un pezzo da CIRCO DELL’IPOCONDRIA, (LE LETTERE, 2006)
La paura si è invaghita
del mio cuore
e io le corrispondo:
annaspo, affondo.
La tesi è questa frase di Adorno: “se pensiamo con timore che accada una certa cosa questa finisce inesorabilmente per accadere”. L’antitesi è questa frase di Cechov: “io so che morirò d’una malattia della quale non avrò timore. Quindi, se ho paura significa che non morirò”. La sintesi è questa frase di Kafka: “scrivo perché dispero del mio corpo e del mio avvenire con questo corpo”.
L’epoca che passa nel suo corpo è un’epoca triste e affannata. Non si capisce come si faccia a fare finta di niente, ma qui si ama e si odia per finta. Ci sono uomini di tutti i tipi, ma sembra che non ci sia più nessun uomo in giro. Possiamo benissimo continuare con le solite manfrine, attaccare briga con la storia o con Dio, non cambia niente. Davanti a ognuno, ignoto o famoso che sia, c’è uno specchio buio. L’esistenza si è ridotta a una sommatoria di incombenze, compresa l’incombenza di distrarsi dalle incombenze, quelle che chiamiamo vacanze. Forse non è la prima epoca in cui gli uomini si sentono così, sicuramente solo adesso abbiamo gli strumenti per dircelo. Ma neppure questo facciamo, continuiamo a balbettare di niente, scimmiette senza l’albero e senza la banana. Siamo sbranati dall’irrealtà, abbiamo smesso di nascere ma non di morire. Se un giorno qualcosa si dilata, il giorno dopo subito si rattrappisce. Abbiamo facce scadenti, pensieri scaduti, impastati sempre con lo stesso fango. L’avventura di essere uomini è qualcosa che non ci avvince. Noi siamo qui a elemosinare qualche attenzione, ognuno rintanato in uno spavento da cui ci appare incomprensibile lo spavento degli altri.
Oggi, alle due del pomeriggio, ha avuto la solita fitta al petto, ma ogni volta questa fitta non pare essere la solita, pare essere più fitta delle altre, pare venire da un punto del cuore che nessun apparecchio può esplorare. Ha lasciato il telefono, stava per comporre un numero. Si è immediatamente messo un po’ di gocce sulla lingua ed è salito in camera da letto. Da disteso ha sentito che gli cominciava a battere il cuore e il suo corpo gli diceva in maniera inequivocabile che fra pochi minuti avrebbe ceduto. Allora ha pensato di usare i pochi attimi di salute che gli restavano per recarsi in ospedale. Ha pensato che cadendo a terra avrebbe trovato subito qualcuno a raccoglierlo. L’ospedale è a mezzo minuto di macchina da casa, parcheggio compreso.
Quando tutto va bene, quando tutto va meglio, il pensiero della fine si mette a infuriare nella sua testa.
Poco fa quasi dormiva sul divano e pensava di aver finito la benzina. L’ha pensato tante volte di aver finito la benzina, lui la benzina la consuma a pensare che la benzina stia finendo. Arminio è una macchina che cammina avanti e indietro in un capannone.
La morte usuraia. Chi scrive deve lavorare per pagare il debito col suo taglieggiatore, ma, se scrive, la pressione non si allenta, anzi il debito aumenta.
Arminio vive per dispiacersi, così come il serpente vive per strisciare. Sta nella sua natura quando è dispiaciuto. In pochi momenti fa altro, sono i momenti in cui non ha bisogno delle delusioni che si procura utilizzando gli amici e loro avvertono questa strumentalizzazione e per questo alla fine trovano che sia giusto farlo soffrire.
