Nel cratere

di Eliana Petrizzi

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Vivo al centro di una valle vicina a città, stazioni e autostrade, famosa per i carciofi e per la cipolla ramata. L’ aria è buona, buoni la carne, il vino, la frutta, il pane. Il tempo è lento, i passaggi a livello si chiudono con largo anticipo e si riaprono con comodo, e nell’attesa non ci sono motori accesi, ma lucertole che riposano, cicale che brillano.
I maschi si sposano giovani. Le femmine vanno in palestra un mese prima di sposarsi. Dopo il matrimonio ingrassano, sfornano figli, e a trent’anni ne dimostrano cinquanta. A mezzogiorno, sulle panchine davanti al Comune, i corpi dei vecchi assumono la posizione di quelli che si vedono al telegiornale dopo una strage. Incontro per caso la bambina con la quale giocavo da piccola nel giardino sotto casa. Anche lei è rimasta in paese. Abita a cento metri dal prato in cui giocavamo, e mi guarda come se non mi avesse mai incontrata prima. I miei compagni di Liceo si sono accoppiati tra loro e sono invecchiati presto. Li saluto durante la festa patronale, tra conversazioni che non restano.
Mi sono laureata per fare contenti i miei genitori, ma mi sono sempre guadagnata da vivere dipingendo quadri, o creando oggetti piuttosto inutili. Ho tre amiche e nessun amico. La mia vita sociale è prossima allo zero. Una paura strana scompagina ogni mia intenzione; paura del minuto prossimo come degli anni a venire, dolore di vene aperte, di unghie troppo corte. L’angoscia di non riuscire a fare tutto quello che devo non si placa neanche dinanzi alla rivelazione di non avere niente da fare. Guardo le mie mani e non le riconosco. Presto i passi ad azioni risapute, mentre fuori gli uccelli passano silenziosi come le ore, come gli altri. Mi lamento di tutte le cose che si potrebbero fare e che non si fanno. Certo, la crisi è profonda e non c’è tempo che per la sopravvivenza. Arte e cultura sono lussi per studenti, sfaccendati, gente ricca, vedovi ed anziani. Il Sud è vittima del Nord, l’Europa dell’Occidente, l’Occidente dell’Oriente. Ma c’è forse un punto in cui i nostri limiti diventano alibi. Io per prima, nel complesso faccio abbastanza schifo: non mi interesso di niente, non voglio fare e non voglio partecipare, sto bene solo assente o defilata. Credo poco in ogni cosa. Cosa deve cambiare? Non saprei nemmeno da dove iniziare. Le mie amiche, però, hanno capito da dove finire: da qui. Due di loro si sono trasferite a Londra, dove, dopo soli tre mesi di colloqui, sono state assunte a tempo indeterminato. Cos’hanno lasciato? Una era giornalista con un rimborso spese mensile che non le bastava nemmeno per la benzina, l’altra era ricercatrice all’Università “a gratis”. Il loro unico rimpianto è di non essersene andate prima.
Nel mio paese l’artista non è un mestiere con cui si pagano contributi e tasse, ma un hobby che alimenta pittoresche leggende popolari. Per le amiche rimaste con me nel cratere, la mia è follia. Io sarei dovuta essere la prima a scappare, ma a quarant’anni proprio non ce la faccio a trasferirmi a Londra o a Berlino, a imparare un’altra lingua, a lavorare in un bar fino a tardi; io che alle nove di sera vado a dormire, e che ho tutte le fisime di una vecchia zitella. Anche perché, tutto sommato, io qui non sto poi così male. Vivo circondata da montagne a est e da colline a ovest: un paesaggio che mi ha insegnato negli anni il buono del limite, maestro di fatica, di pazienza e di misura; limite basso che in ogni stagione mi dice che dietro c’è una valle più ampia e poi il mare. Sto bene perché non mi illudo. Pesano gli strascichi dell’assistenzialismo, l’opportunismo delle combriccole politiche, gli scempi perpetrati ai danni del paesaggio e dell’urbanistica da vecchi abusi e da nuovi condoni, la bancarotta intellettuale, la paccottiglia degli ignavi e dei disfattisti, le aggregazioni di comodo. E poi falsità, cattivo gusto, pettegolezzi e pregiudizi: i contro della provincia, di ogni provincia.
