Addio a Renato Nicolini


Inserisco, per ricordare Renato Nicolini appena scomparso, un articolo di Ida Dominijanni e un pezzo dello stesso Nicolini che fanno chiarezza sul senso di una grande stagione della cultura italiana spesso ricordata con superficialità. Si tratta naturalmente di una vicenda che ha avuto una genesi metropolitana, ma che ha avuto conseguenze (soprattutto traduzioni povere) in tutta Italia, compresa quella dei piccoli centri.

(Michele Citoni)

IL MOVIMENTO SENZA EQUIVOCI

Renato Nicolini • Massenzio, cinema, teatro e arte furono la sua risposta istituzionale alle domande del Movimento

di Ida Dominijanni
il manifesto, 5 agosto 2012

Renato abitava a pochi metri dal manifesto, e dunque capitava spesso d’incontrarlo, mangiare qualcosa assieme a lui e a Marilù, chiedergli un pezzo che non lesinava mai, scambiare due idee sull’ultimo fatto che ci aveva colpiti o sull’ultima iniziativa che aveva messo in piedi. Due idee o anche solo una battuta, perché l’ironia, caustica, e l’intelligenza, generosissima, erano in lui la stessa cosa, così come la rapidità delle associazioni mentali, della fantasia e dell’inventiva facevano tutt’uno con la profondità dello sguardo e lo spessore del sapere. Adesso come trent’anni fa, il tocco veloce, leggero, imprevedibile, indisciplinato e al tempo stesso meditato e mirato, motivato e progettuale era sempre lo stesso, cifra inconfondibile di una personalità irripetibile, impronta incancellabile di un amico indimenticabile.

Adesso come trent’anni fa, del resto, non era cambiato il tiro dell’azione, culturale e politica, culturale cioè politica, che restava ugualmente alto oggi nella programmazione del Teatro di Reggio Calabria, la città dell’insegnamento universitario, come ieri nella programmazione dell’Estate Romana, la capitale dell’esperimento di governo: e tanto Nicolini si sentiva felicemente radicato in quell’esperimento, quanto lo infastidiva vedersi monumentalizzato e racchiuso solo in quella cornice, che lui non aveva mai considerato né chiusa né conclusa, e casomai altri avevano fatto sì che si chiudesse o non avevano fatto in modo che si riaprisse. Il cordoglio unanime e il riconoscimento corale che accompagnano ora la sua scomparsa testimoniano da soli quanto sia stata in realtà duratura l’impronta della politica del cosiddetto effimero, ma non rendono conto di quali e quanti conflitti, ostacoli, equivoci l’abbiano costellata. L’equivoco, infatti, permane in memoriam: la leggerezza contro il piombo, le luci della notte contro il buio del terrorismo, la cultura in piazza contro le piazze armate, lo spettacolo insomma contro il conflitto, la distrazione di massa contro la durezza del passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta… Ma non fu questo l’effimero, non fu questo l’Estate romana, non è stato questo Renato Nicolini.

Non vale nemmeno la pena, oggi che nelle notti d’estate del più minuscolo borgo d’Italia si intrecciano cultura alta e bassa, fioriscono le arene e fioccano, o con la crisi languono, le sponsorizzazioni, tentare di restituire la dirompenza di un’idea che all’epoca ridisegnò la Capitale, reinventò gli spazi, invertì il giorno e la notte, aprì il centro ai barbari delle periferie, offrì le rovine antiche alla fruizione del presente, incantò e inchiodò giovani vecchi e bambini con le loro seggioline a Massenzio davanti ai tutt’altro che leggeri Senso di Visconti o Napoleon di Abel Gance, scoprì o riscoprì, con Nicolini e la sua squadra che non dormivano mai e mangiavano cioccolata per tenersi su, un monumento o uno squarcio o una piazza al giorno. Né vale la pena di ricordare che molti scettici o detrattori di allora, spaventati da questa irruzione di massa sulla sacralità della cultura, hanno finito con l’adottarne nel tempo la convenienza commerciale senza saperne riprodurre l’energia, le intenzioni e lo spirito.

