Il giorno dei morti

di Eliana Petrizzi

Dopo le piogge di stanotte, la luna riposa in cima alla collina, fine come un’unghia. Il latrato di un cane si scioglie lontano dietro le case.
Vado al cimitero per una passeggiata. Qui, oggi, vince un sommesso lavorio di secchi che si riempiono e si svuotano, di spugne e detersivi, di operai che riparano le cassette elettriche. Un post-it giallo affisso su ciascuna lapide mostra le ricevute di pagamento, o i solleciti per chi non ha ancora provveduto. Su una tomba i cui riposano le ossa di più familiari, più ricevute in fila. In un lembo di terreno sgombro, il custode ha piazzato una statua di Cristo che, per un errore di calco, ha la faccia della Madonna. Ai suoi piedi, con gli avanzi di una lapide, una cassetta per le offerte. Un uomo in cima ad una scala pulisce la lapide dei suoi defunti, e già che si trova, pulisce pure quella di sotto. Nella sala accanto, un signore davanti alla tomba di sua moglie parla con un altro di Cassano.


Passeggio con calma tra i viali, poi mi siedo su un gradino all’ombra azzurra dei cipressi. Nella parte nuova, i loculi vuoti somigliano agli scaffali di una libreria. Sono venuta in questo cimitero perché qui non ho morti da piangere, e soprattutto perché oggi non è il due novembre. A me i cimiteri non piacciono: distese che potrebbero essere destinate ad un campo da giochi, a volte addirittura ad un piccolo paese. In fondo, questo è un cimitero; un paese al negativo. Ogni lapide è un documento d’inesistenza con foto tessera, data di nascita e di morte, a certificare la condizione di mancante all’appello. Osservando con attenzione le tombe, incontro persone che non vedevo da tempo e che credevo vive. Di Adriano, trentadue anni, pensavo si fosse trasferito per lavoro; di questa signora poco più che quarantenne, ero certa fosse tornata in Calabria dopo la separazione dal marito. Di Giovanni Russo avevo sempre e solo sentito parlare, ora ne vedo anche la faccia: tutti livellati dall’impietosa democrazia dell’estinzione. Le foto sono immagini ritagliate contro cieli finti, alcune scolorite o tutte blu. La signora Gemma si era appena sistemata i capelli; forse la foto è stata presa da uno scatto di gruppo al matrimonio del figlio. Umberto doveva stare già molto male: un giorno in cui stava meglio gli hanno fatto la prece in vista della lapide. Una bambina di nove anni indossa l’abito della prima comunione, Antonio il doppio petto di una domenica riuscita. Di certo, nessuna di queste persone, nel momento in cui la foto è stata scattata, aveva la minima idea di dover morire. Non ce l’aveva nemmeno Lidia, una ragazza morta a vent’anni in un incidente stradale. Aveva caricato su Facebook un video che la ritraeva in camera d’albergo, felice di essere appena arrivata a Roma in gita con la famiglia. Seduta sul letto a piedi nudi e con un pigiama verde, salutava gli amici, raccontava quello che avrebbe fatto nel pomeriggio, sorrideva e guardava sempre in alto o di lato, come le spose nelle foto, certa di essere viva e di continuare ad esserlo nelle prossime ore. Ed invece, dopo poco, eccola carambolare come un pupazzo sull’asfalto. Ho ripensato alla camera d’albergo: le cose sono ignare, nessuno le informa di ciò che ci accade. Gli abiti aspettano; non sanno che resteranno vuoti. Aspettano le scarpe, le penne, le spazzole, la borsa della palestra. Ma di Lidia non c’è più traccia: ciclo chiuso, pensiero impensabile. Ci sono cancellature che lasciano lèggere sempre un poco le parole negate. La morte no; nemmeno in trasparenza, alzando il foglio contro luce è possibile ritrovarle.
Mi chiedo di mio padre. Da parte sua, nessun messaggio, nessun segnale. Si dice che i morti chiedano attenzione e compagnia: falso. Quanto soffriranno veramente loro della nostra perdita? Meglio, a questo punto, che mio padre sia sepolto lontano, dove non sono costretta a visitarlo spesso. Quando mio padre era malato, pensavo spesso al giorno in cui, dissepolto, ne avrei rivisto le ossa. Il becchino le avrebbe mosse come rami secchi, mentre io, guardando il vuoto dell’orbita, avrei ritrovato i suoi occhi, tutte le cose che sapeva fare con le mani nei frammenti delle falangi, la falcata del passo nei femori spenti. Sarei rimasta paralizzata in uno stupore sordo. Invece mio padre è stato sepolto lontano, in una cappella di famiglia le cui pareti si crepano sotto il peso della strada adiacente: non lo vedrò mai più. Quando vado a trovarlo mi siedo accanto alla lapide. Non capisco mai da che parte sta la testa e dove i piedi, così, nel dubbio, mi siedo di lato. Non vedo e non sento niente. Mi distraggo spesso; mentre prego mi guardo intorno, penso ad altro. Non vedo l’ora di andarmene, delusa come una che è andata ad un appuntamento al buio nel posto sbagliato.
Speranza e paura si nutrono in fondo di cecità. Per uscirne bisognerebbe considerare l’intervallo non come sospensione, ma come evento concreto. Nel punto chiaro della strada, lo spazio si apre e respira. La vita è un’immagine di aria e pietra, di gesto e assenza. La sfocatura delle cose prende una definizione estrema, e l’intervallo diventa cosa visibile. Tra l’albero di fronte e la montagna sullo sfondo, tra le case e la terra che si perdono in lontananza: riecco le persone amate e perdute, misteriose combinazioni di numeri, la prodigiosa intelligenza dell’inintelligibile.
I vivi e i morti, in fondo, sono uguali; vogliono un nome e infine pace, come ogni cosa l’espansione, come il calore l’altezza.

