Nella collana di Laterza “Contromano”, che molto spesso non mantiene l’ambizione di un utile confronto tra i nostri scrittori più bravi o più giovani con le molte realtà dell’Italia, uno dei titoli più belli rimane Vento forte tra Lacedonia e Candela di Franco Arminio, sottotitolo: Esercizi di paesologia. Di recente Arminio è tornato sull’argomento – che è poi la sua prima fonte d’ispirazione, la provincia più sfortunata e solitaria – con un nuovo libro della stessa collana, Nevica e ne ho le prove, un lavoro meno omogeneo e convinto che torna su argomenti esplorati meglio nell’altro. Ma Vento forte… rimane un libro importante, rivelatore e doloroso. Come si vive, in un provincia meridionale di montagna, in paesi che neanche d’estate riescono a movimentarsi, dove la vecchia economia è scomparsa, e la sopravvivenza è, sotto ogni riguardo, segnata dalla senilità del mondo e, si direbbe, anche di una natura non più da sfruttare e di conseguenza da curare? Arminio si muove tra i “paesi della resa, quelli sulla soglia dell’estinzione”, “luoghi arresi, senza additivi”, dove la vita quotidiana passa in una “inerzia acida”, dove una volta “ogni persona stava nel suo paese come un pesce dentro al lago” e ora “le persone pare che stiano in un secchio rotto”.
Particolarmente “acida” vi appare la vita dei giovani che non sono fuggiti verso valli e città, e un quadro amarissimo ne ho visto nel cortometraggio di un giovane lucano, Davide Pepe, dal titolo angosciante: A chi è morto, a chi sta per morire. Dall’interno di una macchina che passa di sera di paese in paese della provincia potentina, colui che guida parla al compagno seduto al suo fianco e che lo filma, e ci dice l’ambiente: borghi semibui che a una certa ora della sera si spengono come il sole, e le strade e le piazze si fanno deserto. Il guidatore parla di giovani come lui che negli ultimi tempi si sono ammazzati, che hanno scelto la morte, e il breve film è come una cupa, banale via crucis senza resurrezione.
Non tutta la provincia è così, certamente. Ma è in questi luoghi arresi, dice Arminio, che in definitiva “si trova il mondo com’è adesso, sfinito e senza senso, con l’unica differenza che questa condizione si mostra senza essere mascherata da altro”. Come invece avviene, aggiungo io, in altre zone d’Italia, d’Europa, del mondo, dove la maschera è d’obbligo, ed è il fatto di saperla portare che rende la vita vivibile, una mascherata piena di cose e cioè di consumi.
Anche chi gira molto l’Italia, conosce meglio queste zone che quelle, immobili, raccontate da Arminio, e per ovvie ragioni. Vede semmai quelle a cavallo tra solitudine e chiasso, come il paese raccontato quattro o cinque anni fa da Fausto Paravidino nel bel film Texas, girato in un paese dell’astigiano. Ma vede tuttavia le differenze, da un lato, tra i paesi di Arminio e di Pepe, quelli dell’interno della Sicilia, quelli dell’alta Calabria, quelli della Barbagia, quelli montani piemontesi e bergamaschi, quelli della Carnia… e dall’altro quelli della ricca Padania, del Veneto fitto di strade e di case, della Toscana e delle Marche, della Puglia sempre così vicina al mare, del Salento dove una ragnatela di paesi a poca distanza l’uno dall’altro finisce per impedire la solitudine.
Chi vive, mettiamo, a Mantova, può andare in macchina velocemente a prendere il caffé a Piacenza, a teatro a Ferrara, a passeggiare sul lungomare a Rimini, alla partita a Bologna, a una riunione a Vicenza, a vedere amici a Ravenna, a una conferenza a Verona, a una mostra a Venezia. Le distanze sono state abbattute da strade e auto e denaro, rendono possibile fuggire la noia. O fuggir l’ansia di doversi trovare a tu per tu con se stessi.
