eliana il 15 agosto

di eliana petrizzi

15 Agosto: resto a Montoro per vedere quante cose accadono quando i fatti smettono.
Il pieno giorno ha la maledizione dell’insonnia: tempo ininterrotto, presente intransitivo, punto in cui l’orologio rotto segna l’ora esatta.
Pure, le cose che vedo, i posti che percorro li devo masticare piano, per fingermi lunga una gita che so di un giorno appena.
Scendo in piazza alle 7 di mattina. Il bar chiuso, un’aria fresca che scavalca l’onda dell’estate. L’asfalto bagnato da una bava d’acqua e cloro. 3 ciclisti senza fretta. 2 famiglie si avviano verso il mare, coi portapacchi sopra le auto piene di imballi tenuti con la cinghia delle persiane. Accanto alla macelleria chiusa, il negozio “Tutto a 10 Euro”, chiuso pure quello: appeso davanti alla vetrina con le mollette per i panni, un telo in microfibra con stampa della statua della Libertà. Sulle panchine in piazza Municipio, 4 anziani seduti dall’alba, in fila come le lattine del tiro a segno, cadute e rimesse a posto, piene solo di nuovi buchi.
Signora in camminata veloce: indossa scarpe fucsia, fusò nero attillato, maglia nera con strass sul davanti, in mano un ramo di castagno. Si ferma a lungo a leggere il tabellone comunale dei necrologi. Sul lato B del tabellone, i manifesti della Sagra della salsiccia e del “Mangione”. Oltre la via, lo scorcio di una casa in cemento con una finestra vuota, la montagna sciolta nell’est, un fumo di noccioli che sale bianco, lento.
Alle 8, il tuono delle moto sull’autostrada, che corrono verso Capo d’Orso.
Salgo Via Parrelle. Nessuno in strada. Il cigolio della cerniera di un balcone aperto che sbatte al vento. Una donna mi spia da dietro la finestra, oltre una tenda fatta con la tappezzeria fiorita dei divani. Appena la guardo, chiude la tende, serra gli infissi. Nel giardino di Padre Pio, una vecchia vestita di nero si scruta a lungo intorno. Poi, certa di essere sola, sale sull’altalena e si culla in un movimento pensieroso.
Alle 9 è già troppo tardi per ogni cosa, i colori schiacciati da una luce di pietra infuocata, un paesaggio buono solo per la fuga. Lungo le vie di campagna, l’ululato del vento attraverso i fori dei pali. Sollievo nel campo d’insalata: un idrante intercetta un breve arcobaleno. Il getto arriva fino alla strada: acqua fresca sui capelli, sulla bicicletta, sulla macchina fotografica.
A Preturo, sosta presso la sorgente Labso: vasta pozza circolare protetta da una ringhiera. Dentro, l’erba cresciuta in superficie la rassomiglia ad un prato. Solo in un punto vedi il buio dell’acqua profonda dove, a caderci, si muore. Ai piedi delle 2 panchine vuote, bottiglie di plastica, cartoni di pizze, un grosso piccione morto da poco. Chiuse le case, muti i cani. Solo tortore e cicale. Un pony legato ad un albero, come impagliato. Una vipera attraversa l’asfalto, raffinata e lieve.
Ore 13: consumo un pranzo veloce da mia madre, senza fame e con una pericolosa sensazione di libertà, come correndo su una strada senza carreggiate. Sfogliando una rivista, improvviso desiderio di qualcosa tra le mani fatto solo di pagine bianche.
Torno a casa a riposare. Deriva delle intenzioni. Resto distesa sul copriletto bianco a fissare il muro, bianco pure quello. Leggo, penso, seguo la vita misteriosa degli oggetti nella stanza; solo ogni tanto muovo un dito, una gamba. Il caldo rende la bella giornata più inutile che se piovesse.
Alle 14, di nuovo in piazza. I 4 anziani del mattino ancora sulle panchine. Solo il vento è cambiato: ora la bandiera dell’Italia punta ad Ovest. Nell’aria, il rombo di un Canadair che va e viene dall’incendio sul monte Salto.
Un giovane rumeno sfreccia più volte lungo il corso deserto in una piccola auto dal motore modificato: volume a tutta, occhiali a specchio, canotta intima bianca, al collo una catena con pendente Hello Kitty, la sigaretta rigirata tra le labbra a mo’ di stuzzicadenti, la mano morta oltre il finestrino, con le unghie nere di grasso da carrozziere.
Poco più avanti, al bivio, uno del posto attacca al rubinetto della fontana pubblica una pompa da giardino, e si lava la macchina con lo shampoo Johnson. Ogni tanto passa un’auto, con un fragore di pioggia sull’asfalto bollente. Prendo la macchina e mi avvio in un pigro giro nei dintorni. Salgo per Torchiati verso Solofra. 5 cani sdraiati al centro della via. Sul ciglio, accanto alla pubblicità del Supermercato, un 6×3 annuncia il matrimonio di due giovani. Con l’effetto flou, i visi racchiusi in un cuore, la scritta “Destinazione Paradiso: insieme per sempre”, la foto sembra quella di due fidanzati morti in un incidente stradale.
