Dal consolato di paesologia di urbino

1.

Federica Cavalli

Ieri abbiamo realizzato il primo esperimento per il Consolato, siamo andati da Fermignano a Maciolla (frazione di Urbino) a trovare una casa abbandonata che deve essere stata molto amata dal suo proprietario (ho già pubblicato la cosa). Al ritorno ci siamo fermati in una sorta di orto collettivo che si trova vicino la stazione vecchia, un insieme di casette piene di attrezzi e recinti e piante disordinate. Due passeggini venivano utilizzati come vasi. Metterò la foto come prossimo post. 

 

Riguardo al blog pensavo di organizzarlo in esperimenti paesologici, appunti (testi, video, musiche, quadri come spunti per un discorso sul paesaggio), appuntamenti (inerenti alla paesologia e al discorso sul territorio).

Spero di fare un buon lavoro, quantomeno utile.

A presto.

 2.

Letteratura per “un’epoca urgente”: la Paesologia di Franco Arminio

Salvatore Ritrovato

Chi non ha mai letto niente di Franco Arminio, forse non ha mai saputo di una nuova disciplina che si chiama “paesologia”. In verità, non si tratta di una disciplina in senso stretto, ma di una poetica. Ma questo è un termine un po’ accademico, e rende poco la pregnanza, anche fisica, della scrittura di Arminio. Dunque, chiamiamola pure “disciplina a termine”. Perché a termine? Perché un giorno finirà, anzi sta per finire. E comunque non vale dappertutto, in ogni angolo del mondo. Occorre esercizio, pazienza, e soprattutto una disposizione d’animo. Insomma, si pensa già a una post-paesologia. Con questi pensieri abbiamo incontrato Franco Arminio il 4 maggio in due momenti diversi: la mattina, durante le ore di lezione di Letteratura italiana contemporanea; e la sera, con la presentazione del ‘penultimo’ libro di Arminio Terracarne (uscito da Mondadori nel 2011), nell’ambito degli incontri organizzati, nella sala dell’Acli, dal Master “Professioni dell’informazione culturale”, e in collaborazione con le Associazioni culturali “La Ginestra” e “Cavaspina”. Due momenti diversi, due tipologie diverse di approccio all’autore e alla sua opera, ma affini negli obiettivi (pienamente raggiunti): avvicinare gli studenti ai libri, alla letteratura, innescare un circolo virtuoso fra letteratura e vita, educare al pensiero critico e soprattutto, quando serve (e spesso serve), ad uscire dagli schemi.

