggere con nuovi occhi e nuove prospettive, come un reduce da una zona di conflitto e di morte legge la strada verso casa, togliendosi la divisa e michiandosi di nuove tra gli sguardi, le storie, i luoghi naturali di quello scambio incessante d’invisibile agli occhi che è la vita.
Questa non è una ulteriore ideologia sull’uomo, questa si propone d’essere una scheggia in grado di scalfire il ferro della catena ed allentare il nodo che la stringe al genere umano, per tornare a danzare e non per prodursi in sforzi disumani tesi rompere il legame con il non conoscibile che ci lega a questa terra. A differenza di catene dalle quali è necessario liberarsi, forse scopriremo che altre che abbiamo chiamato col medesimo nome e tentato di abbattere con una guerra indiscriminata al limite, catene non sono e hanno un altro nome: radici.
Ecco la mia provocazione, la mia proposta di salto contettuale, dopo aver chiarito l’impasse: può esserci armonia in una società permeata dalla cultura della delega? Infine, è possibile danzare con “ghirlande di fiori sulle eteree catene”, in armonia col Tutto?

Henri Matisse, La Danse

5 pensieri riguardo “La danza degli uomini con “ghirlande di fiori sulle ferree catene”

  1. La vita concreta prima delle analisi e delle ideolgie.
    In questa fase di empasse della “Politica” rispetto alla “Tecnica Economica” e l“evanescenza o l’intortamento dei movimenti” della cosidetta società ancora nella dicotomia “violenza-non violenza” vorrei consapevolmente sottrarmi alla discussione tecnico ideologico–politica ,salvo che per necessità razionale e sfida cognitiva e rispetto critico delle analisi altrui solo se nascono da esperienze individuali,sociali e territoriali e non da vecchie e sepolte ricette palingenetiche. Non ho ricette preconfezionate,logiche,coerenti e accattivanti da proporre per l’immediato futuro .Posso solo riferire lo spirito ,i sentimenti e le idee personali che sono maturate nella mia esperienza della Comunità provvisoria in Irpinia con un piede critico nella realtà posturbano-produttiva della vallepadana. Dopo anni di analisi alla ricerca di alternative concettuali e concrete mi sono convinto per adesso che solo il racconto delle nostre esperienze e autobiografie sentimentali e razionali riescono a determinare le analisi , la cronaca e la storia degli ultimi due anni della politica italiana e non viceversa. Due sono stati i sentimenti che mi hanno portato all’esperienza nella Comunità provvisoria .Un ritorno alle mie radici prerazionali come completamento della mia identità di uomo che vive la sua contemporaneità nel sospetto conoscitivo verso tutte le forme di deriva di sviluppo senza progresso. Paradossalmente la situazione antropologica,culturale,economica e sociale dell’Irpinia arretrata rispetto alla Storia nazionale e terremotata nella sua storia intima e sociale si prestava alla riproposizione concreta di una esperienza esistenziale e politica incardinata su due categorie concettuali classiche e moderne, minimale e universale : paesologia umanistica e comunitarismo.Scienze arrese ma vive ,consapevoli e attive. L’affetto e la stima umana per i miei nuovi compagni di avventura e l’indignazione e il disprezzo per quasi tutto riproduceva il ceto politico dominante e dei loro atti politici…hanno dterminato il resto . Sono non a caso due sentimenti distinti ma essenziali nella originale esperienza politica che ho fatto e continuo a fare nella mia ,aimè, non giovane vita sentimentale,mentale e politica.
    E’ il “sentimento” ,non necessariamente contrapposto alla “ragione”, la peculiarità e l’anima di questa nuova esigenza di politica che ci ha piacevolmente trascinato in questa straordinaria esperienza sociale e culturale.
    Ognuno di noi ha dovuto fare delle scelte esigenti rispetto alla propria vita privata, intellettuale e professionale .Abbiamo dovuto correggere convinzioni inossidabili e vocabolari inadeguati. Abbiamo dovuto fare “tabula rasa ” delle nostre sintassi e grammatiche, perché sentivamo che questa esperienza aveva una necessità e originalità che obbligava a mettere in discussione prima di tutto noi stessi, le nostre accomodanti e pacificate pigrizie mentali e psicologiche.
    Le nostre care e vecchie categorie politiche si sono manifestate nella loro insufficienza sia per la comprensione del fenomeno ma soprattutto per interpretarne il senso e la sua rappresentazione.
    Educato ad una salutare diffidenza culturale e politica dell’individualismo moderno se pur filosoficamente profondo (Locke,Kant, Stuart Mill) ,questa nuova esperienza sociale mi ha riaperto un quadro analitico meno dottrinario e più aperto e critico.Ho scoperto la ricchezza di un individualismo “riflessivo” ,progressivo e attivo finalizzato a stimolare e consentire agli individui prima di tutto,di fare libere scelte per quanto riguarda la loro vita privata e pubblica e la povertà pericolosa di un individualismo pigro ,regressivo e gregario o di un comunitarismo ideologico o teologico che riproponeva sotto forme accattivanti vecchgi miraggi regressivi o progressivi.
    Si è detto che le emozioni non possono costruire nuove identità collettive. L’esperienza dei “piccoli paesi dalla grande vita”, Delle “sentinelle del territorio” della ricerca delle basi emotive e culturali per un “umanesimo degli appennini” possono essere la risposta concreta a una sociologia o una scienza politica viziata da un errato privilegio esclusivo della razionalità e dell’astrattezza.Una sorta di astratta razionalità politica rischia di fare dei brutti scherzi non solo ai nostri detrattori ma anche ad intelligenti analisti e praticanti presenti nella nostra esperienza nella realtà sociale piuttosto che nelle formalizzazioni istituzionali della politica.
    Abbiamo bisogno di una modestia intellettuale e un orgoglio politico che parte da un risultato al di là e al di sopra delle nostre personali capacità e previsioni. Ho accettato consapevolmente la scelta di aprirsi ad un incontro e confronto con tutte le atre esperienze comunitarie e individuali che partissero dalle stesse nostre esigenze senza preclusioni ,primazie e gerarchie nella possibilità di esperienze.
    Io sono convinto che le nostre esperienze non sono nate per essere compresi solo razionalmente o alla ricerca di personalità o gruppi legittimati , se pur con competenza e intelligenza, ad una direzione anche solo orizzontale ma soprattutto per essere vissute e praticate democraticamente in prima persona anche in modo istintivamente attivo e responsabile.
    Non stanchiamoci di ricordare agli altri , ma anche a noi stessi,che non nasciamo anarchici, impolitici, apolitici o antipartitico ma carichi di originali stimoli e sane provocazioni intellettuali e,direi senza essere frainteso, istintive alla politica tutta ,ingessata e autoreferenziale che ha smarrito il senso dei suoi fondamenti ,sia quando si fa pratica praticata e politicante , sia quando si fa ideologia, mito,metafisica o dottrina, dimenticando di essere soprattutto ricerca critica, scienza o attività dell’uomo e per l’uomo non universale ma concreto e storicamente determinato nelle sue realtà territoriali e culturali senza miti e ideologie .
    In conclusione mi piacerebbe discutere e confrontare esperienze,stili di vita più che interpretazioni di filosofie o peggio ideologie di vita siano esse laiche o religiose.

