riprendiamoci il vento

appena letto in anteprima un articolo sulle pale eoliche che uscirà sul fatto di domani. ogni volta che leggo di quest’argomento mi sale la rabbia. le pale eoliche sono la truffa più grande che l’appennino ha subito nella sua storia millenaria. ma che razza di Stato è l’Italia che regala miliardi di euro ai palazzinari del vento che a loro volta lasciano solo un po’ di elemosina sul territorio?
la mia proposta è sempre la stessa: rinegoziare i contratti, col favore del governo che dovrebbe parteggiare per i Comuni e non per gli imprenditori. non dico di arrivare a fare quello che ha fatto chavez in venezuela con i petrolieri, ma qualcosa che stia minimamente su quella strada.

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

24 pensieri riguardo “riprendiamoci il vento

  1. condivido pienamente quanto dice Arminio. Bisogna contrastare l’uso privatistico e spezzetato del territorio:come prima fase il Comune( che il sindaco dice di non aver avuto poteri) potrebbe fare un piano regolatore che imponga “i comparti” e che quindi sottragga i singoli proprietari terrieri ad una trattativa singola ed egoistica, per coinvolgere chi sta vicino, che in ogni caso riceve un danno riflesso insieme all’intera collettività. Anche qui la lotta per il bene comune è l’unico antidoto a leggi fatte sulla testa dei cittadini! Non credo che difronte ad una vera resistenza delle popolazioni una legge che dichiari di interesse pubblico l’intervento considerato possa essere realizzato concretamente.L’interesse pubblico lo convalidano i cittadini del luogo e non un’astratta legge.

  2. Perché dico ci lamentiamo dopo e prima che succedano le cose non siamo in grado di fermare questi scellerati di amministratori che gestiscono la nostra regione .eppure abbiamo intelligenza da vendere non siamo secondi a nessuno ,e poi !!!!!!,

  3. I “pallazzinari del vento” portano milioni di euro a sostegno dei loro progetti. Non chiacchiere. Chi impedisce ai comuni cittadini di associarsi e fare altrettanto tenendo per se i proventi ed i vantaggi dell’eolico?

  4. In tempi di post modernità e di fallimenti dei grandi sistemi antagonisti (capitalismo compreso) va fatto il punto. Una cosa essenziale è dichiarare acqua, aria, terra, fuoco (il sole) beni pubblici e comuni. Con quel che ne consegue,. Fare “come ha fatto Chavez in Venezuela col petrolio” è UNA delle possibili modalità (tra parentesi lì, in Venenzuela, va benissimo). Qui da noi, possono anche essere diverse, parallele e alternate le modalità, eolico compreso, MA SEMPRE NELLA CORNICE STRATEGICA del controllo e della compartecipazione pubblica. Che (va da sé) non può essere quella delle Partecipazioni Statali e della Cassa del Mezzogiorno buonanime (al plurale), bensi pensata dal basso e in una rete di controllo territoriale diffuso, con ampi poteri decisionali, tale che gli abitanti del territorio possano vedere chi è buono e chi no, chi è incompetente e chi no, chi è ladro e chi no ecc. ecc. è assumere le conseguenti responsabilità decisionali, in ogni direzione. Questo è UN NODO su cui insistere , dibattere e proporre e questa è una strada che la PAESOLOGIA dovrebbe battere con decisione, se solo decidesse di venire fuori dall’ineffabile mistica che ogni tanto l’attanaglia, se solo volesse finalmente decidersi a costruire una rete organizzativa orizzontale e investirvi determinazione, fiducia, prestigio. Ma ahimè, temo che così non sia né sarà mai. Magari se conservasse, almeno , la forza comunicativa della sua poesia….

  5. le pale eoliche in Danimarca non invadono il paesaggio. i danesi hanno scelto di il mare aperto per catturare il vento. non ho mai capito perchè in Italia, con tutto il mare che abbiamo intorno, non si fa lo stesso…

