terracarne secondo farinelli

metto qui una recensione a terracarne di franco farinelli, uscita sul supplemento libri di alfabeta. sempre in questi giorni è uscito su l’indice la recensione a terracarne di angelo ferracuti (presto posterò anche questa). ricordo che farinelli sarà a bisaccia il 31 marzo.

Proprio come la Campania che descrive (ma racconta anche la Basilicata e la Calabria, le Marche, l’Abruzzo e il Molise e perfino il Trentino Alto Adige) il testo di Franco Arminio non dice né sì né no, e in ciò sta la sua forza: nel rifiuto di ogni dicotomia, di ogni contrasto tra bianco e nero, buono e cattivo, versante a bacìo e versante a solatio, dunque di ogni reciso giudizio. L’imbrunire è la sua ora preferita, l’”ora bruciata” come a Venezia si diceva secoli fa, e gli unici decisi accenti di disprezzo sono rivolti a coloro che saccheggiano i paesi sfruttando le risorse della modernità e i vizi della postmodernità: chi opera all’interno degli schemi dell’economia illegale e, sulle orme di Salvemini, la piccola borghesia intellettuale, composta di uomini “ingordi e sensibili ai piccoli intrallazzi”,  gli “affaristi, i meschini, i tirchi”dotati di “un lato di sinistra e uno di destra”, ma che “ovviamente stanno al centro”.  Per il resto il suo viaggio in Italia ( che non ha quasi nulla di gastronomico, nel senso letterale prima che  brechtiano del termine: il pranzo dell’autore è sempre un indefinito panino)  si svolge secondo le modalità più proprie dell’epoca globale: abolendo lo spazio, vale a dire ogni distanza o intervallo, e perciò ogni ontologica differenza, tra il soggetto e l’oggetto. Al riguardo già il titolo non lascia dubbi, vuol dire che nel testo “il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo”, che vi si sta “a metà tra se stessi e le cose”. Non è la semplice riproposizione, giusto a due secoli di distanza, della strategia paesaggistica messa a punto da Alexander von Humboldt in funzione dell’emancipazione della borghesia tedesca dal controllo ideologico di marca aristocratico-feudale. Allora, il paesaggio valeva in senso sostanzialmente epistemologico, come gnoseologica mossa d’avvio che dall’impressione sentimentale (appunto quella paesaggistica) avrebbe condotto alla finale conoscenza della complessità. E’ vero che in tale mossa l’osservatore dichiarava la propria inclusione all’interno della totalità circostante, si riconosceva parte del tutto. Ma nel passaggio successivo, quello dell’analisi scientifica dei singoli elementi, la separazione tra colui che guarda e la realtà veniva subito ristabilita, quello tornava a scostarsi decisamente da questa, pena il blocco del processo stesso. Al contrario, nel paese di Terracarne dall’inizio alla fine tra il soggetto e l’oggetto, tra Franco Arminio e il paesaggio appenninico non vi è nessuna costitutiva diversità e nessuna discrasia, al punto che l’autore accusa lo stesso malessere delle colline e degli abitati disposti ai loro piedi o inerpicati su di esse: al degrado, all’abbandono o peggio ancora all’artificiale recentissima e insensata loro “urbanistica” dilatazione corrisponde, per tutta l’esplorazione,  il mal di stomaco, il mal di testa, il panico di chi ne rende conto.