    mauro orlando

  2. Beh Mauro, in simpatia, stavolta hai avuto anche molta voglia di discutere interpretazioni di filosofie come la mia, che mi sembra di aver ancorato ad una radice comune a molte delle riflessioni/poesie/contributi che ho scoperto qui sul blog, ed a me fa molto piacere che comunque lo si possa interpretare, queste mie parole in libertà (come sempre, nessuna ambizione maggiore che possa fare a meno di questa) mi portino adesso a leggere questo bel resoconto di vita, e se mi posso permettere, di origine e di percorso a questo Blog.

    Il mio articolo parte da una tematica che, sebbene non venga più accenata, è implicitamente oggetto della mia analisi, ossia quello che sta succedendo in Val di Susa. Poi, nella mia ricognizione tematica, volevo espriremere queste domande finali nel seguente senso: possono queste domande irrisolte ostacolarci nella costruzione di nuovi esperimenti di vita, di nuove Comunità? Essendo queste tematiche d’ostacolo ad un’altra comunità, ho pensato che possano essere domande replicabili e di pubblico interesse, senza spingermi ad abbracciare in toto tesi come quelle di Massimo Fini, che secondo me con argomentazioni condivisibili, ma eccessivo slancio provocatorio, intrepreta la lotta No Tav come la prima grande battaglia antimodernista, un tema che qui ho sempre letto come matrice comune, tratto d’unione.

    La mia è un’esperienza che, sebbene non certo limitata alla speculazione filosofica o quello che è, mi vede come vittima di ciò da cui voi siete già “evasi”, se mi passi il termine e il concetto. Ho da poco compiuto 25 anni, sto finendo l’Università e vivo in un paese come Firenze, che nonostante le logiche da grande città sa restare paese laddove lo si voglia sentire, toccare, abitare come paese. Sono però scappato da una piccola realtà come Montecatini Terme, dove ogni esperienza di comunità di qualsiasi tipo si fermava al mero scambio di apparenze e di superfluo. Non so dire cosa sia vivere in una Comunità Provvisoria, ma avendo molto apprezzato, riflettuto e sentito queste tematiche su questo blog, ho pensato forse a torto che insieme al vivere la Comunità Provvisoria, si potesse provare, specie se più giovani ed in bocca al mondo con stupore e curiosità, ad essere una Comunità Provvisoria di pensieri, riflessioni, emozioni, accogliendo tutto ciò che da un senso all’esperienza della complessità, della bellezza, dell’armonia. Questo, attualmente, è il mio più grande sforzo, prodotto tra vizi di forma ed errori metodologici con entusiasmo sincero, che le mie parole vogliono testimoniarvi.

