Geografia e poesia. Ecco i miei due amori. Guardare fuori e guardare dentro con la stessa intensità. Guardare sapendo che c’è un invisibile dentro di noi e un invisibile fuori di noi.
Ora mi guardo dentro e vedo che mi amareggio in continuazione, sto imprigionato in un mio meccanismo, come tutti. A ciascuno il suo. Il meccanismo è quella cosa che ci rende possibili, senza meccanismi saremmo carne al vento e poi luce, luna, niente.
Ora io posso incontrare una pietra, posso dire, posso sentire, perché sono già andato via, fino a quando c’era mia madre ero ancora al mondo, avevo il grembiule dell’ansia, ora lo metto per finta, l’ansia è solo una divisa, mi sono affrancato anche dalla morte, aspetto che l’universo si tradisca, deve fare una mossa prima o poi che faccia capire il meccanismo, del chi siamo e del cosa vogliamo. So che non posso prendermi, non posso prendere niente, ogni angolo della carne è sbarrato, sono un topolino dentro la mia testa, posso prendermela col mondo, col sambuco morto in cui sta rinchiusa tutta l’umanità, non serve neppure questo. Ieri vedevo una coppia di quasi ottantenni, ho sentito che passeggiavano contro la morte, per un attimo ho avuto pena per loro. Il resto della giornata conta meno, siamo sempre nel resto della giornata, Arriviamo quando il terribile è già accaduto. Ora non ho scampo, vago nelle mie mani, passo nella mia vita, trovo la solita irritazione. Questa è purezza, questo mio non appoggiarmi, questo mio non confidare lungamente, questo mio non fidarmi di nessun attimo. Forse devo chiarire al mondo che io sono in guerra col tempo, tutti stiamo in guerra col tempo, in qualche modo. Stiamo in guerra col tempo degli altri, perché nessuno viene esattamente nel punto dove deve venire, nessuno sa essere l’unica cosa che ci serve veramente, la cosa che non riusciremo mai a dire.
Lo squarcio in cui lavoro. Basta poco, perdi un aggettivo e la frase che avevi in mente non è più la stessa. La puoi scrivere ugualmente ma non serve a niente.
Il mio squarcio è in questo pensare continuamente alla morte. Mi sto stancando troppo, me lo ripeto continuamente. Lo ripete in me una voce che forse è la voce di mia madre, è lei che mi diceva tante volte “non ti stancare”. Non le piaceva che passassi tanto tempo a scrivere. Io è da quando ho sedici anni che ho passato tanto tempo a scrivere.
Ho la colpa di spacciare direttamente le mie visioni, senza passare dal consorzio. Io non sono uno del consorzio. Sono interamente nella mia follia e non scappo, fiammeggio in essa, la vita che attraverso non mi sporca, la dimentico presto, sto dentro il mio squarcio.
La paesologia è anche un vago bruciore in testa. Senza questo bruciore il mio lavoro diventa banale. Diciamo che diventa un lavoro da sociologo e a me questo mestiere è sempre apparso abbastanza inutile. Come il pedagogo. Non ho mai capito più di tanto la pedagogia.
Prima di scrivere ero incerto se uscire a fare delle fotografie. Ho deciso per scrivere, per me in fondo anche scrivere è fotografare, è pescare delle immagini, formare delle frasi che siano fotografie.
Se guardo fuori vedo il ramo più alto dell’albero di noce. Sta fiorendo. In lontananza vedo una pala eolica, una delle tante che hanno piantato sulle mie alture. Sul vetro c’è anche una mosca, una mosca d’aprile mi pare sia una rarità da queste parti.
Ieri ho scritto tutto il giorno su Facebook. Spero di poter riusare in qualche modo quelle frasi. È come mettere il seme in un altro solco, lo stesso seme, come se non mi fidassi che nella rete possa dare frutto. Ed è anche una mia ossessione di ricavare qualcosa dalle mie parole. Non riesco a farmi una ragione che dalle parole non si ricava niente. Non si ricava niente da niente, magari lo dico pure, ma non ne sono veramente convinto.
I rumori all’inizio del giorno. La mia sposa ha aperto il lavandino, l’acqua scorre e mi pare che abbia un rumore più solenne rispetto agli avanzi della giornata. Il lavandino aperto alle sei del pomeriggio non fa la stessa impressione.
Ancora il mio sentire la testa, sentire che la mia testa è un ambiente infiammato, irritato. Non so cosa sento. Sono i nervi, sono i pensieri? È una tensione dei muscoli esterni al cranio? Di certo non c’è paesologia senza queste sensazioni alla testa. I paesi vengono dopo. I paesi li trovo per strada, li devo andare a cercare, la mia testa si impone, è in cima al corpo. Quasi la vorrei mettere sotto i piedi, o magari farle fare un bagno caldo, dare un tepore ai miei pensieri, un calore che sa di guancia. E invece mi ritrovo pensieri come spine infuocate.
