terracarne e terramossa

metto qui la recensione a terracarne apparsa su l’indice.

oggi meravigliosa giornata paesologica in lucania. a latronico accoglienza commovente e momenti intensi coi ragazzi. 

venerdì a ponteromito prima uscita di terramossa. è un lavoro di cui sono molto fiero.

 

Quando uscì da Sironi “Viaggio nel cratere” mi fulminò letteralmente, mi parve che Arminio avesse miracolosamente trovato come pochi scrittori della nostra generazione (1960) un suo mondo e una lingua, quello che rende raro un autore, e caro ai suo lettori, pochi o tanti che siano, e cioè una cifra inconfondibile, una voce autentica, non comune nel mondo editoriale. Nei borghi spopolati e terremotati, quelli che ci ha fatto conoscere nei suoi libri, lui ha trovato a un certo punto il suo mondo e la sua koinè. Sempre in Viaggio nel cratere (Sironi), quasi a circoscrivere la sua umanità di riferimento, citava Carlo Levi che, confinato a Grassano, aveva descritto questi posti in modo magistrale: “Tutti i giovani di qualche valore, e quelli appena capaci di fare la propria strada, lasciano il paese. I più avventurati vanno in America, come i cafoni; gli altri a Napoli o a Roma, e in paese non tornano più. In paese ci restano invece gli scarti, coloro che non sanno fare nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi”. Arminio è ripartito da qui con la sua letteratura ibrida e lirica, ma anche fisica, che stanca della fiction è tornata a raccontare in modo originalissimo e antiromanzesco il vero, e addirittura a straziarlo cinicamente, a decifrarne delle comicità surreali, a cercare nell’infinitamente piccolo un conio italiano, o addirittura quello più complesso di una parte del mondo occidentale, cosa che poteva fare solo un poeta.  Lui calibra la scrittura da un parlato che rielabora molte letture colte, ingorga nozioni sapienziali, è più un Bichsel, un Handke, o il Thomas Bernard delle prose brevi, specie quello de “L’imitatore di voci”, assolutamente antiretorico, a volte fa venire in mente Walser, e pur raccontando una sud apparente nascosto e minore, ha quasi una postura da autore straniero, internazionale, pochissimo autoctono. Forse di certi intellettuali italiani del sud (Rocco Scotellaro, Danilo Dolci) conserva la tellurica verve civile, e una lingua incontaminata e un po’ arcaica e sacrale, la quale lavora da abile artigiano scansando tutte le scorie o le tentazioni di quella tecnologica e mediatica, avvilita al ribasso in molte scritture plastificate e nostre contemporanee, deperite di senso, con una sua originale forza di ideologia e di pensiero. Una lingua fieramente eccentrica, a volte enunciativa, aforistica, volutamente civile.

In quest’ultimo libro, che un po’ chiude il cerchio delle sue peregrinazioni paesologiche, anche se allarga a un sud affollato e disperso, ritorna questa lingua prensile di uno degli ultimi poeti comunitari del nostro paese, enunciativa e percussiva, così come l’autore ci aveva abituato nei precedenti e bellissimi “Vento forte da Lecedonia a Candela”, “Nevica ma non ne ho le prove”, tutti Laterza Contromano, “Cartoline dai morti” (Nottetempo) e “Oratorio bizantino” (Ediesse). 

Le geografie si allargano, si chiude un po’ la clausola ipocondriaca, il paesologo esce per la prima volta dal seminato dei suoi luoghi persi, dalla sua geografia etnico-claustrofobica, ha una postura meno psicotica.  Va nelle terre limitrofe, la Lucania, la Puglia e il Molise, esplora parte delle Calabrie, della Campania allarga, con degli sconfinamenti marchigiani e altoatesini, che fungono da controcanto ideale. Anche se è sempre una scrittura corporale, come denuncia in un passo: “”Terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo”. Si reca nei posti più noti del Mezzogiorno, indaga, incontra, riferisce, le sue geografie sono sempre irrequiete nei passi liricissimi, ma non è mai un racconto di viaggio neutrale il suo, quello di un Piovene meridionale agiografico, al contrario risulta politico e tellurico. Le terre visitate, che il paesologo-raccontatore ausculta con lo stetoscopio della scrittura, sono infestate dagli “estremisti della moderazione”, cioè “i paesanologi, quelli che vogliono cambiare la vita dei paesi senza cambiare i vecchi padroni che li hanno rovinati”. Cita Levi e Salvemini, va nel paese di Rocco Scotellaro in un viaggio anche dentro la cultura meridionalista più profonda. S’indigna contro la piccola borghesia del sud, l’antico tarlo, mentre invece ama i poveri e semplici, i perdenti assoluti della vita: “Quelli che bevono alle nove del mattino sono i grandi eroi dello sconforto”, scrive, cita i nomi dei politici-padroni della sua terra, De Mita in primis, padre-padrone della politica locale.

“Il paese in cui vivi è una prigione da cui puoi evadere quando vuoi. Va bene qualsiasi posto, questa è la scoperta”, scrive. Ora, immagino, proprio per questa apertura, che Arminio sarà costretto a emigrare le sue storie altrove, perché si ha l’impressione che non possa più succhiare lacrime e sangue dalla sua terra carne, dalla sua terra madre, quella fatta di una lingua antica, col rischio di reiterare, rifarsi il verso. Altri mondi, altre mappature lo attendono. Magari globali.  Come ha fatto il suo mentore Gianni Celati, esule letterariamente e con non minore penetrazione in altri luoghi, dalle Pianure padane all’Africa, alla ricerca continua di una forma il più possibile vicina  a quella dell’esperienza della vita di tutto il mondo, che in fin dei conti è sempre paese, “un ring dove spesso la contesa è tra chi ha gettato la spugna e chi non si è mai messo i guantoni.”.

 

Angelo Ferracuti

4 pensieri riguardo “terracarne e terramossa

  1. Sironi Editore ha ristampato finalmente nel febbraio 2012 “Viaggio nel cratere”, da poco consegnatomi, e ha fulminato decisamente anche me….

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