Merita invece tornare sull’equivoco politico di cui sopra, perché è sintomo di un problema aperto nella memoria collettiva sul passaggio dagli anni Settanta al dopo, e perché a Renato stava a cuore dissiparlo ogni volta che poteva. Ne scrisse per noi in un articolo sul decennale del Settantasette che ripubblichiamo qui sotto, dove raffigura il ’77 e l’Estate romana come due gemelli: non l’una contro l’altro, non la luce dopo il buio o la leggerezza dopo il piombo o lo spettacolo dopo il conflitto, bensì l’una incontro all’altro, risposta politica e istituzionale alle domande di quel movimento, l’unica risposta giocata sul terreno della contaminazione e non su quello difensivo della immunizzazione dei «buoni» dai «cattivi», dei perbene dai permale, dei rispettabili del centro dai barbari delle periferie, dei colti da ossequiare dagli incolti da indottrinare. Quel movimento e i bisogni che esprimeva e anticipava, scriveva Renato nel 1987, non hanno avuto altre risposte e altri interlocutori politici laddove sarebbero stati necessari: sulla disoccupazione, la ristrutturazione del lavoro, la forma-metropoli, la terziarizzazione.

Era vero allora, resta vero oggi che la crisi economica ci presenta il conto di una trasformazione trentennale. Era vero allora, resta vero oggi che la crisi della politica paga anche il prezzo della sottovalutazione di figure d’eccezione come quella di Nicolini, o della loro derubricazione a eccentricità effimere legate a una stagione e a una sola. Con la sua politica della vita che sapeva parlare alle vite – biopolitica affermativa, la si chiamerebbe oggi – l’assessore dell’Estate romana avrebbe avuto ancora molto da dire e da dare contro la tanatopolitica triste e depressiva del neoliberismo europeo.

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GRANDI SCHERMI E AUTONOMIA. UN CONTRATTACCO POLITICO

di Renato Nicolini
il manifesto*

Alcune opinioni, molto soggettive, sul ’77. Solo con questa premessa mi sento di affermare che, per me, il ’77 è soprattutto l’anno di nascita dell’Estate romana; quell’età dell’oro di Massenzio a Massenzio, che, forse non a caso, si conclude nel ’79, più che con Visioni (ultima edizione di Massenzio nella Basilica), con il Festival dei Poeti a Castelporziano.

Ora, il ’79 è anche l’anno del 7 aprile, e dell’arresto – per via giudiziaria – dello sviluppo dell’autonomia.

Ripeto che esprimo opinioni soggettive; sono perfettamente consapevole che l’Estate romana non può racchiudere in sé né il ’77 né l’autonomia, che questi ultimi fenomeni hanno cause, articolazioni, complicazioni, connessioni, contatti, sviluppi, molto più vasti del ristretto osservatorio in cui sembrano volerlo rinchiudere. Eppure…

Qualche volta mi sembra di vedere ’77 ed Estate romana (che è stata un mio progetto come capacità di raccogliere una progettazione-aspirazione-comportamento culturale diffuso, che apparteneva piuttosto al Beat 72, al Filmstudio, al Politecnico, all’Occhio, Orecchio, Bocca) come due gemelli: nessuno dei quali predestinato né alla sorte di Romolo né a quella di Remo. Mi domando infatti per quale ragione l’idea di piazzare un grande schermo all’interno della Basilica di Massenzio, d’inaugurare con Senso di Visconti, e di scoprire le carte il giorno dopo con la maratona del Pianeta delle scimmie, non abbia avuto in sorte la stessa (cattiva) accoglienza del comizio di Lama all’Università La Sapienza. Quanto ad istituzionalità, il Comune di Roma ne era portatore sicuramente più del sindacato…

E mi domando ugualmente per quale motivo il Festival dei Poeti di Castelporziano, nonostante minestroni, lancio di sabbia e lattine su (non tutti) i poeti, quotidiane mozioni di solidarietà con gli arrestati, sia arrivato, come è arrivato, alla fine (non un secondo di più, perché immediatamente dopo il grande palco costruito sulla sabbia si è inclinato fino a toccarla, con bello – e imprevisto – effetto simbolico). Azzardo, in modo del tutto personale, una risposta. Già la nascita stessa dell’Estate romana configurava un modo diverso – rispetto a quello che avrebbe alla fine prevalso – di guardare a quegli anni e al fenomeno dell’autonomia in particolare.

