da “IL LATO DESTRO DELLA STRADA”

pubblico con piacere questo scritto della Elda Martino……..
……..[…] da “IL LATO DESTRO DELLA STRADA”
.pubblicata da Elda Martino il giorno giovedì 5 luglio 2012 alle ore 16.18 ·.[…] La prima immagine che ho chiara è il pavimento di granigliato rosso sangue con le palmette nere e la cornice giallo ocra che fa da sfondo a una foto di me a due mesi. Mia madre mi regge in braccio, nella foto si intravede appena il suo profilo di giovane donna e la maglia a collo alto glicine sotto una scamiciata di lana bianca, come la mia coperta quella che mi avvolge. Aveva voluto lei che nascessi, e che nascessi lì, a Napoli, in quella strada e in quella casa che l’aveva vista sorridente e circondata dalla leggerezza delle sue tre sorelle e dei quattro fratelli.

La stanza era, in quel gennaio dei primi anni settanta, lo studio, la finestra e il balcone affacciavano all’interno del cortile, la luce scarsa, in quella parte della casa bisognava tenere sempre le lampadine accese. L’androne del palazzo aveva un grigio scurissimo, quasi nero, se alzavo la testa potevo vedere le enormi arcate dei pianerottoli, le scalinate che si incrociavano e solo un quadrato di azzurro, un pezzetto di cielo concesso dal tufo. Il sole nel cortile non entrava mai. Invece c’erano al suo posto, al posto della luce e dell’aria, le pietre sempre umide per il vento marino che la sera creava piccoli turbini di cartacce, l’odore di tubo di scappamento che veniva dal garage, quello di cucinato che scappava dalle finestre e quello di muffa e di bucato, la perenne frittura della trattoria a fianco. Insieme formavano il respiro di questo luogo, inconfondibile, si stemperava man mano salendo, ma non spariva mai del tutto, nemmeno arrivando al quinto piano, l’unico da dove si poteva vedere ancora il golfo, castel dell’Ovo, il mare.

Il portiere, quando mia nonna arrivava per riscuotere le mesate, le baciava la mano e si levava il berretto scuro, unto, lasciando in mostra una nuca malforme, il volto portava i segni del vaiolo, sulle guance piccoli buchi gli disegnavano la fisionomia. Non era nato a santa Lucia, veniva dai Vergini dove la luce è solo un lontanissimo ricordo e dove molti visi recano le cicatrici delle malattie di coloro che vivono ammassati in poco spazio. Spesso avevo pensato che si poteva indovinare la provenienza di alcuni corpi da questi segni, dalla storia delle grandi epidemie della città col mare, vaiolo, peste, spagnola, e, poi, ancora gli altri mali, la polio, il tifo, il rachitismo. Sebbene fossero ormai passati centinaia di anni da certi contagi, gli eredi di quel mondo ne portavano le stimmate, testimoni , generazione dopo generazione, di incroci determinati sempre dal limite, dalla separazione dei luoghi, dalla non contaminazione fra quartiere e quartiere. Paesi nella città, tribù, ognuna con i suoi caratteri, le sue posture, la sua voce.

Don Armando era venuto ad abitare con la famiglia a piano terra. La stanza principale della casa era anche il suo ufficio, anche quello senza luce, senz’aria, sulla destra della porta stava la cassetta con le chiavi, lunghe di ferro o nuove, di porte blindate, appese tutte senza cartellino perché solo lui sapesse cosa aprivano e dove portavano.

Il secondo portiere, don Gennaro, era bello, e calmo, i suoi occhi azzurri parevano mandare guizzi dorati e la sua faccia pareva un largo fiume gelato che attraversa un bosco, una pura linea impetuosa, i capelli bianchi erano sistemati lasciando scoperta la fronte alta e liscia, il portamento diritto quasi sfacciato, consapevole della sua appartenenza a un’altra specie, quella dei vecchi pescatori luciani. Quest’uomo che pareva il padrone di tutto lo spazio intorno a lui mostrava sempre un sorriso di scherno nel salutare. Gestiva il garage e porgeva il suo saluto senza levarsi il cappello, avvicinandosi come un regale figlio della natura, accennava solo a un baciamano, senza chinarsi del tutto. Poi rendeva il danaro con un gesto ampio del braccio, come un solfeggiare lento, senza timore, quasi fosse un concessione al reale, ben sapendo che le sue quote non erano mai precise e meno che mai controllate.

C’era, tra i due portieri, una gerarchia precisa e un odio sotteso. Don Gennaro trattava Armando come un forestiero capitato lì e destinato, prima o poi, ad andarsene. Un episodio passeggero, un accidente da superare, un corpo estraneo a quel mondo nel quale mai avrebbe potuto essere ammesso.

