un pezzo da terracarne, mondadori, 2011
Io abito il mio corpo come si abita una casa sospesa sulla frana. Scrivere è un modo per tenere a bada il pericolo, la perenne emergenza su cui è fondata la mia vita. La scrittura fa la spola tra i mali veri e presunti del mio corpo e tra i mali veri e presunti della mia terra. Terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo.
La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.
La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.
La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.
La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.
Forse il patrimonio di anemie e scoramenti è comune a tutti i luoghi. La mia ipotesi è che nei piccoli paesi questa sensazione ti arriva dentro in maniera più perentoria, hai meno possibilità di distrarti o di aggrovigliarti nel caos della giornata. Nei piccoli paesi la vita ti sta davanti con la sua incompiutezza perenne. E tutto questo c’entra poco con i soliti lamenti sui guasti prodotti dalla politica. Ci sono anche questi, ma forse agiscono ai margini del quadro.
Quello che ci opprime veramente, quello che ci fa smaniare e ci rende scontenti è questo non riuscire a raccogliere, a raccogliersi. Anche nei paesi come nelle città è in funzione quella che è stata definita “la società degli individui”, con la democrazia autistica che ne consegue. Da questo punto di vista non ci sono differenze, però bisogna sempre considerare che il metabolismo di un luogo in cui ci sono mille individui in trenta chilometri quadrati è assai diverso dal metabolismo di un luogo in cui ci sono trentamila individui in un chilometro quadrato. Bisogna sempre essere attenti alla geografia. La vita di ognuno dipende da dove è piantata la propria casa. E oggi questa casa è fatta di muri e di buchi. I muri che ci impediscono di fuggire da ciò che ci opprime, i buchi che fanno fuggire quello che vorremmo trattenere con noi.
Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore. Si va nei luoghi più sperduti e affranti e sempre si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare. Non sarà sempre così. La paesologia è una scienza a tempo. Non poteva esistere cento anni fa e non potrà esistere fra cento anni. Fra un secolo i paesi avranno una piega più chiara, saranno morti o saranno vivi e vegeti e allora non avranno più questo crepuscolo che li rende così particolari. Si è aperta una piccola finestra e da questa finestra il paese ci fa vedere la miseria e la gloria di stare al mondo. Andate nei paesi allora, andate dove non c’è nessuno in giro. Abbiate cura di credere alla bellezza sprecata del paesaggio, portate il vostro fiato alle sperdute fontanelle del respiro.