Il pane comune

un pezzo da terracarne

Risiedo a oltranza da più di cinquant’anni in un paese del Sud.‭ ‬Non me ne sono mai allontanato.‭ ‬Qui ho percorso ogni strada,‭ ‬udito ogni sospiro.‭ ‬Qui ho tenuto a bada la mia paura,‭ ‬qui l’ho alimentata.‭ ‬La mia scrittura è animata dalla morte di ciò che vedo intorno a me,‭ ‬di ciò che ho visto cambiare e agonizzare.‭ ‬È come se fossi seduto al capezzale di un vecchio parente che si sta spegnendo lentamente.‭ ‬Nel suo dolore io vedo ancora un barlume di vita.‭ ‬Una vita che si è ristretta mano a mano,‭  ‬che è stata soffocata dai suoi stessi figli,‭ ‬dai figli dei paesi che sono andati via o sono rimasti.‭ ‬Quello che faccio ogni giorno,‭ ‬da più di trent’anni,‭ ‬è frugare tra le macerie di ciò che è rimasto e tra le oscenità di ciò che è stato aggiunto.‭ ‬A volte basta un raggio di sole o un’aria pulita come quella che abbiamo in febbraio,‭ ‬basta una mandria di vacche in cammino per darmi un filo di lietezza.
Da piccolo mi pulivo la bocca vicino ai portali di pietra sbozzati dagli scalpellini,‭ ‬solo così mi sentivo pulito.‭ ‬L’acqua non mi era sufficiente,‭ ‬come non mi era sufficiente l’aria.‭ ‬Scrutavo le cose sempre in debito di ossigeno,‭ ‬e lo faccio ancora.
L’angoscia è la mia risorsa,‭ ‬la mia lente di ingrandimento.‭ ‬È grazie a lei che entro in contatto con un’angoscia più grande e la trovo più interessante dell’idea che tutto deve essere quieto,‭ ‬calmo,‭ ‬contenuto,‭ ‬ma soprattutto non esagerato.‭ ‬Non mi interessa la regola della bonaria indifferenza,‭ ‬la regola del non vivere troppo e troppo in fondo.‭ ‬In giro circola un’aria da vaccinazione,‭ ‬una sorta di cordone sanitario dell’inedia,‭ ‬ogni giorno prendiamo la nostra dose di controllo delle coscienze e proseguiamo senza scossoni.
Io sogno una rivoluzione nella quale ciò che resta di noi si sporga su quest’orlo,‭ ‬su questo baratro che si va allargando,‭ ‬abbandoni le smanie di esposizione‭ (‬da cui non sono immune‭) ‬e si metta in silenzio a guardare.‭ ‬Forse questa è la soluzione,‭ ‬abbandonare il linguaggio dell’attualità,‭ ‬le parole che contrabbandiamo ogni giorno per dirci esistenti,‭ ‬e inginocchiarci,‭ ‬assumere un nuovo punto di vista nel quale la formica e il campanile,‭ ‬il filo di fieno e il palazzo del Comune abbiano la stessa grandezza e la stessa finitezza.
Il mio è un sognare disperato,‭ ‬come silenziosamente disperato è il Sud che mi vado a cercare,‭ ‬lontano da quelli che hanno venduto al cemento la loro anima,‭ ‬da quelli che hanno voltato le spalle al mondo che li ha partoriti.
La mia speranza è un altro Sud,‭ ‬fatto di persone che cominciano a scambiarsi abbracci veri e parole intense,‭ ‬a spezzare il pane comune dello scrupolo e dell’utopia.

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

Una opinione su "Il pane comune"

  1. Ogni tuo pezzo letto e riletto è un’identificazione, con la differenza (enorme) che io l’abito nell’anima il mio sud,fuori è freddo glaciale nel posto dove vivo fuori dall’anima.Per questo motivo anche le storie del sud corrotto e corruttibile mi fanno male come se mi squarciassero le carni.Mi auguro come scrivi che si arrivi ad una latro sud che sappia spezzare il pane dello scrupolo e dell’utopia.

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