Anche in quel cortile esatta regnava una divisione dello spazio, nessuno mai l’avrebbe messa in dubbio, tutti guardavamo il secondo portiere e i suoi figli, alti, con denti bianchissimi e aguzzi e quei volti sfrontati, aperti, e tutti ne provavamo invidia. Quegli occhi ci attraversavano per fissare oltre, oltre la strada, i palazzi, le auto, come verso un presente più vero che noi non potevamo vedere.

Resisteva in loro qualcosa di febbrilmente vitale che non si limitava alla bellezza ma a un distacco sereno dal mondo e dalle cose umane, un passo certo, in accordo con la terra e la pietra, un patto caldo con l’aria e il sole, una gentilezza nello sguardo che quelle -che noi chiamiamo cose- posavano su di loro, una memoria condivisa, antica che portava in sé anche un segreto, una gelosia profonda verso chiunque cercasse di penetrare quel vincolo. […]

(e.m.)

6 pensieri riguardo “da “IL LATO DESTRO DELLA STRADA”

  1. don Gennaro, un altro, in via Costantinopoli 27, qualche anno prima, presidiava dalla propria guardiola, con occhi di falco, pure le mosche che passavano per il portone o circolavano nell’ampio cortile. Conosceva morte, vita e miracoli degli abitanti del palazzo per sette generazioni. E’ stato il mio primo insegnante di filosofia, non libresca ma esistenziale, e non da solo, ma in coppia con Vincenzo, l’autista di mia zia. Il loro confronto su tutto, dalle origini del mondo all’ultimo goal del Napoli era un’epopea. Roba da scrivere un giornale ogni mattina. il vero acme, don Gennaro e Vincenzo, lo raggiungevano però nella disputa su chi dovesse aprire il portone, allorquando Vincenzo usciva con l’automobile, una lucidissima Appia blu, non avendo a bordo la signora, ma per commissioni e servizi. Perchè se c’era a bordo la signora don Gennaro si profondeva in scappelamenti e inchini e apriva il portone con solerzia. Ma se la signora a bordo non c’era: “nè, Viciè, ma pecchè nun tu può arapì tu stu purton; e cchè sì ciump!?” “Don Gennà, tu nun rispiett i ruol, comm s chiamm ‘o mestier tuoi? Purtier. E cche ffà ‘o purtier? Arap ‘e port e i purtun! E allora arap stu purton!”. La disputa, coinvolgendo spesso passanti e abitantio del palazzo, aveva diverse durate e sugli esiti pare ci siano state perfino scommesse. Le argomentazioni rimangono tra le più raffinate e sofisticate teorie sul nulla che mi sia capitato di ascoltare, in una città che, nonostante i suoi problemi, profumava di fior d’arancio e di vita.
    [piccolo omaggio a Elda Martino per la su abella storia, con saluto, ugo morelli]

  2. uno spaccato di ricordi limpidi, pieni di decenza e di nostalgia che appaga…
    grazie, Elda.

  3. Bellissima scrittura, grandi escavazioni, una vera archeologia dei luoghi ( e del sentimento) perduti e ritrovati.. Quanto prima – ne sono certo – ne verrà fuori un mosaico completo, e quando avverrà – ne sono altrettanto certo – potremo salutare una scrittrice dalla grandissima potenza espressiva e forza che tra i suoi modelli di certo annovera Anna Maria Ortese, e tuttavia sa che i maestri indicano il cammino, ma poi sono gli allievi a doverlo percorrere con animo fermo e garretti saldissimi. Per me Elda Martino ha garretti letterari più che saldi. Deve solo convincersene e non giocare a nascondino con se stessa.
    Ad maiora!

  4. Lioni, 07-07-2012, ore14:28
    Grazie del post, mi associo a quanto evidenziato dagli altri amici intervenuti e faccio osservare che Elda trattiene in sé “[…il primo principio desanctisiano, quello di scrivere estraendo dal vissuto. Quando si compie un’operazione del genere si conforma autonamente uno stile di scrittura frutto di pregressi stilemi fusi nella propria voce e allora fluisce una narrazione che diventa espressione… che viene a noi dall’antro dei ricordi che s’illuminano di emozioni come un vento fresco che ci invita ad entrare, ad addentrarci: sicuri di stupirci e del del mistero…]”
    Un abbraccio affettuosissimo e garbato, come sempre, ad Elda e cari saluti a tutti voi amici, Gaetano Calabrese..

  5. LIONI, 8-7-2012 🙂 siamo in moderazione quasi dopo una giornata intera e allora correggiamo “autonomamente”, saluti cari, Gaetano.

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