Impressioni di settembre

di mauro minervino

“Scegliete di arrivare più lontano”
(pubblicità, cartello stradale, SS 18)


Una bretella della strada si dileguava dal tronco principale della statale e saliva affiancata da qualche albero rado e spoglio su per i tornanti di una collina stretta in cima, quasi come un picco. Dietro la collina una forra scoscesa si perdeva in un avvallo sfocato, una specie di intervallo di terreno disabitato, ancora senza traccia di strade, reclamato da nessuno. Quello spacco di terra deserta si allungava ancora più distante in prossimità di un varco indistinto tra i monti. Spirava nell’aria un odore secco e aspro di paglia bruciata. Alle mie spalle le cime le più alte dell’Appennino calabro già formavano una trincea elevata, esatta, che sembrava opporsi al giorno calante in un silenzio compatto, scuro e impenetrabile. Da lassù si poteva solo allargare lo sguardo verso le bassure tremolanti della costa, ammirando l’intera distesa della strada punteggiata da isolati di cemento e

palazzate, da grumi più densi di case sorti a fianco di quel solco d’asfalto infervorato dal riflesso di interminabili luccichii di vetro. Nei punti più regolari del tracciato lo scorrere lento del traffico formava una bava di luce filamentosa, bianca e rossa. La strada a quell’ora era piena di auto che la attraversavano in ogni punto del suo percorso sfrangiato per chilometri, in file formicolanti, spezzate o via via più compatte. Oltre l’intermittenza del nastro rilucente della strada, il mare come un lenzuolo grigio e afoso protendeva la sua ombra indifferente ai piedi della notte. Dalla cima della collina, in fondo al costone scosceso si vedeva amalapena una trama di vecchi tetti e muri crepati, resti di casali e il fienile di una masseria più grande ormai abbandonata tra gli sterpi. Un filare di viti contorte e macchie di olivastri si disegnavano con una rima più regolare sul pendio scosceso che si sporgeva verso il litorale, che in quel punto sembrava scendere tra i pruni e i dirupi quasi rotolando fino al bordo della massicciata ferroviaria prima di rivedere il mare. La strada di sotto si intubava in un tunnel in cui il ronzio continuo del traffico scompariva d’incanto. Confuso dietro ai ciuffi di canne e di piante di fico selvatico, là sotto da un rientro del terreno qualcuno aveva ricavato un ampio recinto che fungeva da deposito di mattoni e materiale edilizio. In lontananza dentro il recinto un abbaiare ottuso di cani. La tregua finiva lì.

Cento metri più avanti la vena pompante della statale spingeva il traffico che si stendeva a perdita d’occhio da nord a sud sull’arco imperfetto della costa. Col cadere delle ombre la strada sfarfallava nell’imbrunire acidulo di quel vasto orizzonte con leggerissimi tintinnii di fosforo. Eravamo entrati nei giorni finali delle vacanze, a settembre inoltrato: i giorni che dopo la luce bianca che inonda la lunga stagione calda si dissolvono con l’effetto di una stella filante sfrangiata dal vento fiacco e prostrato, che dopo i primi temporali di settembre fa precipitare improvvisamente la sera sui balconi aperti ai lunghi pomeriggi oziosi della costa. Sono i giorni in cui nessuno cerca più di nascondersi all’inevitabile.

“L’efficienza riparte da nuovi valori”
(pubblicità, cartello stradale, SS 18)


Risalgo in macchina. Mi guardo intorno, come al solito cerco un appiglio. Gli ultimi schizzi di luce si piegano sui vetri delle case ai lati dalla strada. Le finestre e i balconi aperti lasciano trapelare al passaggio ombre in contro- luce, sipari dove si stampano i quadretti istantanei delle cene, le manovre e gli apparecchiamenti serali di famiglie riunite, le lampadine accese su vaghe sembianze di sconosciuti e sconosciute che usano i bagni e le docce, segna- coli di gente che resta ancora qualche giorno in vacanza nelle case del mare. “Aru mare.” Tra poco sarà il tempo del rientro dall’ultimo fine settimana dell’estate. Le macchine salperanno di notte sulla strada delle vacanze come una flotta di navi dal porto.

Da un’ansa della statale che si delinea a mezza costa sul mare poco prima di San Lucido, si vede il braccio teso della 107 che sale come l’elastico di una fionda sul collo della montagna. Al di là c’è Cosenza. La superstrada è la stessa che scavalca il muro della catena costiera che si erge sul Tirreno, oltrepassa la Sila e poi ridiscende attraversando in tutta la sua luce lo spessore più vario e ampio della Calabria per incontrare sul fondo le rive dello Ionio verso Crotone. In fila un convoglio ininterrotto di mezzi accende le luci e allenta i motori sulla salita verso Cosenza. Il traffico di quest’ora è spinto dall’inerzia stanca del viaggio diuturno, dieci centinaia di volte ripetuto dall’abitudine al saliscendi di chi ha già affrontato e accumulato su questo specie di alta- lena tre mesi di pendolarismo dalla città al mare. Le chiamano “vacanze di prossimità”. La stessa gente che si divide tra il lavoro e le case nei quartieri d’inverno e le andate e ritorni dei fine settimana di ferie nei villaggi estivi e nelle seconde case al mare, con mogli e bambini lasciati a presidiare case provvisorie e ombrelloni. Nella caligine nebbiosa che al tramonto avvolge la parete montuosa sopra la costa di Paola, i fari bianchi delle auto spandono sventagliate incerte. I meno frettolosi avanzano come vele di barchette che si lasciano andare mollemente al moto ondoso dei tornanti della strada che risale a larghe volute verso il passo della Crocetta. La discesa verso la città di Cosenza, la città capoluogo affogata dal lungo tedio feriale dei mesi estivi, poco dopo il valico piomba dentro il silenzio umido del catino vallivo del Crati, che si offre come un lungo scivolo alla processione di automobili appena superato il buco nero di un lungo traforo che sbuca sulla cima divergente della catena costiera. Qui corre il displuvio tra l’interno della Calabria e la costa occidentale della regione. La parte più larga di un piccolo continente. Due mondi prima separati dalla geografia e dalla storia, ora uniti, da non più di 30 anni, da un tramezzo continuo di gallerie e di tornanti di traffico, da siepi di case, condomini e vicinati in trasferta, in un andirivieni di auto piene di musica, di gente sudata e di infradito ai piedi. Ondate di marea turistica che calpestano l’estate e spingono tutto sulla riva del mare.