Anziché tendere a dare per chiuso il circolo ’77-autonomia-terrorismo, metropoli-Metropoli-Br, e assumere di conseguenza atteggiamenti sostanzialmente difensivi, tesi a salvaguardare l’identità politico-culturale della «parte sana» della città, e della nazione, l’Estate romana accettava il rischio del contagio. Di più: agiva programmaticamente proprio sullo stesso terreno (consumo di massa, negoziazione della «qualità» – riconosciuta a priori – come criterio di selezione-programmazione in favore di esperimenti e mescolanze anche provocatorie, progettualità come soddisfazione di bisogni immediati ed esistenti anziché come proposta educativo-pedagogica, rottura di tradizionali feticci della cultura dei partiti operai…) su cui contemporaneamente agivano ’77 ed autonomia. Per cui, anziché chiudere l’offerta pubblica di cultura nel recinto protetto delle istituzioni culturali, l’Estate romana ne usciva e si apriva a tutta la città, a tutti i possibili tipi di consumo.

A questo punto vorrei aggiungere, per non essere equivocato, con finalità ben distinte, da quelle dell’autonomia: come il recupero della possibilità di una convivenza civile, le famiglie romane con nonni, coperte, provviste e vino accanto ai giovani con lo spinello. Ma il terreno d’intervento, il comportamento di massa, inteso non più come mancanza di cultura da educare, ma come cultura da cui imparare, e anche il modo polemico con cui si guardava a certi luoghi comuni della cultura di sinistra sopravvissuti alla critica del ’68, e anzi enfatizzati da quell’ideologismo astrattamente moralistico progettuale simili.

Non mi pare che esistano altri esempi di risposta, politica, in tema, ai bisogni espressi dal movimento del ’77: che ne contendessero l’egemonia all’autonomia organizzata. Questo ha avuto due gravi conseguenze. La più nota è stata la criminalizzazione prematura e senza appello dell’autonomia. La più grave è però stata quella che questi bisogni e questo movimento non hanno avuto altri interlocutori politici (ai livelli in cui occorreva fornirli: disoccupazione, ristrutturazione del lavoro, metropoli, terziario avanzato) dall’autonomia, e assieme a questa sono stati confusi e abbandonati. In questo modo si sono come rimossi problemi nodali della nostra società, che si erano affacciati in quello scenario, e che il mutato scenario della seconda metà degli anni Ottanta si incarica implacabilmente di rimetterci davanti, irrisolti ed aggravati.

*articolo pubblicato il 26 febbraio 1987 all’interno della Talpa speciale per il decennale del Settantasette e ripubblicato il 5 agosto 2012

11 pensieri riguardo “Addio a Renato Nicolini

  1. Al Nicolini empatico e visionario io sono grata.

    Si tornava ad uscire per le strade, Napoli negli anni ottanta era ancora una città buia e scappavo nei fine settimana a Roma dove si aprivano inconsuete visioni.
    Altro che effimero…la città eterna si offriva come un melograno, si rendeva fruibile, domestica, mai più l’ho vista tanto bella e quieta. Un “effimero” indelebile nella mia memoria.
    Era musica ed erano sogni notturni ad occhi aperti….passeggiando verso l’isola tiberina figure angelicate in raso bianco danzavano su una piattaforma fluviare. jazz in lontananza, era un incanto.

    Mettere in piedi visioni e spazio è Il mestiere dell’architetto.