    Non voglio ricommettere gli errori dei padri, non voglio conoscere il lento assestarsi del tempo sui sogni prima del tempo, nè posso imporre le mie vertigini a nessuno. Ecco la mia latitudine e longitudine. Forse non avrò espresso bene ciò che intendevo, ma ridurre questa mia riflessione a un intervento che con la Paesologia non ha niente a che vedere non posso accettarlo (ma lo dico con leggerezza ed un sorriso stampato in volto, senza la gravità con cui spesso si pronunciano queste parole) ed intendo giustificarlo in modo chiaro oltre a dire che citare Bakunin non è aderire ad una idea ma usare un ponte concettuale per collegare due riflessioni, evidentemente senza esserne stato capace:
    io non ho risposte definitive alle domande con cui ho chiuso la mia digressione quotidiana, ma voi ne avete? Se si, e sono risposte chiuse, date, finite, abbiamo qualcosa su cui ragionare per costruire una nuova comunità di esseri umani, provvisoria e “sostenibile” termine che forse non piacerà a tutti, ma che io condivido. Se invece di risposte definitive a ciò non se ne hanno, è bene discuterne, od almeno non credo di aver fatto danno alla Comunità Provvisoria così facendo. In fondo, Comunità Provvisoria è esperienza di decentramento, e qui ho inteso di chiedervi se si possa affrontare questo sforzo su un fronte, accettando il suo opposto teorico per molti altri aspetti della vita sociale del cittadino, dell’abitante, dell’essere umano.

    Leggo articoli sensatissimi e centrati, altri che non condivido e talvolta discuto. Il mio entusiasmo mi spinge ad imparare, non a reprimere od indicare agli altri cosa scrivere o non scrivere, non se l’intenzione di fondo è una vera comunità di anime e persone. Leggo poi, tra i commenti, piccole polemiche, focolai dialettici più o meno percettibili, ed un filo della narrazione che non sempre, com’è naturale, regge il ritmo della bellezza dell’idea di fondo da cui è sostenuta, ossia la Paesologia. Io ho darvi il mio entusiasmo e la mia voglia di imparare. Io qui vorrei smettere di dire Io e cominciare a dire Noi, senza sofismi e personalismi, senza quella seconda persona plurale a cui ancora mi richiamo come errore costituzionale nella genesi d’una qualsiasi organizzazione sociale.

  3. .. Mi piacerebbe che il mio stesso interesse e piacere di discutere a cuor aperto con un “giovane” di 25 anni senza paternalismi e preconcetti generazionali no si chiudesse nel solito gusto agonistico eretorico dei “sofismi e personalismi”.Io ribadisco il mio privilegiare la discussione sugli stili e modi concreti di vivere le proprie esperienze esistenziali e culturali in modo non accademico o dottrinale e meno che meno ideologico.Mi piace un confronto di vita non di dottrina al dilà dell’età e delle convinzioni.Faccio mio il richiamo non prescittivo di Franco:”…. questo non è un luogo di chiacchiere, di idee, di opinioni, è un luogo in cui accostare le nostre ferite per darci un sangue comune”
    E meglio detto in linguaggio poetico.
    “resto qui per capire perché resto,
    misuro con le unghie
    il nucleo del rancore.
    il paese è un insieme di rimanenze.
    a questi luoghi, a chi non li ama
    mi sono consacrato.
    scrivo per loro
    ma non rispondono”.
    Dico solo che alla mia non tenera età mi sento più stimoòato da queste libertà poetiche che da discussioni accademiche e non su Bakunin, Locke,Mill,Marx e quant’altro sempre riferito alla vita reale difficile e complessa nei territori in cui sono coinvolto….Mi piacerebbe conoscere e confrontarmi non solo cuturalmente con un giovane responsabile,critico ed attivo che vive Firenze o a Val Susa il suo essere essenzialmente “zoòn politikòn” come diceva il vecchio Aristotele…..Io preferisco non il “diritto di tribuna” ma il dovere di condivisione e di generosità.
    comunitariamente mauro

  4. Allora spero presto di riuscire a raccontare perchè, come e dove, Firenze riesce ancora a regalare sprazzi di Paesologia, di contatto diretto e caldo con chi la abita, mi fa piacere che possa esser argomento d’interesse.
    Sai Mauro, una mia ferita è anche questa: vengo da una realtà dove proporre una autogestione era commettere un crimine contro l’umanità. Mi sto liberando da queste ferite del conformismo e dell’automatismo, il mio dibattito, la mia esperienza, è ancora molto intellettuale, e per una serie di ragioni pratiche, solo parzialmente pratica. L’ho fatta lunga prima, volevo chiederti solo ascolto in una tematica che nei miei coetanei è tra i vincoli che non permettono di aprirsi ad esperienze come le Comunità Provvisorie. Su questo, potere di contemporaneità, credimi e comunitariamente grazie in ogni caso, perchè alla fine son proprio con te che partono sempre queste grandi discussioni di parole sempre necessarie 🙂
    Per il resto, io sono uno che non è restato nè intende tornare. Sto cercando il mio paese, il mio paesaggio, il mio interlocutore non è ancora tangibile, non posso raccontare qualcosa che non ho ancora trovato. Ma è anche grazie a voi che sto imparando a conoscerlo prima di ri-conoscerlo.

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