una nota di francesco ventura

Attenzione! Occorre prudenza nel rapportarsi alla “politica” e all’apparato di norme e burocrazia di cui si servono governi e amministrazioni pubbliche
Ho maturato una ragionevole e motivata diffidenza nei confronti delle politiche pubbliche e dei relativi finanziamenti comunitari, statali, regionali, provinciali, comunali, per lo sviluppo locale comunque inteso: culturale, sociale ed economico che sia.
Il sistema è grosso modo il seguente. Viene stabilita un’azione e redatto un bando che mette in palio una determinata quantità di danaro. Le amministrazioni locali si attivano per concorrere all’ottenimento della somma.
Il giudizio premiante è formulato da appositi organismi tecnico-burocratici, lontani dai luoghi e variamente influenzati da suggerimenti di politici interessati, sulla base dell’esame dei progetti presentati dalle amministrazioni concorrenti. I progetti sono compilati, seguendo le complesse norme tecnico-burocratiche prescritte dal bando, da tecnici sempre più specializzati per questo genere di operazioni. La specializzazione è così in crescita che a sollecitare e proporre alle amministrazioni, “chiavi in mano”, la partecipazione al bando sono gli stessi tecnici (con il corollario delle loro aderenze politiche), che operano – come ovvio – secondo i propri fini di guadagno.
Lo scopo primario di tali progetti, per effetto stesso del bando e delle sue procedure, è il finanziamento. Mentre il fine del progetto, ossia ciò che col progetto si dice di voler realizzare, è solo un mezzo per perseguire lo scopo primario, ossia il danaro da spendere.
Se si andasse a indagare bene sui fatti e le esperienze compiute si scoprirebbe che per lo più non c’è relazione tra il contenuto dei progetti redatti con questa logica e la realtà locale. E anzi – senza nel breve spazio poter argomentare –non solo non c’è, ma dato il sistema non può esserci se non casualmente. Si scoprirebbe che quando il finanziamento arriva e si compiono le azioni e realizzano le opere conseguenti, non solo non si produce alcun sviluppo, ma si infliggono danni sociali e al patrimonio dei luoghi, spesso tremendi e difficilmente reversibili.
I fatti e le esperienze compiute non le si vogliono indagare. E insieme, e qui sta la perversione, non le si ignorano. I loro guasti, la palese incapacità di raggiungere o anche solo tentare di perseguire, con un minimo di plausibilità, gli scopi dichiarati, sono sotto gli occhi di tutti. Perciò i fallimenti assunti come dati di fatto costituiscono una preziosa risorsa per motivare l’incremento delle politiche, l’ulteriore richiesta di fondi e di iniziative promozionali. Un proficuo circolo vizioso. I progetti devono fallire, sono concepiti per disastrare e così continuare ad alimentare il sistema di erogazione dei fondi e dei conseguenti sperperi.
L’indagine, la riflessione seria e rigorosa su l’esperienza per migliorare la tecnica è evitata attribuendo i fallimenti alla malapolitica, alle varie forme di malaffare, all’ingordigia e incompetenza dei tecnici e degli investitori o affaristi. Tutto più meno vero, soprattutto, a quanto pare, in Italia. Ma non indagando e generalizzando non ci si rende conto che l’apparato nel suo insieme è tale da corrispondere al meglio e favorire l’uso fraudolento o comunque inefficiente di queste politiche. Arriverei a dire, e penso si potrebbe dimostrare, che l’apparato è tale da non permetterne un uso diverso da quello di far soldi. E i soldi li possono fare solo quelli che si dedicano a tempo pieno, professionalmente, e con la necessaria competenza e abilità a conoscere l’apparato e sperimentarne l’uso profittevole.
In altri termini tutte le energie sono indirizzate all’ottenimento di danaro e, quando ottenuto, l’ingegno è impiegato nel suo sperpero (perché per sperperare ci vuole ingegno tanto quanto per spendere in modo conforme ai fini dichiarati).
La logica delle politiche pubbliche e la tecnica per perseguirne i fini dichiarati andrebbe rovesciata e rivoluzionata. Dall’alto si dovrebbe poter conoscere quali concrete iniziative locali, spontanee, libere, non finanziate, non drogate, non finte, vanno emergendo. Dal basso queste andrebbero rese note. Ed è verso queste, caso per caso, in modo oculato e motivato, andrebbero studiati gli eventuali interventi di supporto se necessari. Si scoprirebbe che in alcuni casi gli interventi pubblici utili potrebbero anche consistere in atti volti a eliminare ostacoli burocratici e normativi, ossia ad agevolazioni a costo zero o quasi.
Faccio un esempio a caso (o quasi, in realtà tendenzioso). La “paesolgia” e tutto ciò che va inducendo, provocando, sollecitando. Se si valuta, come sembra a molti, positivamente e la si pensa promotrice di un “umanesimo della montagne”, volendo usare un’espressione del suo autore, chiediamoci: da quale atto di politica pubblica è stata promossa? Da quale progetto di finanziamento è stata concepita, è nata e va crescendo?
E allora, attenzione, perché l’apparato non solo produce tutt’altro e fa danni, ma può anche sterilizzare, paralizzare, inaridire, soffocare ciò che spontaneamente sorge. E per questo non è necessario pensare che ci sia qualche mente perversa che lo preordini e lo persegua. Non c’è pensiero, atto e iniziativa che non sviluppi una dialettica, altrimenti si tratterebbe di cose irrilevanti. Ciò che sto tentando di dire è che l’ostacolare è immanente all’apparato stesso per come è andato configurandosi nel tempo. Studiamo come modificarlo e nel frattempo evitiamo di esserne fagocitati.