  6. Lioni, 18-9-2012, h.13:48

    Cari amici, salve!
    Ma non ce la menaiamola per il naso.
    Qua le cose sono incancrenite da tempo.
    Sono illuminanti i libri di Antonello Caporale.
    Sono nauseanti le finte democrazie dal basso se una classe politica imbalsamata
    -tuttora- trincerandosi dietro l’effetto del leghismo, del grillismo e del cettoqualunquismo continua imperterrita a sopravvivere senza mai essere proposta alternativa di vita, se si concedono arresti domiciliari in conventi a corrotti, faccendieri e alti amministratori pubblici.
    Qui il vento dell’onestà è scomparso da 40 anni ed è stato alimentato solo quello del disastro istituzionalizzato a più livelli; solo da noi esiste l’impunità parlamentare per il primo politicante che ruba in ogni dove il futuro ai nostri figli; qui si gioca nel manico tra politici di mestiere e politici professorali pescati per magia a scapito dell’intelligenza del popolo e della necessaria rigida moralità sociale perchè siamo oppressi eticamente e si è distrutto il concetto di civitas e di cittadino.
    Dovranno essere loro le voci dissone a stare nel deserto non noi.
    Vi saluto, cari amici, Gaetano.

  7. Salvatore, da un certo punto di vista Franco ha ragione. Non ha senso pretendere qualcosa “dalla paesologia”. Al limite si può chiedere qualcosa a lui come cittadino, ma la possibilità di una svolta nelle politiche di uso del territorio dipendono solo dal fatto che sul territorio ci sia chi “voglia finalmente decidersi a costruire una rete organizzativa orizzontale” ecc ecc. A questo processo il cittadino e poeta Franco Arminio può dare un contributo importante in diversi modi, ma il processo e la persona non si identificano (e se avviene è un problema). Né si identificano il processo e l’espressione culturale di quella persona: il primo può nutrirsi di suggestioni fondamentali offerte dalla seconda, ma non può assumerla *come programma*.
    Però, Franco, il problema è che tu hai “ragione” qui sopra ma hai “torto” (per dire così) molto spesso altrove, ogni volta che parli della paesologia in terza persona come se fosse una cosa fuori di te che il mondo possa brandire, confutare, negoziare, ecc. La paesologia è la tua poetica, punto. Non vedo come il concetto di “terracarne” possa lasciare dubbi su questo: terra e carne come intreccio indissolubile all’interno della tua biografia, la tua biografia come il luogo esclusivo di questo intreccio. La paesologia può essere “letta” dagli altri, arricchire il loro punto di vista sul mondo? Certamente, ma non può essere “esportata”. Eppure tu mi pare che alimenti continuamente questa ambiguità, fino al punto di proporre la paesologia come discorso *direttamente* politico. Cosa, da una parte, destinata a produrre cattiva politica e, dall’altra, potenzialmente mortale per la tua poesia.
    Per quello che vale, ho detto la mia.

  8. caro michele, ad aliano c’erano molte persone che pensano alla paesologia in termini politici, ovviamente non partitici. certo che è la mia poetica, anche molto contraddittoria, ma c’è qualcosa che forse sfugge sia a te che a salvatore. vedremo poi questo qualcosa come si muoverà…..

  9. a occhio e croce, mi pare una minaccia di candidatura alle primarie del PD …
    d’altra parte se ce n’è per renzi, perché non per il nostro amatissimo arminio?

  10. quando propongo a mio figlio le gite paesologiche si appella sempre alla convenzione ONU contro la tortura e i trattamenti crudeli.