  2. Condivido quanto afferma Michele Citoni. Sì, Renato Nicolini è stato colui che più di altri ha saputo far uscire la cultura dai “sacri ( e paludati) recinti” e ha saputo utilizzarla come mezzo di espressione e di comunicazione di massa, soprattutto di aggregazione trasversale tra generazioni e orientamenti politici. L’ha fatta uscire dal chiuso dei sacri recinti e l’ha messa a disposizione di larghe masse come veicolo di comunicazione e di confronto. Questo è stato il senso profondo dell’evento (nel senso genuinamente letterale ed etimologico del termine) di Massenzio e dell’Estate Romana. Non è stato nè il primo né il solo, ma di certo l’unico che ha saputo coniugare tutto questo. E la cosa ha funzionato alla grande. Dopo “quella ” Estata Romana, non si è potuto tornare indietro. Si è diffuso un linguaggio e uno stile.
    Certo, col passare dei lustri e/o dei decenni, un po’ dappertutto in Italia la cosa si è ritualizzata e annacquata, spesso è diventato sagra, fiera della cultura e /o altro. Ma qui e là si ritorna a quello spirito originario. Di certo lo è stato Cairano 7x, con un quidn in più di nuovo e di novità. Possono esserlo anche Carbonaria e Aliano, se si riuscisse ad ancorarli allo spirito della lucida follìa del “sogno di una cosa”, alla razionalità dei “sognatori pratici” col metodo delle leadership orizzontali diffuse in un autentico spirito di reti comunicanti, consapevoli, autonome, autodeterminate e compartecipi di un comune progetto che prende forma nel suo farsi…..
    Ri/parliamone.

  3. “Se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti”. (paolobruschi)…e questo vale sia per la coppia Veltroni/Alemanno sia per chi vorrebbe Nicolini arruolato ex post nel movimento dell’autonomia. Insomma vale per tutti quelli che vorrebbero arruolare postmortem un defunto alla loro causa. Nicolini era Nicolini e basta, con idee politiche e una militanza (Pci). Ma questo non gli impediva di avere idee e progetti originali rispetto al conformismo di partito o di movimento. Si è già detto (l’ho già detto) qual è stata l’originalità di Nicolini, a proposito di “estate romana” e di cultura di massa. Devo onestamente dire che l’articolo di AUT linkato da Michele, al di là del plafond ideologico, è quello che più rispecchia i motivi e il pensiero di Nicolini, senza che per questo (cioè per il solo fatto che certe cose le dicano Scalzone e Persichetti) lo si possa arruolare nel Partito dell’Autonomia, trasformandolo in epigono di quel movimento oppure- il che è peggio, per quanto riguarda l’altra sponda- dire che quanto sostiene Aut non sia vero.
    Ripeto,, Nicolini era Nicolini e basta,, con una sua originalità e un suo pensare/agire anticonformista: Lo prova il fatto che non ha fatto grande carriera nel pci/pds (su questo dovrebbe meditare, e a fondo, Veltroni); ma dovrebbero anche dirla tutta i reduci dell’autonomìa a proposito di certe sparate e di certi atteggiamenti sabotatori entro/dentro le iniziative dell’Estate Romana, dettate da quello sciocco furore ideologico del “chi non è con il Movimento (cioè con la mia teoria di movimento) è un controrivoluzionario”, sic et simpliciter…..Nicolini compreso. No, non si può rimuoverlo, questo. Ahi, ahi gli “ex-post”! Ma chi è …senza “ex-post” scagli la prima pietra!

  4. Andando più sul semplice, ma il pci avrà avuto un merito a chiamare in una giunta di grandissima visibilità come quella di roma uno come nicolini e a fargli fare quelle politiche, o no?
    ma possibile che quelli che non capiscono una cosa devono sempre pretendere di insegnarla?

  5. Quoto Saldan. Paolo, il Pci era una cosa grande, complessa e contraddittoria, e mi pare che nemmeno nelle parole più radicali di Scalzone ci sia una semplice liquidazione. In fondo il suicidio eseguito alla fine degli anni 80 è consistito proprio nel “tagliare” storie, culture politiche, rapporti di radicamento sociale, operando una semplificazione che in teoria doveva consentire di scorgere nuovi orizzonti e invece, proprio in quanto tale, ha chiuso ogni sbocco decente.

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