Anche lo stomaco è importante nella paesologia, lo stomaco è fondamentale. La mia letteratura senza il reflusso esofageo sarebbe ben poca cosa. I miei attacchi di panico vengono dal nervo vago, vengonoda una molecola di cibo che prova a risalire verso l’alto. Intanto fuori è uscito il sole, il paese nuovo è stato inondato dalla luce del sole.
Dovrei finirla con la cioccolata. Ieri ne ho mangiata una che si è incollata nello stomaco. Ho aspettato ad andare a letto per digerirla, ho scritto fino alle due, ma inutilmente. E dopo poco sonno mi sono svegliato con la paura di morire, esattamente con lo stesso sentimento con cui ero andato a dormire. La paesologia non si sposta da qui, da questa paura, quando va nei paesi è per cercare conferme a questa paura. Vivo in una terra che te le conserva bene le paure, le alleva e le fa crescere. Me ne posso scappare? Posso scappare dalle mie paure? Ogni volta penso che la situazione si è fatta più grave, penso che non è più possibile andare avanti. Ogni volta che penso questo, sto facendo paesologia.
L’andare nei luoghi, la mia grande passione per la geografia rimane ben viva, ma è un piccolo lenzuolo che stendo per terra, tra una paura e l’altra, la paura che mi tiene sospeso. Apparecchio la mia vita tra i paesi, vado a parlare in giro, ma poi torno sempre a casa, torno sempre allo stesso punto. Ora sono qui, esattamente dove ero ieri mattina. Ho paura di morire ma in qualche modo mi spingo verso la morte. Mi tutelo e mi dissanguo, cura e sfregio di me stesso, questo è il pendolo. Gli altri sono lontani. Il punto massimo di vicinanza agli altri è quando mi disprezzano o quando immagino che mi disprezzino. Anche questo è uno di quei sentimenti che la mia terra sa allevare e crescere molto bene. Ora in Irpinia è in atto un processo di rimozione. Non gli stava bene pensarmi come lo scrittore della loro terra. E infatti ieri sera in rete ho letto un giornalista che scriveva questo: “Capossela ormai è un grande scrittore, Arminio non è uno scrittore, è un fenomenale descrittore.” Mi sono lanciato nella rete alla ricerca di altri segni di disprezzo, questo giornalista ha detto come ha potuto il suo disprezzo, ma io cercavo altri più ispirati, cercavo i luminari del disprezzo. Una delle definizioni che quando vado in giro uso sempre è quella di scoraggiatore militante. Ogni volta che dico queste due parole sento un balzo di attenzione. Tutte le persone sanno bene di cosa parlo. La paesologia conosce bene lo scoraggiatore militante, ma sarebbe il caso di definirlo meglio. Io in genere dico che è uno che ha fallito la sua vita e si adopera con successo a far fallire la vita degli altri. Poi ricorro a un’immagine: il tipo truce che sta davanti al bar con la birra in mano, quello che si diverte a infilzare chi passa con gli aghi della maldicenza. Lo scoraggiatore militante è uno che conosce benissimo il galateo del rancore. È l’eroe della vita piccola. È un piromane della maldicenza, appicca appena può focolai di malanimo e trova ovunque terreno fertile. In Irpinia se parli male di qualcuno, subito trovi un ruolo, diventi un missionario dello sconforto. Immagino che accada in altre terre, ma qui siamo all’alta specializzazione. Sono stato vittima per anni di questi personaggi. Si danno il cambio per fiaccarti meglio. Ora al mio paese si sono un poco placati, anche scoraggiare stanca. Ora il focolaio principale dei miei denigratori si trova ad Avellino. Nei miei giri, è sempre più raro che mi invitino nella mia provincia, provo a parlare di incoraggiatori militanti. Dico sempre che bisogna imparare ad ammirare. Faccio il gioco divertente di chiedere chi ha fatto fino a quel punto della giornata un esercizio di ammirazione. Quasi sempre si contano sulla dita di una mano. Poi passo a dire che bisogna camminare, dico sempre che camminare è un potente antidepressivo. Ulteriore raccomandazione è sul guardare, guardare il mondo esterno. Questo è il teorema principiale della paesologia, l’osservazione del mondo esterno come un pronto soccorso alla buona per riattivare il nostro umore, la nostra salute. Recentemente alla lista dei verbi paesologici, guardare, ammirare, camminare, ho aggiunto anche ringraziare. Nella mia terra si ringrazia pochissimo. Il paese di Andretta, per il quale ho speso oltre dieci anni della mia vita, mi ha ringraziato con una trentina di voti alle elezioni europee. Per anni mi sono battuto contro una grande discarica che volevano fare in quel paese. Alla fine la discarica non si è fatta, ma il paese non aveva voglia di gratitudine. Gli irpini hanno voglia di rancore, di rimorso, di sensi di colpa. Sono golosi di recriminazione. Pure io, lo ammetto, sono molto goloso di recriminazione e dunque recrimino molto nei confronti di chi non mi ama abbastanza. Mentre dico queste cose vedo che l’alba sta apparecchiando un cielo bellissimo. Ogni volta che arriva il giorno ritroviamo i colori delle case, ritroviamo la meraviglia del mondo esterno, ritroviamo la geografia.