  11. . Per chiarire …per me ( e sottolineo per me) la paesologia non è solo una poetica ma una politca con altri mezzi e fini.Quindi non ha bisogno di una ‘estetica’ come non ha bisogno di una ‘filosofia politica’ meno che meno di una formalizzazione organizzativa orizzontale o verticale che sia.Quindi non c’è incompatibilità tra cittadinanza personale o espressione paesologica ma soltanto differenziazione nelle modalità e tempi di pratica e di verifica.La paesologia non è identificabile con nessuna biografia pena il ripristino delle gerarchie vertticali e gerarchiche.Lindividualismo di cui si nutre e alimenta è comunitario e provvisorio.E la sua arrendevolezza scentifica è la sua vaccinazione verso tutti gli equivoci della modernità ideologica,economica e politica. Questo il il mio pensare esplicito e chiaro…Per il resto richiamo il “labirinto” concettuale e ideologico entro cui esercito il mio pensiero critico nelle categorie essenziali della filosofia politica corrente di cui mi servo come “cornice dottrinale” e ntro cui cercare la mia stada paesologica….. La democrazia moderna ha poche passioni politiche e sentimenti personali e individuali perchè di esse ha poco bisogno. L’individualismo è l’elemento connotativo della democrazia moderna purchè sia distinto dall’egoismo in relazione al pensare e l’agire politico e non a quello etico.L’egoismo è un difetto dell’uomo, indipendentemente dalla forma di società storicamente determinata o utopicamente pensata,l’individualismo è un difetto del cittadino, peculiare alla società democratica.L’egoismo comunque è morale (nel senso che rientra nell’ambito morale !),l’individualismo è politico.Lamentarsi,recriminare è della sfera etica dell ‘egoismo’, analizzare,razionalizzare è della sfera della politica e dell’individuo democratico.La confusione dei due piani non fa bene all’individuo e meno che meno alla democrazia.Non confondere disposizioni e vizi della mente e farli diventare vizi del ‘cuore’ non aiuta nei momenti più doloranti.
    Un atteggiamento ‘egoistico’ della politica denota un’attitudine privativa rispetto alla politica . E’ far coincidere il ritiro del cittadino dallo spazio pubblico sentito come una prigione o spazio di offesa con un risentimento ‘egoistico’ e quindi morale.La passione politica è solo degli antichi ( nella attualità è reazionaria) per i moderni c’è solo la possibilità di una ‘libertà esercitata in modo ragionevole’.Una ‘libertà’ privata e individualizzata da poter salvaguardare anche a rischio di una perdita di potere personale.Perchè comunque di potere si tratta anche quando lo si esercita con tutte le buone intenzioni e qualità personali.La libertà individuale moderna è comunque “un piacere della riflesiione” quella degli antichi “un piacere dell’azione”.Un uomo antico poteva permettersi di abbandonare il suo territorio e i suoi concittadini ,un moderno lo può fare a rischi di rimetterci in ‘libertà’ e identità.Noi moderni non siamo stati capaci di mettere fuori dalla ‘politica’ la sfera privata degli interessi economici e politci,delle relazioni personali,familiari ed amicali e quando la politca ci disillude subiamo uno scacco totale e non riusciamo a uscirne differenziando i piani etici da quelli politici.
    Questa è la contraddizione che è alla base della democrazia o politica moderna da cui non possimao uscirne se non distinguendo i due piani e trovando i rimedi giusti ed appropriati.
    Il discorso è molto complesso e difficile …….ma mi urgeva dentro e comunque ho voluto esprimerlo.Siate compassionevoli la mia mente si nutre di complicazioni e siccome non posso sperare in un ‘buon Dio’ spero molto nella amicizia e la benevolenza di tutti voi.
    mauro orlando

  12. Grazie Michele per il tuo intervento, che mette nel binario giusto la mia noterella: è esattamente come hai chiarito tu che la penso.

    Del resto,per chi ha la pazienza di andare al di là della superficie del “discorso” di Mauro /Mercuzio, lì si riscontra – su un piano filosofico- la stessa sostanza; che poi è quella che fotografa Gaetano e che, con ironica sapida sintesi, infine chiosa Paolo Bruschi, avallato dalla sorniona risposta dello stesso Franco.

    Lungi da me pretendere dalla “paesologia” ciò che essa non può dare, ma dal “cittadino” Arminio e dalla sua felice intuizione, quando pone la paesologia sul piano dell'”agire politico” per così dire, agitando “comunità” e “reti” ( perchè non vi fossero dubbi, stavolta ci siamo inventate LE comunità -provvisorie- una volta defunta LA comunità – provvisoria-); dicevo, dal “cittadino” Arminio – nella lettura che ne fa Mercuzio- è lecito domandare contributi nel senso da te auspicato, al pari degli altri protagonisti frammentati sul territorio.

    La C.P. non è implosa su questo terreno? LE C.P. non le avevamo progettate su questo terreno?

    Evidentemente sono finalità,forme, metodo e prassi che non funzionano. Qui è il punto, Arminio e “paesologia” compresi.

    Che dire, poi, di quanto afferma Paolo Bruschi? Figuriamoci, si votano tanti insipidi avvocaticchi, vuoi vedere che proprio noi, gli amici, non votiamo Arminio?..
    .
    Ma mi domando: che cacchio ci fa o farà Arminio nel Pd e/o in una qualunque altra formazione dell’attuale cucuzzaro politico?.

    Al mio paese c’è un’adagio che dice “fa ( farà) o’ vallo (il gallo) ‘ncoppa ‘a munnezza”…

    Sarebbe ben poca (e trista) cosa. Una volta catapultato in Parlamento – ammesso che tali Partiti lo sostenessero per davvero- la sua voce verrebbe presto sommersa dalla palude melmosa del parlamentarismo affaristico e cialtrone, senza incidere da nessuna parte, proprio perchè fino ad ora non si è costruito nulla nel senso della rete collettiva territoriale.