Crede più alla sua ferocia che alla viltà. Di sicuro sono congegni spirituali che gli appartengono, inutile dire adesso se in misura minore o maggiore rispetto ad altri. La questione centrale è che Arminio è ultimativo. Non ama nessuna forma di interlocutorietà. Non ama i rapporti posticci che dominano la scena. Deve sempre sentirsi al dunque, al culmine. Arminio è un eroe del dispiacere, ma anche dell’impazienza. E l’impazienza discende dal dispiacere come quest’ultimo discende dalla prima. Prima o poi sono destinati a vederla tutti in Arminio. Si tratta di una mancanza di quella che comunemente viene chiamata umanità. Ora non sa se lui è disumano per eccesso di umanità o per carenza della stessa, in ogni caso il risultato non cambia. La scrittura consiste essenzialmente nella segnalazione di un esilio, proprio o di altri, ma sempre di questo si tratta. Ci sono tanti tipi di esilio. Ad Arminio è toccato di essere esiliato dal suo corpo. Se lui fosse nel suo corpo non ne avrebbe tanta paura. Lui ne sente l’estraneità tutti i giorni, una estraneità che normalmente viene avvertita solo nelle grandi malattie. Un qualunque malato di cancro capisce benissimo di cosa si parla. Ma anche un forte mal di testa o un mal di pancia già può far sentire che abitare in un corpo significa abitare in una cosa estranea, lontana, una cosa che va per conto suo. La malattia di Arminio è grande, per ora, solo nel fargli sentire questa perenne estraneità. Il corpo è la sua guerriglia, il suo Vietnam. Un territorio insidioso, in cui ogni minima minaccia è amplificata da un sofisticatissimo sistema di allarme. E il suo scrivere serve a fare la manutenzione a questo sistema. La scrittura lubrifica la paura, lascia ben sgombre le arterie del nulla.
Intensificare la sua vita è un tentativo che fa da anni inutilmente. Perché se non è accompagnata da questo sforzo di intensificarla a lui pare una fatica inutile. Frasi tipo: lasciati andare, prendi le cose come vengono, sii naturale, ecc., lui non le ha mai capite. La vita gli interessa solo se la lima, la ripara, la guasta attimo per attimo.
Se dopo un respiro possa venirne un altro non è cosa che sappiamo, eppure facciamo lunghi discorsi ignorando che si cammina in bocca a una formica.
Stava leggendo un articolo sulla scomparsa di un artista famoso quando ebbe la sensazione che prima o poi sarebbe morto anche lui. Quel giorno è come se avesse perduto la guaina, la rete, il filo che ci tiene sospesi come ragni sul buco delle tenebre. Non è la solita paura che un poco ci sconforta, è qualcosa che tocca la melma del nostro essere, la carbonaia dove stanno alla rinfusa i più foschi sentimenti. Il tutto durò meno di un minuto, ma fu un tempo tigre, sufficiente per vedersi passare in un sol balzo dai versi ai vermi.
La tavola del mondo è inospitale. Un Dio barbaro getta i sassi dal cavalcavia.
Arminio vive solo per commentare le sue paure, vive nell’attesa che si manifestino, vive in quel che rimane di sé dopo queste paure. La medicina più aggiornata dice che tutto viene dall’infiammazione, il cancro, l’infarto non sono che l’ultimo stadio di un’infiammazione. Il bagno biochimico in cui siamo immersi può andare incontro a squilibri e questi squilibri portano a volte a quella singolare lesione che è la letteratura.
Un colpo cattivo, come fosse uscito per un attimo dall’asse della terra, come se il filo che ci tiene fermi, legati al centro del mondo, si fosse spostato. Erano molti anni che non sentiva un terremoto. È uscito in mezzo alla strada come fanno tanti. Sono momenti in cui ti piace che ci siano al mondo anche gli altri: puoi chiedere loro se hanno sentito la scossa, puoi vedere la paura sul loro viso, la paura che si sta dissolvendo. Lui che vive in un perenne sciame sismico e aspetta ogni momento la scossa più forte, oggi, in modo penosamente sensuale, ha sentito che il mondo non è nostro e che solo qualche appiccicosa abitudine ce lo rende abitabile senza un perenne terrore.
Non ci sono scale per scendere ai morti, ammesso poi che stiano in basso. Bisogna comunque saper prendere una via verso quel mondo non ancora minacciato dalla fine.
Per l’ipocondriaco il corpo è l’ultima spiaggia. Il corpo non è qualcosa che si è, ma qualcosa che si ha. È l’unico vero possedimento e come tale se ne teme continuamente la perdita.
Sembra che le donne stiano veramente lì per amare o per godere. Arminio crede che queste funzioni non siano accessibili a una creatura tragica come il poeta. Per lui il sesso è semplicemente uno strumento di conoscenza. E per conoscere bisogna divagare, amare una cosa sapendo che questa cosa diventa necessariamente altro. I poeti forse sono gli unici veri amanti delle donne in quanto per loro le donne non esistono e se esistono sono solo muse, dee, pretesti per adire le vie della scrittura.
Passiamo davanti agli occhi degli altri senza imprimerci nella loro carne. Siamo fatti di carta da parati. Cambia il disegno. E il muro a cui siamo appoggiati.
Quando muore un ipocondriaco c’è veramente da piangere. Siamo di fronte a una persona che per tanto tempo ha pensato alla morte e non gli è servito a niente.