Una volta ho provato ad andarmene da qui, nell’impeto giovanile che porta a credere che altrove andrà meglio. Destinazione Milano: ci sono rimasta solo quindici giorni. Al primo appuntamento di lavoro ho litigato con l’assistente del titolare, un ragazzone pugliese trapiantato al nord, che si mangiava le unghie e che si vergognava di sua madre, perché quando saliva a trovarlo viaggiava con una borsa piena di marmellate e teglie di pasta al forno, che poi, appena arrivata, scartava orgogliosa davanti a chiunque si trovasse in casa. A questo punto meglio il cratere. Sono passati diciassette anni. Quando esco in strada la gente si chiede se avrò messo la testa a posto, se porto le mutande, se sarò fedele al mio compagno, come sarà la mia casa, se mi drogo, se bevo, perché un artista che non si droga e che non beve che artista è? Qui la gente si accende per poco e ti fa sentire importante per ancora meno. Sa gioire come si deve, e cioè senza farsi tante domande. Altre volte la semplicità diventa dabbenaggine, ed ecco allora i viaggi a pelo d’acqua nella corsa alla mediocrità della sopravvivenza. Tuttavia, il circo della provincia mi intenerisce, mi affascina e mi diverte; è uno dei motivi per cui sono rimasta. La provincia mi nutre, coi suoi fatti che non accadono, coi suoi abitanti e i loro scambievoli silenzi. Le città sono pomate profumate sopra ferite che non si rimargineranno. I paesi di provincia sono onesti, perché le loro ferite le lasciano all’aria aperta, ad asciugare, o a compiacersi del fatto che non guariranno. Di quelle che funzionano non riesco né a scrivere né a dipingere: ci sto dentro e ringrazio. La scrittura, in particolare, mi sembra un puntello perfetto per tutto ciò che, al contrario, traballa e contraddice, per le cose che non ce la fanno, così vicine allo sghembo della vita. Nel cratere, dipingo e scrivo come fossero funzioni fisiologiche. Io pensavo che soprattutto scrivere fosse un’ala provvisoria, di quelle che ti accompagnano nella crescita, ma che poi cadono come dopo una muta. E invece proprio qui, in questa regione di mondo dove sono sola e dove nulla accade, quest’ala è diventata organo di escavazione. Non me ne sono andata perché viaggiando ho capito che il mondo si somiglia dappertutto. Di certo, però, se fossi rimasta a Milano non avrei incontrato la piccola piazza di S. Felice. Appena posso, mi siedo su una panchina davanti alla lapide in memoria dei caduti dell’ultima Guerra. L’olmo al centro della piazza diventa in primavera la cattedrale di insetti e piccoli fiori. Qui, i festoni appesi per la nomina del nuovo sacerdote applaudono nel vento come foglie che rotolano, legni che bruciano, palme in riva al mare. Vengo a scrivere, solida come la sponda di un letto che raccoglie i colpi della vita, vita che dormendo si rivolta, vita che azzanna quando il mio amore per le cose diventa troppo spesso amico dell’errore.
Ieri è venuta a trovarmi una signora che ha perso il figlio. Non ce la fa a rialzarsi, così, per distrarsi si è messa a dipingere. Viene per qualche consiglio sull’ultimo quadro, di solito il ritratto del figlio, che non riesce mai a finire. Mentre mi ringrazia, la vedo armeggiare con le mani nella borsa. Alla fine, caccia un pan di Spagna ancora caldo fatto apposta per me; non una fetta, ma un dolce intero, solo perché l’ho ascoltata un po’. Sono questi piccoli episodi, vasti silenzi, la paura di non farcela a darmi la spinta per un salto ancora. Ogni giorno mi dico: “Non chiuderti, conserva una mente curiosa, la capacità di amare l’esistenza col suo carico di povertà, varietà e bellezza”. Quando il salto arriva, la vita va come un vento portato dall’urgenza del suo racconto. Ho tempo, ne ho molto in questo vivere nel poco, cercando sempre quello che è già mio, nella certezza di esistere che avrei, se io ci fossi.