    Al massimo abbiamo contribuito al protagonismo paesologico, da leggere come una variante positiva tra le nuove forme di leaderismo che agitano la scena politico-sociale da venti e piu’ anni, indizio ulteriore della crisi convulsiva di un sistema locale, nazionale, europeo, mondiale, che tende a escludere (come sempre) “le collettività degli individui” dalla politica e dai livelli decisionali. A ragione non uso più la parola “masse”, brutta, spersonalizzante, fuorviante.

    Quanto dureranno queste convulsioni, io non lo so; comunque non v’è dubbio che di questo si tratta.

    Quanto alla paesologia , non era e non è essa che parla continuamente di “rivoluzione”, di “scienza arresa”, di “umanesimo delle montagne”, “di guardare alla realtà dei paesi con occhi “nuovi e clementi”?. Ponendosi, dunque, su un terreno squisitamente “politico”, nel senso etimologico ( e mercuziano) del termine?

    Ma poi, all’atto pratico, chi è che non ci ha creduto al lavoro su questo terreno? Tanti, certo, ma Arminio fra questi.

    Il quale – SI BADI – fa bene a sviluppare e promuovere la sua ottima e legittima carriera di scrittore sulla poetica paesologica, con la conseguente azione pratica e “nomade” sul territorio/sui territori.

    Ma di questo si tratta ( e non c’è nulla di male),

    in nome di questo si chieda un aiuto organizzativo,in nome di questo un contributo, e per il raggiungimento di tale obiettivo, non d’altro.

    In agguato c’è il rischio della retorica, della mistica, dell’equivoco mistificante.

    Diversamente – come è più volte capitato – si è costretti ad andare in altre direzioni quando altri si spendono per dare conseguenze pratiche a quelle parole d’ordine sul terreno “politico”; e tanti si disperdono per strada, con il rischio – mediocri o rancorsi a parte, inevitabili come la morte ma da porre nel novero- di cospargere quella strada anche di cadaveri “amici”.

    Franco non si adonti.

    Lui le sa queste cose, ne è ampiamente informato. Ma un contributo alla chiarezza da parte mia è dovuto anche in forma pubblica, visto che ci siamo. Unitamente alla stima che nutro per lui per quanto fin qui prodotto come scrittore.

    Se è per questo, un posto in Parlamento, in Consiglio Regionale o come Sindaco lo merita senz’altro (con il mio voto assicurato sin d’ora, per meriti letterari e per la conseguente azione).

    Ma la prassi politica della scienza arresa, della rivoluzione, del nuovo umanesimo, della decrescita felice merita ben altro lavoro e ben altro impegno.

    Da parte sua, mia, nostra, di tutti. Ammesso che noi ci si creda davvero. Ingenuamente ammetto d’averci creduto.

    Ahimè, temo che fin’ora abbiamo continuato a navigare nell’ambiguità, nell’equivoco. Con residui di vecchie dinamiche (l’implosione della C.P. docet).

    Da qui la mia mancanza d’entusiasmo.

  13. salvatore
    ho appena finito di scrivere un lungo pezzo per il manifesto e sistemato un altro che uscirà sul fatto, so che mi leggi e magari troverai delle risposte. non è parlando di noi che risolviamo le cose. e poi noi chi? questo è l’equivoco, le comunità non le faccio io, non ho questo potere e neppure quello di disfarle….

  14. A leggere, ti leggerò, come sempre. Quanto al resto, prendo atto, ma…..jamm’ ià… non glissare,..ci si conosce fin troppo bene, noi qui che siamo intervenuti in questo thread dei commenti, da non comprendere questa tua modalità “glissante”…
    Che altro, se non prenderne atto?