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

6 pensieri riguardo “una nota di francesco ventura

  1. il problema posto qui da ventura esiste.
    c’è da dire che proprio su questo il ministro barca ha detto cose molto interessanti a bisaccia.
    – l’importanza di partire da un progetto partecipato e condiviso dalle parti in causa (stakeholder), impostato sui dati di fatto,
    – l’accurata definizione dei risultati attesi, con particolare riferimento alle ricadute sulla collettività, in termini di indicatori misurabili;
    – la sottoposizione preliminare dei progetti a organismi indipendenti, autorevoli e credibili.

    Quanto alla paesologia, che io sappia, le ultime salienti iniziative di arminio (aliano e terrascritta) hanno meritoriamente goduto di finanziamenti pubblici.

    fermo restando che tanta attività si può fare senza alcun riferimento a contributi esterni. a questo proposito, sarebbe tempo di tenere un pò a riposo la testa e mettere in moto le gambe, per riappropriarsi di qualche luogo, per ricucire qualche strappo nuovo e vecchio. insomma rimettersi in cammino.

  2. paolo la paesologia non ha mai avuto un euro da nessuno. altra cosa è il fatto che se svolgo una prestazione qualcuno mi riconosca qualcosa. per il resto concordo sul fatto che bisognerebbe fare un giro nei paesi anche alla vecchia maniera. avevo in mente un giro a gesualdo. potrebbe essere sabato 24 novembre, non ho altri sabati liberi fino a quel giorno. abbiamo tempo per pensarci

  3. A proposito dei temi sollevati mi è venuto in mente quanto sagacemente sostiene Edgar Morin:

    “la cultura, ormai, non solo è frammentata in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi”: da una parte la cultura umanistica “che affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce l’integrazione personale delle conoscenze”, dall’altra, la cultura scientifica che “separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa”. A ciò va aggiunta la sfida sociologica: “l’informazione è una materia prima che la conoscenza deve padroneggiare e integrare”, una conoscenza “costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero”, il quale a sua volta “è oggi più che mai il capitale più prezioso per l’individuo e la società”. L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato, così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame con la propria città: “la conoscenza tecnica è riservata agli esperti” e “mentre l’esperto perde la capacità di concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto alla conoscenza”.

  4. se dico che la scuola di paesologia ad aliano e gli incontri a terrascritta sono finanziati da contributi pubblici do una informazione corretta a ventura.
    e se scrivo “meritoriamente” non ammetto equivoci in merito al mio punto di vista.

  5. un articolo interessante e anche coraggioso, non tanto per quello che dice in generale, ma per quello che dice tra di noi, cioè tra coloro che vorrebbero cambiare il mondo e che a volte mettiamo la testa sotto la sabbia. Comunque c’è il rischio per dirla così che il potere finanzi l’elites locale a prescindere dai risultati collettivi.

  6. Analisi giusta e condivisibile, che rimanda di corsa all’eterno problema del “ripensare” continuamente le “forme” e le “modalità” con cui organizziamo la “polis”, cioè il complesso sistema di rapporti tra individui, comunità e articolazioni dello Stato.

    Che le attuali (forme e modalità) siano mal funzionanti, ce lo dice – per una volta ennesima- questo bel post di ventura, e su un tema di non poco conto.

    E di certo un approccio “culturale” è più affascinante ( e preferibile) rispetto a quello “politico”, per quel che di tradizionale reca questa parola, ormai così depotenziata.

    Ma una volta accettato e sinceramente condiviso questo approccio, forse che non resta la necessità di “ripensare” le “forme” e le “modalità” con cui ri/organizziamo, ri/disegnamo, ri/viviamo la “polis” ?

    Forse una possibile risposta sta in quei tre prefissi con barra….. e nell’ “emozione” che si produce nel ri/disegnare ri/organizazare ri/vivere. Emozioni/azioni assolutamente inscindibili da una prassi : la democrazia, nei micro gruppi come nei macro gruppi.

    Con quel che ne consegue.

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