Adesso sul finire del giorno, in basso sul piano di una vecchia torre spagnola, il fanale intermittente del faro di Paola ricomincia a pulsare la consolazione delle sillabe mute del suo antico segnale di rotta ai naviganti dispersi sull’acqua grigia e sconfinata del Tirreno, già sgombra di tutto, sgravata di presenze abusive.

Dal margine della statale contemplo ancora il panorama rorido di questi bordi di costa, avvolto da chiazze di catrame, polvere e gas di scarico. In controluce risaltano i casermoni sconci degli anni ‘60, tirati su come parallelepipedi cinerei e informi tra la ferrovia e i tralicci dell’elettrodotto, poi i costrutti più nuovi, i quartierini effimeri e leziosi degli anni ‘80-‘90 affacciati pretenziosamente sulle spiagge, infine le villette a cubicolo sempre più striminzite e le palazzine più nuove appena intonacate, appena disertate dai vacanzieri e dall’esercito stagionale degli occupanti estivi. Messo tutto insieme e accozzato senza risparmio di spazio, quest’onda di marea edilizia si dispone su questa striscia risicata di terra obliqua, come un velo di garza fragile su una ferita che resta aperta e sanguinante. Ogni cosa al confronto appare subito spropositata, rimpicciolita. Una enorme periferia senza centro. Abituri smisurati, vuoti, casupole meschine, alveari che il giorno dopo le ferie si presentano fatiscenti e decrepiti quasi come dopo uno bombardamento che lascia nelle città desolate dalla guerra solo scheletri di cemento storpiato, aiuole bruciate e orbite vuote. Ambienti che sembrano improvvisamente svuotati da sconquassi disumani, trasformati in crateri e buche di un immaginario involucro lunare. Invece è così che sono le case al mare e i villaggi di vacanze sulla statale. Scatole vuote, posatoi, involucri di cartone senza ricordi. E basta che la gente vada via dalle ferie d’agosto per dimenticarsene, per accorgersi che è per accogliere solo questa impermanenza artificiale della vita, l’intervallo settimanale tra la spiaggia e la strada, per appoggiarsi al parapetto provvisorio di questi singhiozzi di giornate in ciabatte, dentro case-imballaggio che non sono paese e nemmeno città, che questi quartieri a scadere sono stati costruiti. La vita qui non resta a lungo volentieri. E si capisce. Sembrano case, ma non lo sono sul serio. D’inverno e per 10 mesi all’anno ci girano solo i cani randagi e qualche coppietta che arriva fin qui nei pomeriggi d’inverno per scopare al fine settimana negli appartamentini lasciati chiusi dall’estate.

Il mare sporco e brutto, il tempo delle vacanze che ogni volta sembra più effimero e dannoso, destinando a chi resta solo l’ingombro dei suoi cascami di polvere, i grovigli di cemento, le spazzature irrancidite, le case vuote, i resti di una crosta di terra e di riva di mare che perde ogni giorno la sua bellezzaper assecondare il gusto democratico del consumo. Si consuma tutto, che importa. Ma se niente importa, forse davvero già adesso non c’è più niente da salvare, da conservare. Perché dobbiamo continuare a pagare a vuoto per tutto questo scempio? Che cazzo di mondo è questo che ho sotto gli occhi? Quando tutta la bellezza “domestica” e l’anima dei luoghi di questi posti massacrati sarà sepolta e resa invisibile sotto un sarcofago di cemento e mattoni, ogni cosa che resta dovrà smaltire le volontà desolante della pletora e le conseguenze delle sue brutture per l’eternità.

Mentre faccio questi pensieri comincia a scendere qualche goccia di pioggia. Una pioggerellina appiccicosa che si incolla agli spruzzi di gomma, alla polvere che si solleva dalla strada e si raccoglie sul parabrezza: mi sommerge l’immagine della vacuità perentoria della fine di una stagione. Ogni stagione è così.

La prossima come sarà?

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

7 pensieri riguardo “Impressioni di settembre

  1. Amici, bellissimo post che merita attenzione. Spero commentarlo a breve, – visto che sono impedito da incresciose situazioni familiari- . Comunque, mi preme sottolineare che Mauro Minervino scrive con cuore e che lui ha sempre alimentato col suo particulare “il grande fuoco paesologico”:-). Questo – parlo per me- sin dai tempi propedeutici e post Cairano 7x, fino al suo intervento ad Aliano nei Parlamenti ad oltranza. Dovremmo andare a trovarlo il nostro caro Minervino, amici! Semmai fare un convegno rigenerativo sul crinale delle nostre idee appenninniche, sul nostro essere a sud di nessun sud. Io avverto questo, sento questo.
    Un abbraccio a Mauro Minervino e a voi tutti, vostro Gaetano Calabrese.

    1. grazie caro gaetano per quello che scrivi e per il ricordo di una ormai lunga amicizia e condivisione poetica dei luoghi della vita. un abbraccio e spero a presto, m f m

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