  15. @ Mauro:

    non sono riuscito a capire tutto quello che hai scritto, ma questo interessante scambio mi dà l’occasione per dire che ho spesso avuto difficoltà a seguirti nei tuoi ragionamenti non tanto perché “complicati” quanto perché fondati su una premessa, che qui hai ripetuto, che non condivido: “l’individualismo di cui [la paesologia] si nutre e alimenta è comunitario e provvisorio”. Non obietto al “provvisorio” (a meno che non diventi un concetto-rifugio che consenta di smarcarsi da ogni assunzione di responsabilità intellettuale, una versione irpinorientale della ormai classica, pur se generata nella postmodernità, ideologia della critica dell’ideologia, un passe-partout volontaristico che aprirebbe la strada, secondo me illusoriamente, a livelli più profondi di aderenza al reale… ma questo discorso lasciamolo da parte); il problema è il “comunitario”. Fatto questo passaggio, che mi pare infondato, ne sono conseguiti da parte tua negli anni molti discorsi che hanno in cima il pronome “noi” e che per questo mi sono sempre apparsi privi di un possibile referente. Affermando che “la paesologia non è identificabile con nessuna biografia…” mi sembra che tu neghi l’assoluta originalità del lavoro di Franco Arminio: del resto, che io sappia, Franco ha cominciato a elaborare questo punto di vista sulle cose, e la sua conseguente espressione letteraria, ben prima che fosse anche solo pensabile un soggetto collettivo che si ispirasse ai suoi testi. Del resto Franco non ha scritto che la paesologia è “una scienza strana a cui si dedica un solo scienziato”? Quando poi aggiungi “…pena il ripristino delle gerarchie verticali e gerarchiche” non colgo il nesso logico.

    La paesologia è il modo di vedere di una persona. Nell’essere rappresentato, diventando cioè letteratura (ora lancinante, ora struggente, ora dura, ora divertente, ora desolata, ora amorevole, quasi sempre straordinaria), questo modo di vedere può influenzare il modo di vedere degli altri. Questa è la sua dimensione pubblica, intersoggettiva. Perché ciò diventi, negli altri e in Arminio stesso, azione trasformativa, occorrono altri passaggi; del resto quella influenza può essere esercitata anche su persone che politicamente abbiano posizioni diverse (ma poi: diverse *da che*, esattamente?).

    Ribadisco quindi che se parlo di paesologia io parlo della cultura di Franco Arminio. E su questo conviene ritornare a qualche definizione preliminare perché secondo me i nostri discorsi rischiano di slittare e farsi confusi e noi di non capirci più l’uno con l’altro. Mi faccio soccorrere da qualche stralcio di recensioni ai libri di Franco.

    “…Vento forte tra Lacedonia e Candela non auspica un ripopolamento o lo sviluppo ‘moderno’ dei paesi (non cade nel tranello dell’utopia); non è un lamento del passato, dei bei tempi della civiltà contadina (non cede alle sirene delle ‘anime belle’); è, piuttosto, qualcosa che sta a metà: una dichiarazione d’amore del ‘qui ed ora’ dei paesi per come sono adesso (i paesi della birra al bar, dei ricordi, dei silenzi, dei manifesti funebri, dei negozi, dei personaggi buffi, delle prepotenze, delle case anonime del dopo-terremoto, ecc.), un perdersi, tra paura e pace, nei ‘dintorni’ di una terra straordinaria quanto più è ordinaria, vera, scrostata di ogni sovrastruttura ideologica.”
    (Andrea Di Consoli)

    “…in ogni scrittore che aspira a una vera grandezza (e Arminio è fra questi) albergano varie, molteplici, discordi anime. (…) In Arminio, per esempio, c’è una vera anima nera, un plumbeo deposito saturnino, un’ipocondria di autentica marca leopardiana, perché capace di farsi metafisica, vision du monde. Altre tonalità del suo spirito sono meno disperate, più aperte a un’idea di futuro possibile. C’è insomma un Arminio scrittore civile che rimane un ottimo scrittore. Ma la civiltà ha il suo prezzo – e non parliamo della «comunità». In qualunque forma di ottimismo letterario, o di buon sentimento, finiamo per sospettare una specie di fioretto, di volontaria ortopedia spirituale. Sto dicendo che il grande poeta, come spesso accade in questi casi, è l’altro: l’Arminio nero, il mesto ipocondriaco visionario che non sa e non può mai venire a patti col mondo. (…) Arminio, nei suoi momenti migliori, ha il coraggio di impiegare qualcosa di sé che non domina e non prevede come se fosse una bussola, un criterio di giudizio, una prospettiva.”
    (Emanuele Trevi)

    Non si può sensatamente individuare *nella letteratura* di Franco una dimensione programmatica, se non la si forza a una mortale operazione semplificatrice. Nondimeno, si rivolgono ad essa attenzioni “pericolose”:

    “… [viene] il dubbio (…) che in Arminio molti desiderino, forse lui stesso in parte complice, (…) il documento, il testimone, il messaggio (ah! i paesi che scompaiono…); l’opinionista, non il poeta. Nessun dubbio che ami sinceramente l’hic et nunc, la presenza reale dei suoi paesi. Ma nulla gli sarebbe più letale che leggerlo secondo quell’ideologia del realismo spicciolo che è tornata, in seguito al crollo di molte salutari distinzioni, a innervare la vena profonda del nostro attuale paesaggio letterario. Arminio che ci dice, che ci spiega, che ci fa vedere un pezzetto di questa nostra sorprendente Italia… No, no (…). Ciò che Arminio, come ogni poeta, fa vedere, è solo quanto è possibile ottenere dall’attrito tra un corpo, una lingua e un paesaggio [i corsivi sono miei]. (…) La sua poesia non serve a niente, non salverà né il passato né il futuro dei paesaggi amati. «I libri migliori non aggiungono nulla, solo in pochi casi sottraggono qualcosa al mondo, e il mondo ogni tanto se ne accorge». Gli auguriamo lettori a questa altezza, cani randagi, non assessori al turismo o alla cultura.”
    (Daniele Giglioli)

    Eppure, caro Mauro, mi pare ci sia un fraintendimento: io non parlo di “incompatibiltà tra cittadinanza personale ed espressione paesologica” ma proprio di “differenziazione”, il termine che hai usato tu mi va bene.

    @ Franco:

    Non sto affermando, quindi, che paesologia e politica non si tocchino, e non faccio fatica a credere che ad Aliano siano accorse delle persone che cercano questi nessi. Il punto è che la questione andrebbe affrontata un poco più “di fino”, praticando contemporaneamente dimensioni linguistiche differenti, compresenti e in complessa interazione reciproca ma senza cortocircuiti.

    Sulla possibile fecondità di un approccio del genere voglio portare ad esempio una mia esperienza che riguarda il tema della metropoli ma che, a leggerla bene, dice qualcosa anche alla tua paesologia. Negli anni a cavallo tra i Novanta e i Duemila, a Roma, partecipavo alle attività di un gruppo di arte urbana (qualcuno ricorderà il gruppo Stalker, oggi Stalker/Osservatorio Nomade) che realizzava analisi e azioni con particolare attenzione ai territori di margine della e nella metropoli. In quegli stessi anni il dibattito urbanistico romano si misurava sulla rivendicazione proveniente dall’associazionismo ambientalista (e in seguito adottata dal Piano regolatore) di una “variante di salvaguardia” che mettesse al sicuro le aree verdi di pregio non ancora aggredite dall’espansione edilizia. La ricerca del gruppo Stalker non coincideva con il conservazionismo ambientale, perciò, pur non in conflitto con l’idea della “variante di salvaguardia”, ce ne uscimmo con la proposta (certamente propiziata da qualche effluvio di origine vegetale…) di una “variante di abbandono” che scaturiva da un diverso modo di guardare il territorio:

    “Esiste già dentro la città, e vi si insinua continuamente, una foresta da attraversare affrontandone i pericoli e le avversità, un territorio di fatto vergine, una zona franca dove tutto può succedere, che in nulla somiglia ai parchi che ci vengono proposti. (…) È in questi luoghi che natura e artificio si fondono nel tentativo di ricreare spontaneamente una ibrida wilderness fatta di foglie e di ruggine, di campi infestati dai rovi e skyline metropolitani. La comunità che viene li ha già riconosciuti, ci vive, li attraversa, scavalcandone le reti di recinzione li fa suoi. È lì che trova il proprio spazio di libertà, il territorio psichico dove identificarsi. Sono questi gli spazi in cui altre esigenze dello spirito vengono soddisfatte, nuove libertà si esprimono, in cui si stabiliscono spontaneamente regole non scritte, fuori da ogni controllo omologante. È nelle stazioni abbandonate, nei ruderi e negli spazi vuoti della città contemporanea che si possono proporre diverse concezioni dello spazio pubblico. Sono spazi che andrebbero sottoposti ad altre legislazioni. Piuttosto che una variante di salvaguardia, o peggio di conservazione, si potrebbe proporre dunque una variante di abbandono, come massima forma di cura e di garanzia di uno sviluppo spontaneo del loro divenire.”
    (Francesco Careri)