L’Italia resta un paese pieno di grandi contraddizioni e diversità, ed è tuttora, nonostante tanta omologazione, mala politica, mala amministrazione, mala educazione e il populismo che ha prosperato sul “genocidio” del popolo, proprio per questo un paese che può non annoiare e dove in qualche modo è sopportabile vivere, perché vi si può ancora sperimentare il sentimento della curiosità e non solo quelli della ripulsa, dell’indignazione, del disgusto. Purché non si viva nella provincia esplorata da Arminio. Anche se di “centri” veri non ce ne sono più, è ben comprensibile come la città o la provincia-città, la provincia-mosaico di città, attraggano ancora i giovani e gli irrequieti come al tempo di Dickens e Balzac. Se non altro, per una questione di numeri: dove si è in tanti, è più facile incontrare quelli che ci somigliano, che hanno i nostri gusti e parlano la nostra lingua (o dialetto).
Particolarmente “acida” vi appare la vita dei giovani che non sono fuggiti verso valli e città, e un quadro amarissimo ne ho visto nel cortometraggio di un giovane lucano, Davide Pepe, dal titolo angosciante: A chi è morto, a chi sta per morire. Dall’interno di una macchina che passa di sera di paese in paese della provincia potentina, colui che guida parla al compagno seduto al suo fianco e che lo filma, e ci dice l’ambiente: borghi semibui che a una certa ora della sera si spengono come il sole, e le strade e le piazze si fanno deserto. Il guidatore parla di giovani come lui che negli ultimi tempi si sono ammazzati, che hanno scelto la morte, e il breve film è come una cupa, banale via crucis senza resurrezione.
Non tutta la provincia è così, certamente. Ma è in questi luoghi arresi, dice Arminio, che in definitiva “si trova il mondo com’è adesso, sfinito e senza senso, con l’unica differenza che questa condizione si mostra senza essere mascherata da altro”. Come invece avviene, aggiungo io, in altre zone d’Italia, d’Europa, del mondo, dove la maschera è d’obbligo, ed è il fatto di saperla portare che rende la vita vivibile, una mascherata piena di cose e cioè di consumi.
Anche chi gira molto l’Italia, conosce meglio queste zone che quelle, immobili, raccontate da Arminio, e per ovvie ragioni. Vede semmai quelle a cavallo tra solitudine e chiasso, come il paese raccontato quattro o cinque anni fa da Fausto Paravidino nel bel film Texas, girato in un paese dell’astigiano. Ma vede tuttavia le differenze, da un lato, tra i paesi di Arminio e di Pepe, quelli dell’interno della Sicilia, quelli dell’alta Calabria, quelli della Barbagia, quelli montani piemontesi e bergamaschi, quelli della Carnia… e dall’altro quelli della ricca Padania, del Veneto fitto di strade e di case, della Toscana e delle Marche, della Puglia sempre così vicina al mare, del Salento dove una ragnatela di paesi a poca distanza l’uno dall’altro finisce per impedire la solitudine.
Chi vive, mettiamo, a Mantova, può andare in macchina velocemente a prendere il caffé a Piacenza, a teatro a Ferrara, a passeggiare sul lungomare a Rimini, alla partita a Bologna, a una riunione a Vicenza, a vedere amici a Ravenna, a una conferenza a Verona, a una mostra a Venezia. Le distanze sono state abbattute da strade e auto e denaro, rendono possibile fuggire la noia. O fuggir l’ansia di doversi trovare a tu per tu con se stessi.
L’Italia resta un paese pieno di grandi contraddizioni e diversità, ed è tuttora, nonostante tanta omologazione, mala politica, mala amministrazione, mala educazione e il populismo che ha prosperato sul “genocidio” del popolo, proprio per questo un paese che può non annoiare e dove in qualche modo è sopportabile vivere, perché vi si può ancora sperimentare il sentimento della curiosità e non solo quelli della ripulsa, dell’indignazione, del disgusto. Purché non si viva nella provincia esplorata da Arminio. Anche se di “centri” veri non ce ne sono più, è ben comprensibile come la città o la provincia-città, la provincia-mosaico di città, attraggano ancora i giovani e gli irrequieti come al tempo di Dickens e Balzac. Se non altro, per una questione di numeri: dove si è in tanti, è più facile incontrare quelli che ci somigliano, che hanno i nostri gusti e parlano la nostra lingua (o dialetto).