Pubblicato da david ardito

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8 pensieri riguardo “Il giorno dei morti

  1. Arrivato in fondo al post compare una finestra sponsored by heineken.
    dentro vi scorgo altafini.
    sono certo che non sta parlando di cassano ma della eterogenesi dei fini.

  2. Il cimitero ha un silenzio strano,disteso che a me dà pace.E’ affolato e vuoto.
    Le voci dei morti si sentono senza che facciano rumore e poi diventano il frullo delle ali dell’uccello e si posano sulle striature del cielo.
    Quando vado al cimitero e guardo la terra,trovo nelle radici del marmo delle lapidi,ciò che taglia l’orizzonte,la retta che trova fine e non so dove poi si proietta.
    E,invece,di smarrire le mie ragioni,le ritrovo e poi sorrido ai mille sorrisi che i morti mi fanno e sfioro la voragine che ai miei piedi si apre e salto sulle margherite,salto sulla fossa,salto all’ombra del cipresso.
    Circoscrivo gli spazi e non ne vedo le angustie e nemmeno oscillo come la fioccola del lumino che ho acceso.
    Il cimitero ha il fascino del mistero e se lo dovessi immaginare,sarebbe proprio come lo vedo,con tutte le sue croci.Anche il suo profumo marcito,sfatto e intenso,lo trovi in ogni cimitero.Io non lo dimentico come i molti che,varcato il cancello,aprono le narici in astinenza e annusano l’aria dei vivi,ansiosi,perchè forse hanno paura di morire.

  3. A proposito di morti, c’è qualche paesologo che ha voglia di commentare la scomparsa della provincia di Avellino ? I paesologi sono a favore o sono totalmente distaccati e pensano solamente ad altro?

  4. lo storico domenico cambria è felice della unione di av e bn perchè sostiene che così rinasce l’irpinia storica, che aveva in benevento uno dei centri maggiori

  5. Forse ha ragione. Resta da vedere però se rinasce o scompare…molti paesi come Calabritto e Senerchia che sono al confine stanno raccogliendo le firme per passare alla provincia di Salerno

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