un pezzo da TERRACARNE (mondadori, 2011)
Seduto alle due di pomeriggio in uno slargo muto. Seduto su una panchina, davanti a un fontanile. Io e il mio panino. È un momento tipicamente paesologico. Lo è di più oggi a Rivello. Ho fatto molti chilometri per vederlo. Lo avevo visto sempre e solamente dalla strada, come è successo a tanti. È un paese che se hai una macchina fotografica non puoi che fermarti e scattare. Si possono immaginare gli aggettivi che suggerisce: ridente, pittoresco, e così via. Una filastrocca popolare in disuso ricorda che s’ Riviell’ foss’ n’chiano, foss’ meglio di Milano, ma siccom’ ch’è in collin’, è meglio di Torin’. A starci dentro oggi me ne viene un’indignazione che sgombra ogni altro pensiero. Guardo la montagna di fronte a me, guardo le macchine che scorrono veloci sulla strada che unisce la Campania alla Cala-bria attraverso questo lembo di Lucania. Mangio il panino e penso a quanto è assurdo che nel cuore dell’estate un paese così bello sia tanto vuoto.
Nel passato i rivellesi emigravano in Brasile, adesso i ragazzi vanno al Nord. Qui sono rimasti seicento abitanti nel centro e duemila nelle contrade. Seicento persone per un luogo che conta una ventina di chiese. Oggi non riuscirò a vederne nem-meno una. Sono chiuse e non posso resistere fino all’ora dell’apertura. Non posso neppure girare con la macchina, né a piedi, vista la calura impressionante della controra. È facile im-maginare che uno dei motivi dell’esodo dal centro storico sia il fatto che non è percorribile dalle automobili. Hanno tentato di aprire varchi all’asfalto ovunque era possibile, ma un certo punto il paese diventa un muro di archi e scalini e ci vogliono solo i piedi e una testarda fedeltà per starci dentro un anno dopo l’altro. Intanto io che sono di passaggio ammiro un luogo co-struito con straordinaria perizia dagli artigiani locali. Questo è anche un paese di valenti orologiai, ramai, orafi. E a parte quelli che lavoravano l’oro, si può dire che tutti hanno contribuito a creare questo gioiello. Vedere come è ridotto adesso getta una luce sinistra sul futuro dei paesi. E anche sul loro presente, un presente che sembra godibile solo a chi ci passa per qualche ora.
Me ne vado da Rivello dopo aver parlato con due giovani o-perai di una società elettrica. Uno è del posto, l’altro è della vi-cina Lagonegro. Nelle loro parole il paese esiste solo come luogo scomodo. È incredibile che un posto a cinquecento metri d’altitudine, con un mare bellissimo a pochi chilometri e con montagne sontuose che gli fanno da cornice, oggi pare con-dannato a una lenta estinzione. Ci vorrebbe una lotta, ma chi può farla? E una lotta per cosa? Per lo sviluppo che ha deturpa-to i paesi della costa? Una lotta per portare qui le industrie? Sono domande che in fondo non si pone quasi nessuno. Ognu-no è chino a fare la manutenzione del disastro della propria vita e quello che accade ai luoghi non fa problema. In verità pure io sono abitato da fiammate momentanee. A un certo punto la corda civile si spezza e torno a pensare alla mia morte e penso alla morte dei paesi come se fosse una compagnia, quasi che mi allietasse l’idea di un naufragio comune. A volte penso con affetto a tutte le cose che stanno in questo gigantesco imbuto che chiamiamo realtà, tutte cose destinate a scendere nel buco del nulla. Spesso mi tocco il petto all’altezza del cuore, come per dirgli: non ti fermare, batti ancora, spingimi a guardare. Sono preso da un ardore di raccontare, di testimoniare questo strano momento che vivono i paesi. Creature che una volta rac-coglievano gente che lavorava, gente che apparteneva al luogo come un albero appartiene alla terra. Adesso il paese sembra stare da una parte e i suoi abitanti dall’altra. A Rivello non fanno più gli orologi, non fanno pentole di rame e non fanno neppure epici viaggi oltreoceano. Chi è rimasto deve solo decidere se recriminare su se stesso o sugli altri.
A tarda sera in un agriturismo sulla montagna incontro un ri-vellese che è stato in parlamento. Ha un bel piglio nonostante non sia più giovanissimo. Mi parla dello svuotamento della Lu-cania e della sua idea di porvi rimedio con gli extracomunitari. L’idea meriterebbe serie riflessioni a cui adesso sono maldispo-sto. Sono distratto dal mio mal di testa. A un certo punto delle giornate, da un po’ di tempo, è come se il collo non ce la faces-se più a sostenere la testa. Mi aiuto con le mani, è come se vo-lessi mantenere una cosa che sta in bilico, che sembra deside-rare solo di stare appoggiata da qualche parte.
In questa mia giornata nella Lucania tirrenica ho incontrato altre persone interessanti, persone che vivono nella capitale e d’estate passano qui il loro tempo. Sono venuto per una di que-ste persone. Mi ha invitato alla presentazione di un suo libro che parla di un viaggio in Brasile. Io ho fatto più modestamente un viaggio nei dintorni, un viaggio a Rivello. Non so più stare nel mio paese, ma non ci penso minimamente ad andare in Brasile o in Africa o in Cina. Il mondo non è alla mia portata e la realtà non è il mio posto.