La paesologia dovrebbe chiamarsi più correttamente geosofia, un incrocio di passione poetica e di passione geografica. Due movimenti, un movimento orizzontale e uno verticale. La paesologia è un cruciverba, il cruciverba della desolazione. È qui il suo cuore. Quelli che mi chiamano a parlare spesso sono animati dalla voglia di sapere che si può fare per rianimare il loro paese, hanno voglia di ricette, non credono più alle ricette della politica. La politica non ci può più promettere il posto fisso, Arminio cosa ci promette? Qui faccio il paesologo intellettuale e tiro fuori ragionamenti di questo tipo. La rete ha ucciso la modernità e in qualche modo anche l’impianto logocentrico. Il tempo e lo spazio nella rete perdono peso, la rete ha un funzionamento più vicino alla mentalità contadina che a quella del principio causa effetto. E poi c’è la crisi, anche la crisi riabilita il mondo contadino, che da sempre ha vissuto con la penuria di risorse e ha elaborato strategie sofisticate di frugalità. Spesso mi capita di dire che il tempo che sta per venire è il tempo dell’arcaico. E dov’è che c’è qualche giacimento di arcaico? Nei paesi e al Sud. Ecco la conclusione incoraggiante: i paesi del Sud non sono destinati a morire, ma possono essere luoghi di un nuovo rinascimento. Io lo chiamo umanesimo delle montagne o umanesimo paesologica. E qui la mia disciplina appare in tutta chiarezza nelle vesti di scienza monella. Dal paese come regno dello scoraggiatore militante al paese come avanguardia della nuova civiltà. Allora sono un imbroglione? Sono che non studia, che dice cose superficiali e semplicistiche. È questo che pensano di me? È per questo che mi disprezzano? E chi mi ama, mi ama veramente? Quando sarò morto chi di quelli che viene alla casa della paesologia a Trevico o al festival della paesologia ad Aliano, avrà il coraggio di dirsi paesologo? La mia risposta a questa domanda oscilla, ma prevale di gran lunga la sensazione che saranno pochissimi.
Il legame tra poesia e fallimento è indiscutibile. Un poeta che si leva di dosso anche un millimetro del suo peso non è un poeta. Posso anche dire che sono un oste della poesia, non sono un poeta (così gli scoraggiatori militanti sono contenti) e la mia paura della morte è più frivola che drammatica, almeno per ora. I miei attacchi di panico sono veri, ma l’attacco di panico è la finzione per eccellenza, si è convinti che si sta per morire e invece non si muore. E non morendo posso andare in giro. Ormai mi muovo come una trottola e questo ha tolto tempo alla mia grafomania, come la rete ha tolto tempo alle mie letture. Più che leggere, quando sto a casa scrivo post su Facebook. Sono uno dei tanti tossicodipendenti digitali. E la mia vita è un perfetto ossimoro: computer e pero selvatico, tanto tempo nella rete e tanto tempo nei paesi più sperduti e affranti. La paesologia fa la spola, è una forma di pendolarismo tra avvilimento ed esaltazione. Mi avvilisce lo scoraggiatore, ma poi penso subito che la mia terra è bellissima. La mia è una geografia commossa e questa commozione diventa antidoto allo sfinimento della scena sociale. Per questo sfinimento ho trovato un’altra formula che cito sempre, si chiama autismo corale. Ecco, sto facendo il riassunto dei miei lampi. Sono uno scrittore di lampi, sono il centravanti dell’aforisma. Il romanzo mi è impedito dalla mia sfiducia nel corpo e nel suo avvenire. La paesologia è aforistica perché io dispero del mio corpo e dispero anche del mondo. Dico spesso che il mondo dovrebbe farsi il funerale e ripartire dalle sue ceneri. Per essere paesologi bisogna essere morti, bisogna farsi il funerale ogni giorno e in qualche modo rinascere dalle proprie ceneri. Bisogna capire che il paradosso di quest’epoca è che stia morendo e stiamo guarendo, sono vere tutte e due le cose. Un paese che si svuota in un certo senso muore e rinasce. Diventa più triste e più lirico, più desolato e più bello. La paesologia non può scegliere. É destinata a oscillare. La sua natura è intimamente bipolare.
Molti pensano che per riattivare la politica, per ripartire veramente ci vuole una rottura grande, non questa crisi che alla fine serve solo a rendere ancora più impotente la vita dei poveri. Qui si fa spazio un altro spicchio del mio lavoro, la paesologia militante. E mentre lo dico mi viene voglia di non scriverne, sento che il testo sta prendendo un tono da libretto di istruzioni. Mi sono allontanato dal tremore con cui avevo cominciato a scrivere. Le dieci gocce di xanax hanno fatto il loro effetto. Mi tornano alle mente due miei aforismi. Il primo dice che quando scrivi ti devi impaurire. Il secondo dice che se non sento la morte imminente non mi impegno.