Assegnare al protagonista umano la natura e dunque i comportamenti di ciò che di disumano lo circonda non è, in letteratura, cosa nuova. Si pensi soltanto, per restare in tema di libri di viaggio, a Phileas Fogg, il protagonista de Il giro del mondo in ottanta giorni di Verne, cui l’autore assegna lo stesso temperamento, lo stesso imperturbabile perché meccanico agire di una locomotiva, regolato soltanto dalle newtoniane leggi del moto. Ma di nuovo: allora si trattava di fare i conti con il mondo secondo il modello spaziale, che privilegia il ricorso alla velocità, la riduzione del mondo a tempo di percorrenza perché il problema consiste appunto nell’annullare il più rapidamente possibile il divario tra il punto di partenza e il punto d’arrivo, ovvero (ed è lo stesso) tra gli opposti terminali del procedimento conoscitivo, tra colui che guarda e ciò che viene guardato. Nel paese di Terracarne nessuna velocità è più di qualche utilità, appunto perché non vi esiste più lo spazio, è dubbio anzi se mai vi sia davvero esistito, sebbene nel testo quel che l’autore  chiama “la livella della modernità”, la “modernità incivile”ne tradisca la probabile presenza, come ogni effetto rivela la presenza  della propria causa. D’altronde Terracarne include quasi per intero l’antica  Magna Grecia, sicché nessuna sorpresa se il  contrario dello spazio, il mito ovvero il luogo, vi faccia prepotente la sua ricomparsa: non che vi sia mai scomparso, ma torna adesso ad imporsi come l’unica appropriata e coerente modalità cognitiva, che Franco Arminio, “viaggiatore incantato”,  per primo mette sistematicamente, insieme con il proprio corpo, al lavoro.  Sia chiaro: nessuna concessione all’arcaismo né tantomeno a quella sorta di suo più avvertito equivalente che è l’ideologia del “centro storico”. Mito e luogo significano qui qualcosa di molto concreto ma allo stesso tempo di assolutamente immateriale, come tutto ciò che appartiene alle movenze gnoseologiche, quelle che ci permettono di comprendere quel che vediamo. Tecnicamente il mito si manifesta quando non si sa se quel che abbiamo di fronte è una persona oppure una cosa, un uomo oppure una montagna: Polifemo di fronte ad Ulisse, per fare un solo esempio. E all’opposto dello spazio, che implica il distacco tra soggetto ed oggetto, il luogo significa l’assenza di ogni loro distinzione, l’impossibilità di staccare l’uno dall’altro, per l’assenza di ogni iato. Nessun arcaismo. Se è così che Terracarne appare al suo scopritore non è perché egli ha gli occhi voltati all’indietro, al contrario guarda molto avanti, che è l’unica maniera di scorgere quel che davvero c’è. Se l’è chiesto Manuel Castells una diecina d’anni fa, nella sua ambiziosa trilogia sulla fine del millennio: a che cosa ci riferiamo quando pensiamo alla “Rete”,  di quali elementi la pensiamo composta? La risposta elenca una serie di macchine, una serie di programmi e una serie di persone che sono addette al loro funzionamento, e ogni serie è inseparabile cioè indistinguibile dalle altre: la Rete è il loro complesso. Castells non si accorge di essere con ciò arrivato ad un passo dalla mitologia, anzi di aver indicato senza volere nel mito il logos in grado di far luce all’interno del continente  elettronico-cibernetico-telematico, la cui perlustrazione deve ancora iniziare. Franco Arminio cammina su questa terra, sulla sua terra, senza nessuno dei vezzi dei numerosi neoadepti odeporici che riscoprono i luoghi e la lentezza del cammino. Il suo libro, frutto di minuti itinerari, di un insieme di giri, descrive il Sud Italia con uno sguardo che in realtà già obbedisce alla logica dell’invisibile mondo che da qualche decennio governa il mondo che riusciamo a vedere. Per questo è un testo più affilato e rivelatore di tanti testi sociologici sul Meridione, più perspicuo e preciso di tante analisi geografiche sul Mezzogiorno. Ciò accade appunto perché lo sguardo mitologico e lo sguardo del futuro sono identici. E soltanto uno scienziato sociale che sia anche poeta poteva sopportare la fatica necessaria per farli coincidere.

 

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, Mondadori, Milano 2011, 358 pp., € 18.

 

FRANCO FARINELLI

3 pensieri riguardo “terracarne secondo farinelli

  1. buoni questi stare nell’imbrunire, a metà tra se stessi e le cose. forse comincio a capirci qualcosa

  2. Lioni, 6 marzo 2012, ore15:20
    Bene per la recensione, sarebbe interessante sapere di cosa vorrà discutere l’illustre geografo Farinelli, insomma prima sappiamo e prima riflettiamo e ci organizziamo :- ) saluti affettuosi a tutti, Gaetano

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