La casa dell’umanità è senza tetto. Non si può andare avanti senza una religione. Quelle che ci sono non hanno più fiato. Occorre aprire le nostre vertebre, mettere il filo della nostra vita dentro il mondo, non serve a niente tenerlo al chiuso, al riparo. Separarci dal mondo è un cupo suicidio. Dobbiamo festeggiare ogni attimo in cui non ci raggiunge la sventura. Basta un cenno silenzioso dentro di noi, basta uno sguardo, un pensiero a chi la sventura la sta vivendo. Siano creature in pericolo. E non possiamo salvarci. Siamo dentro un macello. Il gioco è crudele, è inutile aggiungere altra crudeltà. Ci vuole una religione. Abbiamo messo la giornata sulla giostra delle merci. Non ci basta avere un oggetto che ci riscalda o che ci rinfresca, non ci basta il mangiare, non ci basta neppure amare ed essere amati. Ci vuole la preghiera, la commozione, la compassione. Bisogna alzarsi e prendere il vento della giornata, sentirlo interamente. Bisogna vedere bene chi c’è intorno a noi, dare uno sguardo al panno dopo che ci siamo asciugati la faccia.
Io lo guardavo spesso Zeno. L’ho guardato un’ora prima che morisse. Poi mi sono messo a scrivere, ho sentito un senso di pericolo, ho pensato che potessi morire. Quando sei portato a sentire il pericolo, la cosa più semplice è sentire che puoi morire, lo sai che è possibile per tutti da un momento all’altro. Poi arriva una telefonata. E trovi il gatto in mezzo alla strada. Ne hai visti tanti, ma non li avevi visti da vivi, non li avevi guardati seduti su un tavolo, distesi su un letto. Io guardavo Zeno e Antonietta, mi sembravano legati. Quasi potessero intendersi, come per un cedimento dell’umano o della natura animale. Come se lui potesse parlare a lei o lei potesse parlare a lui. Mi sentivo escluso da questa intesa. Con Zeno e con gli altri gatti che ci sono morti mi capitava di sentire un mistero stampato sul loro volto. Il religioso, il sacro, a volte è molto vicino a noi. Erano le posture di Zeno. C’era uno stacco netto tra noi e il suo stare sul tavolo o sul caminetto come una sfinge. Io sentivo qualcosa che andava oltre, ma certe sensazioni le buttiamo nel flusso caotico della giornata. Non ci diamo il tempo di indugiare in esse. Ci mettiamo a riempire la giornata con la robaccia dei litigi, con le guerre dell’orgoglio, con le miserie della nostra intelligenza.
Ora io sto provando a scrivere per sgombrare il dolore dalla testa. Antonietta è muta e con gli occhi pieni di lacrime. Quando è arrivato Livio e l’ha vista con le lacrime agli occhi non gli ha detto subito di Zeno, ci ha messo qualche secondo. E Livio non ha inveito come Manfredi contro il cane che ha ucciso Zeno, è andato a cercare il fratello che sta cercando un posto per seppellire il nostro piccolo grande Dio. Ha vissuto bene in questa casa, ora nessun cane potrà inseguirlo, nessuna automobile potrà schiacciarlo. Lui non sente niente, non ha il nostro dolore, il nostro affannarci per metterlo da qualche parte: spesso il dolore lo passiamo agli altri, ogni giorno commettiamo qualche piccola infamia di cui non ci rendiamo conto, come per farci giustizia.
Un cane che uccide un gatto ci dice che non siamo solo noi i colpevoli. Lo so che non possiamo vivere dannandoci, la morte accade ovunque in ogni momento, non possiamo pararla. Il nostro gioco deve essere un altro. Deve essere la preghiera. Noi dobbiamo pregare ogni giorno. Non pensate al gesto che si fa seduti in una chiesa. Si può pregare facendo l’amore, camminando per strada, guardando il soffitto distesi nel letto. La preghiera è sapersi fragili, sapere che è ancora più fragile chi ostenta la sua forza, come è colpevole chi ostenta la sua innocenza.
Antonietta ha telefonato a Manfredi, i ragazzi stanno tornando a casa. Si è accesa la luce in cucina. Antonietta ha messo a riscaldare il pesce. Avevo detto che stasera volevo fare una piccola festa per il compleanno di qualche giorno fa passato a Roma. Ho detto tante volte alla mia sposa e ai miei figli che a fine giornata bisognerebbe esultare se possiamo concederci il riposo di un’altra notte. La religione è in questo scambio di sorrisi e di lacrime. Ridere quando c’è da ridere, piangere quando c’è da piangere. La terra non gira per noi e per nessun altro. Quando banchettiamo con l’agnello nei piatti dovremmo ricordarci che qualcuno l’ha ucciso per noi, povere bestie vanitose. Siamo miseramente colpevoli. Non ci possiamo assolvere in un attimo e una volta per tutte. Dobbiamo farci compagnia in questo inverno e quando ci capita di prendere o dare luce, dobbiamo festeggiare il momento. Io adesso piango la morte di Zeno e soffro per il dolore che sento nei miei cari. In qualche modo loro sentono la stessa cosa. Penso alla morte di un gatto nella casa di una persona che vive da sola. E allora a tavola cerco di spartire le mie parole, sento la bellezza della famiglia, della mia famiglia, del nostro essere ancora inceppati nei sogni. Non è la realtà l’unica cosa che ci serve. Ci serve qualcosa che trasforma la vita, oltre la natura e le società che conosciamo. Ci serve un Dio che non sia un riparo, ma un luogo da costruire.