Nella zona industriale, davanti ad un disco bar, una palma finta come ne crescerebbero dopo una catastrofe nucleare. Le fabbriche spente, con parcheggi grandi come aeroporti, e bidoni di plastica che somigliano alle costruzioni dell’infanzia. Osservo il ritmo delle finestre nelle facciate, quasi sempre a vetri specchiati, chiuse o vuote nei cantieri in costruzione. Nella loro disposizione, un alfabeto Morse che racconta di logaritmi arcani, di misteriose concordanze, forse, con la mia vita adesso.
Verso Serino. Tra percorsi di campagna, abitazioni private, villette ad un piano, vuote. All’ingresso di una, 2 leoni Ming in bronzo, ritti su colonne doriche ai lati del cancello elettrico. Nel giardino di quella appresso, una statua di Cristo scala 1:1, dipinta con colori acrilici a finitura lucida, sotto una cappella a baldacchino in vetro e cemento, circondata da Veneri e Cariatidi di gesso che reggono lampade a basso consumo.
All’uscita dell’autostrada, tutte le macellerie aperte, per rifornire i barbecue dei gitanti che salgono al Terminio da ogni periferia della regione. Lungo i cigli, o appesi in cime alle ringhiere, grappoli di buste dell’immondizia come escrescenze di una pianta abnorme.
S. Lucia di Serino: il cartello di benvenuto del paese è a ridosso del cimitero. In alto, al centro della strada, lo striscione della “Sagra del vitello arrostito intero” cigola al vento come la porta di una casa bombardata. Luogo deserto. Solo un uomo di mezz’età vestito di tutto punto, capelli tinti di nero tirati col gel, cammina digitando convulsamente i tasti del cellulare, fermandosi più volte come un mulo sull’orlo del burrone. Più avanti, largo spiazzo coi bus di linea comunali fermi in una sosta da scasso. Aperti solo un bar ed un negozio di articoli da spiaggia, per i pochi che, da qui, si avviano verso il mare. Il proprietario, seduto sui gradini di fronte, dice tra sé e sé: “ A prima matina, sto già stanc’ senza fa’ nient”. Al bar accanto, un vecchio, commentando la notizia di un incidente stradale, dice che le macchine sono molto più pericolose delle pistole, e che di più pericoloso delle macchine e delle pistole ci sono solo le femmine. In cerca del bagno, attraverso la sala giochi: minuscola, con le finestre semichiuse, l’aria resa irrespirabile dalle sigarette. Contro il muro, 5 macchinette tutte occupate: da un giovane calvo, da un signore obeso con maglietta St. Tropez, da un lavoratore stradale con addosso la divisa arancio fosforescente, da una signora in pantaloncini corti e sigaretta tra le dita, da un ragazzo di 20 anni tatuato, che spinge il bacino contro i pulsanti come se stesse scopando una prostituta.
Non c’è altro da vedere. La festa è lontana, o non è mai iniziata. Mi fermo a respirare in un bosco di castagni risparmiato dall’invasione dei gitanti fuoriporta, forse perché buio, con densi fraseggi d’ombre, un raggio di luce che dall’alto finisce in una piccola zolla d’erba; intorno nient’altro che silenzio, e una fresca quiete di navata.
Sono le 19. La luna riposa in cima alla collina, delicata come un’unghia. L’aria è già piena dei lieviti dell’autunno. Sotto i noccioli, ecco il bruno del liquore, la ruggine di vecchi treni fermi, l’incenso delle foglie arse che sale in trombe morbide e lucenti.
Tutto fermo, fino a notte. Tornando a casa, la fuga della strada in avanti, la scia di fabbriche e commerci, la sagoma di un passante, si sciolgono in un dettato veloce, come le immagini che un uomo vede forse prima di morire. In quegli attimi, mi chiedo sempre, cosa resta degli anni, delle parole, delle persone amate, dei luoghi percorsi? Sarà forse come andare per queste strade: prima o poi i paesi finiscono, ed ecco per chilometri solo la prodigiosa maestà di nubi e di radure, di greggi che si spostano, di semi nel vento, di chiome che crescono e muoiono; forti, da sole. In silenzio.



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Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

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