   Uscire dagli schemi come fa Arminio, autore di spontanea, non costruita complessità (potrebbe essere fuorviante identificarlo solo con la “paesologia”, da considerare come un segno particolare nella sua eventuale carta d’identità di scrittore) e di rara generosità. Al centro dei suoi libri non c’è tanto la sua vita privata, quanto quella di un luogo (l’Irpinia) nel quale egli, da privato, da osservatore ostinato e ipocondriaco, si trova a vivere. Un luogo geograficamente circoscritto ma non esclusivo. Dai primi libri esplicitamente incentrati sulla “paesologia” (fra i quali spicca Vento forte tra Lacedonia e Candela, Laterza 2008) all’ultimo, che rappresenta in qualche modo un consuntivo della sua esperienza paesologica, il luogo si evolve e si estende. Ma in che cosa consiste questa esperienza? Fondamentale è una predisposizione umorale: il paesologo non decide di visitare i suoi paesi un fine settimana, quando ha tempo, con il baedeker, non pianifica un viaggio istruttivo. Il paesologo esce d’istinto, quando ne ha bisogno, sente che è necessario, e vaga, magari non sa dove andare esattamente, non ha appuntamenti (anche se non sono esclusi), e comunque fa tesoro degli incontri fortuiti e casuali, negli abitanti di paesi che non aspettano la visita di turisti, anzi che non aspettano nessuno. La paesologia è una forma di scrittura di ricerca, fra viaggio (nel senso puro del termine, non in quello delle agenzie turistiche) e paesaggio (nel senso più ampio, non solo naturalistico). Il paesologo non scrive solo, in un processo di decantazione delle cose viste e sentite, ma vive sul proprio corpo ciò che scrive, sulla propria carne. Carne e terra diventano un binomio indissolubile: da una parte la terra che si offre genuinamente, come una scenografia grezza alla scrittura; dall’altra la carne che si impregna di questa terra, in un preciso giorno, in una precisa ora di quel giorno, quindi in maniera irripetibile, e si lascia incidere dai segni del paesaggio, filtra e capta, reagisce più d’istinto che di testa alle sue provocazioni. Condizione preliminare per l’esercizio – e torna la dimensione fisica di questa scrittura – è però, almeno per Arminio, l’ipocondria che attraversa, ora nei suoi sotterranei, ora alla luce del sole, tutta la sua opera (emblematico Circo dell’ipocondria, Le Lettere 2006), e si affaccia in particolare nel pensiero della morte come in un pensiero di confine tra vita e non-vita, nel quale i morti, come in Spoon River, parlano ai vivi che imparano ad ascoltare (mi piace segnalare a proposito una raccolta di prose poetiche, Cartoline dai morti, Nottetempo 2010). Ma la ricerca del paesologo non è facile. Non tutti i paesi vanno bene. Anzi, sono pochi, sempre di meno, si stanno estinguendo; alcuni di essi si vanno trasformando in qualcosa d’altro, aggrediti dai non-luoghi. I paesi che resistono meglio sono quelli «dimenticati», «abbandonati», «affranti», «arresi», come spesso se ne trovano soprattutto sugli Appennini, dalla Calabria alla Liguria, e in modo particolare in alcune regioni, come in Irpinia. Paesi in cui il terremoto, per esempio (e Arminio ha scritto un libro molto intenso, Viaggio nel cratere, Sironi 2003), ha accelerato il processo di decomposizione infinita della loro identità, spingendo spesso amministratori locali e nazionali a sfruttare l’occasione della cosiddetta ricostruzione per agguantare la modernità con centri commerciali e quartieri residenziali, sostituendo addirittura (si è visto nel caso dell’Aquila) l’impegno a recuperare le mura pericolanti dell’antico paese con il soggiorno obbligato ma provvisorio nei prefabbricati antisismici. Soluzioni anti-paesologiche, ovviamente, che comportano un fraintendimento, se non un disprezzo calcolato nei confronti di quel concetto di “abitare la terra” su cui è importante riflettere non solo in un’ottica urbanistica, ma anche in chiave culturale e antropologica.

   Abitare la terra? Bisogna dire, ormai, consumare la terra… La scrittura di Arminio, la sua letteratura (che di letteratura si tratta, beninteso, non di saggistica, per un’epoca che ne ha urgenza!) è entrata in questo varco problematico dell’esistenza dell’uomo contemporaneo; e lo ha fatto trasformando la fragilità del Sud, il senso di abbandono di tanti paesi appenninici (al terremoto si aggiunga l’emigrazione, la depressione economica, lo spopolamento delle campagne ecc.), in un elemento di poesia, non di lamento o di invettiva. Una poesia, che non si compiace di sostare negli interstizi lirici di una descrizione paesaggistica, che non si compiace neanche di sé, di farsi chiamare tale, ma vi entra con il corpo dell’autore, con i suoi umori e i suoi affetti, e invita gli stessi lettori ad entrarvi, ad intraprendere, con consapevolezza critica, la riscoperta di quell’umile Italia nascosta nelle fratte e nelle pieghe dei tanti entroterra appenninici (e non solo) di cui è fatto il nostro paese, nelle strade storte e in salita, sul punto di franare, dei tanti borghi che lo popolano. Borghi esodati, verrebbe da dire con termine portato alla ribalta dalle vicende politiche di questi giorni, nei quali pare che non sia più al centro l’uomo e i suoi bisogni, i suoi sogni, ma la sua assenza paradossale, la possibilità cioè che egli, un giorno, non esista più, e che i veri abitanti siano gatti, lucertole, formiche, e il vento. Un vento forte, indomabile, come quello tra Lacedonia e Candela.

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