    Gli individui che componevano il gruppo erano tutte persone che pensavano politicamente, votanti o non votanti (naturalmente non è questo il punto), con idee più o meno precise sull’amministrazione della polis, qualcuno con un piede nell’accademia, o nel giornalismo, nelle professioni. Ma difficilmente avrebbero potuto dire le stesse cose in quegli ambiti. E in particolare: quella proposta collettiva, la “variante di abbandono”, era una proposta “politica”? La risposta è necessariamente complessa. Da una parte, no: perché l’oggetto di quella riflessione era, dichiaratamente, in continuo movimento e l’idea stessa di una proposta normativa su di esso era volutamente paradossale (“Dove arriva il progetto questi universi scompaiono per ricomparire altrove, ramificandosi e penetrando nella città costituendo un sistema autonomo, una città parallela con dinamiche proprie, con una propria identità formale, con proprie reti di relazioni, abitanti, luoghi, monumenti, che deve essere ancora compresa”); non era una proposta politica perché rompeva (scandalo per le mie stesse orecchie!) l’intrinseca connessione tra “politica” e “cura”, “politica” e “prefigurazione del futuro socialmente negoziata”, “politica” e “progetto collettivo”; perché “abbandono”, in politica, non si può dire. Eppure sì, era una proposta politica, perché alla politica segnalava il suo limite, insito nella continua eccedenza della realtà rispetto al progetto. Era un discorso che scaturiva da una pratica concreta – l’esperienza relazionale di attraversamento del territorio compiuta dal gruppo (in senso fisico: essenzialmente si camminava) – e che viaggiava sul filo del paradosso; un discorso ricco di implicazioni politiche reso possibile solo in quanto viveva in uno spazio *non direttamente politico* nel senso di *non direttamente progettuale*, nel quale cioè la capacità di osservare i mutamenti poteva essere elaborata e diventare parola pubblica senza limitarsi nei confini del progetto. Qui mi sembra, al contrario di quanto ho detto prima, di parlare di qualcosa del tutto compatibile con il concetto di “pensieri lunghi” spesso proposto da Mauro.

    Intendo dire che sarebbe stato necessario – o almeno, è questo un gioco a cui sarebbe stato interessante partecipare con altri, comunque l’unico gioco che avrebbe potuto avere come protagonista il “noi” di Mauro, l’unico possibile gioco comunitario – praticare un diverso spazio linguistico, *accanto* al discorso paesologico ma *distinto da esso*, nel quale tutti parlino e tutti ascoltino, in cui il linguaggio sia diverso da quello della paesologia e l’oggetto delle proposizioni non coincida con quello delle proposizioni della paesologia. Lo definirei uno “spazio della traduzione”, o, ancora meglio, uno “spazio translinguistico” perché in esso la comunicazione non si dovrebbe svolgere a senso unico.

    Questo spazio avrebbe potuto esistere a condizione, da un lato, che una comunità di persone (certo provvisoria, a geometria variabile, eccetera) si volesse incontrare in esso. Non dipendeva, quindi, solo da te, e il tuo ricorrente “non è che posso fare tutto da solo” ha in parte ragione di esprimersi. Non puoi fare tutto da solo. Ma dall’altro lato, permettimi, *non devi* fare tutto da solo: bisogna che tu consenta che quello spazio esista, per almeno due motivi:

    1) Esso sarebbe necessario a preservare la libertà creativa e la fecondità della tua arte, insita anche nelle contraddizioni interne alla tua poetica (solo nell’arte, oltre che – con Matte Blanco – nella psiche, si può dare una “bi-logica”, asimmetrica e simmetrica a un tempo). Ho già riportato sopra il “sospetto” di Trevi e il “dubbio” di Giglioli. E ti ripeto un esempio che ho già avuto modo di fare una volta (ma non sono sicuro che mi stessi a sentire). Prendi questa poesia:
    http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/2011/08/02/il-museo-dell%e2%80%99aria-e-altri-sogni/
    È bellissima. Ma non posso fare a meno di leggerla *nel suo contesto*, quello che tu stesso hai scelto: è stata pubblicata il 2 agosto 2011 sul blog “Comunità provvisorie” appena costituito; la morte della vecchia Comunità provvisoria e del suo blog era stata decretata ufficialmente solo pochi giorni prima (le “carte” arrivano sempre dopo i fatti, talvolta molto tempo dopo) con questo post di Angelo Verderosa:
    http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/2011/07/16/editoriale-di-chiusura-sintesi/
    Il tutto a coronamento di polemiche interne al gruppo ma testimoniate, per molti mesi, da interventi pubblici, tra i quali i tuoi, rimbalzati anche sulla stampa.

