Sembrerà paradossale, forse, ma penso che Arminio, tra gli scrittori che conosco, sia il meno autobiografico di tutti, a dispetto di ciò che una lettura superficiale, o frammentaria, dei suoi testi può immediatamente suggerire. La tensione etica e conoscitiva che anima la sua scrittura, infatti, utilizza il dato personale (anche in riferimento al paesaggio e alla sua lettura tutta interiorizzata) in una funzione particolarissima, una vera e propria, incessante, “somatografia radiante”: la centralità del “corpo esposto”, con tutte le ferite ben in evidenza, caricate di un surplus di voce che vorrebbe compensare e colmare il “vuoto” di parola e di senso che le ha prodotte, agisce come una parete riflettente, che prima ingloba e assorbe tutti i dati della realtà esterna ed interna che vi si specchiano, e poi li rimanda sulla pagina come “figure” di un perpetuo peregrinare di natura ermeneutica e con finalità demistificante. La rete di rimandi – di voci, suoni, grida, vertigini, silenzi, immagini – che si inseguono, si cercano e si compenetrano attraverso i vari testi, come tessere di un mosaico che sembra rifuggire il centro unificatore a cui incessantemente aspira, è un potentissimo “connettivo” di chiara matrice allegorica (nella più piena accezione dantesca del termine).
Di una ideale trilogia comprendente le due splendide opere precedenti – “Circo dell’ipocondria” e “Vento forte tra Lacedonia e Candela” – “Nevica e ho le prove” rappresenta il vertice, umbratile e luminoso nello stesso tempo, sicuramente superiore sul piano del controllo formale della materia. Messa da parte una certa indulgenza liricizzante e la propensione antropologica (la “paesologia” come “antropologia dell’anima”), a tutto tondo, ad attraversare il “paesaggio” in funzione di un recupero possibile dei “materiali umani” superstiti (possibilità che si trascina, pur sempre, il rischio di uno “sguardo nostalgico”), in quest’ultimo libro Arminio opera una sintesi stringente, necessaria e “feroce”, di tutti gli elementi del suo immaginario e della sua poetica, dandone una rappresentazione “sacrale” che è puro disvelamento, senza concessioni, della sostanza tragica di cui è materiato il presente.
Un libro grandissimo.
Francesco Marotta