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Pubblicato da david ardito

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7 pensieri riguardo “Nel cratere

  1. Commento paesologico.Stamattina fa freddo.Un freddo secco accompagna un forte rumore del mare nella valle che fa da cassa di risonanza.Abito in una frazione,il colmo per un’insegnante di scuola primaria è abitare in una frazione!Infatti non insegno più.La scuola come istituzione è la sfilata dei pregiudizi:bambini che si scelgono come pomodori nella formazione delle classi.Si scelgono per avere i figli dei professionisti che non devono mischiarsi col popolino.Una bella lezione di accoglienza,di interculturalità,di diritti dei bambini.Non vorrei perdere il filo del discorso.Stamattina il mare col suo rumore forte mi ha commosso.Poesia nel paesaggio o depressione? Forse l’uno e l’altra.La fusione dei contrasti dà una tinta forte a emozioni sopite.Il mare molto agitato con le sue onde mi ha regalato una dimensione di eternità.Un fragore che arriva da lontano e avvolge tutto il paesaggio.Le onde simulano il nostro respiro,quando s’infrangono ci vedono naufraghi e quando rientrano nel mare ci fanno rientrare nell’immenso-vita o morte.Che a questo punto coincidono.Desiderio di morte che diventa anche forte desiderio di vita.E dentro tutto questo,senti il contatto con un’essenza strana,indefinibile,sconosciuta,non accettata.L’anima.Ci sfiora quando siamo connessi alla parte profonda di noi stessi,al senso della morte-vita o vita-morte.Mi sono poi guardata intorno.C’è sole,il paesaggio è pieno di luminosità.La famosa “luce” del gargano dove svettano pini d’aleppo,olivi macchia mediterranea,sabbia finissima di spiaffe incontaminate e una natura selvaggia.Posto turistico.D’inverno poche anime,circa 150 abitanti tutti dislocati nelle varie strade che portano in collina.Un bar non sempre aperto,un forno con qualche prodotto alimentare,il necessario.Uova,pasta,tonno,latte.Una farmacia non sempre aperta.Una chiesa.Di sicuro l’unico posto dove è possibile incontrare più gente ma non sono praticante anche se cristiana.Una torre federiciana si erge vicino alla chiesa,è sgarrupata e urge di interventi per renderla fruibile socialmente.Anni fa era stata adibita ad ospitare i medici del pronto soccorso estivo.D’inverno per l’assistenza medica e tutti gli altri bisogni si fa riferimento ai paesi vicini:il comune di appartenenza:Vico del Gargano.paese di collina o Rodi garganico,paese sul mare che già dai primi del novecento è stato annoverato tra i paesi più “civili “del gargano.Nota di Beltranelli che,a quei tempi fece un viaggio nel gargano.Forse è il mare che dà apertura,che permette scambi commerciali che nel tempo diventano un aspetto socio-culturale importante.Anche il mio villaggio San Menaio,che prende il nome da Santa Menna anticamente,respira aria di mare e noi ci riteniamo “marinari” rispetto ai “montanari” del comune di appartenenza che tra l’altro,ha fatto ben poco per valorizzare questa frazione dal punto di vista turistico,conservando la\sua caratteristica “contadina”.Ognuno ha il suo pezzo di terra,si coltiva l’olio ma non nascono cooperative.Ognuno per sè.a coltivare il proprio orticello,isolani nella chiusura.Anche geograficamente ,nei tempi antichi,il terrritorio era un’isola.Paesi arroccati sulle colline,distanti uno dall’altro con grande varietà di paesaggio:a poca\ distanza si trova il mare,la foresta,il lago.Un paesaggio molto vario tra una curva e l’altra.Il mio paede,d’estate si riempie

  2. Chiedo scusa dei refusi.Non ho avuto modo di rileggere il testo poichè terminato lo spazio,il cursore non mi ha permesso di rileggerlo.Volevo precisare un pensiero iniziale che risulta incompleto.Il colmo per una maestra di matematica di scuola primaria è abitare in una frazione!
    Il mio paese d’estate si riempie spaventosamente di gente che fitta le nostre case al mare.Si passa dalla confusione eccessiva dell’estate,dall’animazione alla desolazione invernale.Tutto avvolto nel silenzio,non c’è traccia\di esseri umani.Li trovi al bar,a giocare a carte,a “tre sette” gioco garganico.E a spettagolare,non quel parlare del prossimo per forma di interessamento ma per demolire il prossimo anche con la calunnia e la maldicenza.Da questo punrto di vista,ogni mondo è paese,perchè noto che anche chi viene da fuori,dalle civili città del nord,dopo un po’ si adegua alla\ mentalità e diventa come loro.Per fare la rivoluzione non ci si può adeguare,bisogna sentire fino in fondo le proprie convinzioni e il coraggiuo di andare contro corrente.Nei piccoli posti,nei piccoli paesi se non ti adegui sei un diverso,o ti dai troppe arie o sei un atipico che ognuno definisce come vuole.Provo amore e odio per questo mio paese ma \non riesco ad allontanarmi da lui.Quando ci ho provato,sono sempre ritornata.Il richiamo della foresta.”Credo che qui più che altrove sia possibile annusare la rosa che non c’è.E questa rosa è la poesia.Per chi scrive,un paese e sempre un amore non corrisposto.Ma nel nostro restare abbiamo sempre pensato che un oscuro alimento ci doveve essere,forse la possibilità di una disperazione più vera di quella che può coglierci altrove” da “Viaggio nel cratere” di F.Arminio

  3. Ho ricavato una tua foto, in bianco e nero. E’ nascosta in un cassetto, fra mille documenti. Me ne dimentico e quando viene fuori è un’emozione, che si rinnova.

  4. brava Eliana, non ti conosco e non conoscevo le comunita’ provvisorie…qui al nord la paesologia e’ una scienza impraticabile e non so quanti capirebbero la poesia della tua scrittura…per me invece e’ una boccata d’ossigeno. grazie

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