    Ti chiedo: come può un’opera artistica come quella tua bella poesia viaggiare all’“altezza” a cui aspira, cioè parlare alle coscienze dell’Occidente, se la lettura a cui si presta – perché è chiaro che il contesto della fruizione ha il suo peso fondamentale – è quella della “bassa” contingenza costituita da un’invettiva contro il sindaco pro tempore di un minuscolo paese della Campania interna, il presidente della locale proloco e un professionista operante nella provincia circostante? (sia chiaro: lo dico con tutto il rispetto per costoro, e pur avendo condiviso molte delle ragioni di quella polemica nei loro confronti). Il giorno dopo è buona “solo per incartare il pesce”, come diceva Luigi Pintor parlando del suo quotidiano.

    C’è un problema di “altezza” e “lunghezza” del discorso, quindi. Ma non solo.

    2) Uno spazio distinto dovrebbe esistere anche per accrescere la qualità democratica dell’esperienza “comunitaria” (democrazia, nella mia testa, è un concetto radicale ed ha carattere processuale, per cui se non è costantemente in tensione espansiva – “orizzontalmente” a includere nuovi ambiti, “verticalmente” a includere più persone – si solidifica in una crosta vuota). Quello spazio non può certo esistere in una “scuola di paesologia”, che già in quanto tale, si dovrebbe essere capito da quanto sopra, mi lascia perplesso. Vedo invece prodursi, e riprodursi ad ogni fase di apparente rilancio delle tue attività, un cortocircuito pericoloso in cui la poesia vorrebbe precipitare nella politica, e quindi si espone al rischio del rinsecchimento, la proposta politica sostanzialmente non produce niente se non un messaggio necessariamente generico, l’esperienza politico-relazionale è frustrante perché concede un solo reale grado di libertà, quello dello spettatore. Aggiungi un ulteriore cortocircuito mortale, quello tra la tua tensione politica e il richiamo della “politique politicienne” che ciclicamente ti seduce: candidarsi, non candidarsi, quale partito mi merita, quale non mi merita… sempre e comunque rimanendo un discorso privo di riferimento a una base sociale, a un processo collettivo cui eventualmente dare rappresentanza istituzionale (*prima* il processo collettivo, *dopo, eventualmente*, la sua rappresentazione: questa è la sequenza secondo la mia idea radicale di democrazia).

    Basta. Mi rendo conto che ho scritto troppo, vi ho annoiato e soprattutto parlo fuori (molto fuori) tempo massimo. Ma mi occorreva una certa faticosa elaborazione per dire – e forse ammettere a me stesso – che ritengo che i giochi siano in gran parte già fatti. Però non inutili, assolutamente. Forse non c’è stato per me gioco “a vuoto” che sia mai stato più produttivo di esperienze, sensazioni, conoscenze e possibilità di futuro di quelli che ho fatto con tutti voi. E ci saranno altri giochi, ne sono certo. Solo, spero, con più pulizia linguistica e relazionale e meno retorica.

  16. Caro Michele, meriti un bacio in fronte. Per la lucidità e la limpidezza di intelligenza, di sguardo e di cuore soprattutto. Sei stato chiaro e degno di un “pensiero lungo ” e articolato, come occorreva.

    COMUNICAZIONE DI SERVIZIO PER DAVID ARDITO:

    Io rimetterei in testa questo post, con la dicitura “SEGNALATI”.

  17. caro michele
    grazie per il tuo generoso intervento. oggi qui è un mesto pomeriggio settembrino. io sono al lavoro, ognuno da qualche parte è al lavoro. è chiaro che se facessi una cosa sola il mio lavoro sarebbe più chiaro. intreccio molte cose, il mio è un lavoro a oltranza, non dirti altro.

  18. ringrazio moltissimo michele …non c’è tempo e spazio per le idee intelligenti e stimolanti che raccontano le nostre storie mentali (non solo) degli ultimi anni…..gli si farebbe un gran torto rispondere e commentare senza fare sedimentare il tutto.sono particolarmente felice anche per me …per quello che andavo scrivendo sulla importanza culturale e politica della nostra esperienza comunitaria e paesologica e sulla mia testarda volontà di non far finire tutto nel calderone delle mie cicliche e generose sconfitte storiche……spero franco voglia dare la dovuta e appassionata importanza a questo scambio non solo personale ma pubblico di grande importanza per ognuno di noi se pensiamo veramente alla importanza della cultura in tempi di magra e di crisi epocale…..

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