La grazia della fragilità

La paesologia è la crepa d’insofferenza che mi attraversa, come la crepa che attraversa una casa terremotata. La paesologia non avrebbe senso senza terremoto. Il mio primo libro si chiama Viaggio nel cratere e forse tutti gli altri libri avrebbero dovuto avere lo stesso titolo. Si tratta sempre e comunque di una prosecuzione di quel libro, da quel cratere io non sono mai uscito. Più che un cratere, sembra un utero. E io ci sto dentro, col corpo e col paese nel mio corpo, col paese e col corpo nel mio paese. La crepa non si chiude. La scrittura serve a fertilizzarla e io divento il contadino della mia crepa, l’impresario del mio malumore. Quando dico queste cose uso il lato intimo della crepa. L’altro lato, quello civile, l’ho usato in questi giorni per scrivere un progetto per una zona della Basilicata. Lì i sindaci mi hanno affidato il ruolo di referente tecnico. Lì devo indicare risultati attesi, azioni per realizzare questi risultati, modi di verificare questi risultati, tempi previsti per realizzarli. Dopo che sei stato qualche giorno con la lingua composta, con i freni tirati, ecco che torna la lingua che piace a me, la lingua in discesa, il corpo che si schianta sulla pagina. La paesologia allora come membra sparse dopo un grande incidente: ecco, un braccio, un piede, ecco il cuore, ecco la milza. In un testo del genere non ha molto senso andare daccapo, non hanno senso neppure i paragrafi, meno che mai tabelle e grafici. Potrei anche dire che poco fa sono andato al bagno dopo cinque giorni di stitichezza, prima di rimettermi a scrivere ho pensato che niente sarebbe stato come prima, che la lingua avrebbe preso un’altra strada e anche il discorso sulla paesologia avrebbe preso un’altra luce. Mi sono preso persino un poco di caffè. Oggi è come se mi sentissi impegnato a dare il mio contributo alla disperazione collettiva. Il paese è un patto: chi sta in paese deve essere moderatamente infelice o molto infelice. Non sono previste altre condizioni. Il paesologo non abita, attraversa il paese, ci passa dentro anche quando sta fermo: è proprio il passare la condizione naturale della paesologia. Passare e guardare, una sorta di voyeur del mondo esterno. Io non sto nel mondo, lo spio. Il mondo è oltre la finestra. Se il mondo è dentro io sto fuori. Se il mondo è fuori io sto dentro. Il senso di fragilità forse viene da questo esilio implacabile. Parlo tanto di comunità, mi adopero per creare quelle che chiamo Comunità Provvisorie, ma poi sono il primo a non saperle abitare. Non abito neppure questo testo, lo srotolo come si fa con un tappeto. A un certo punto il tappeto finisce e non ho coperto niente, rimane solo il tempo passato a srotolare. E ora viene la faccenda della morte, che è poi la faccenda tipicamente paesologica. Stamattina vestendomi pensavo che dunque prima o poi tutti moriamo. È un pensiero comunissimo, eppure era diverso dallo stesso pensiero che ho fatto tante volte. Non era un pensiero cupo e neppure tremante, anzi era un pensiero scialbo, premessa per uno sbadiglio più che per un attacco di panico. Io mi sono procurato intensità pensando alla mia morte, ma non è detto che questa formula funzioni sempre. Può essere che qualche volta la morte non arroventi l’anima e allora non ha senso neppure scrivere. Perché le parole in questo caso non mi servono a spaventare la morte o a diluirla, mi servono solo a passare il pomeriggio. Ecco una sublime definizione di paesologia: tutto quello che aiuta a passare il pomeriggio in un paese. L’ora critica in un paese è tra le quattro e le sei. Oggi mi sembra critico ogni minuto, anche ogni secondo, ma questo è un altro discorso. Per me il pomeriggio è l’ora della cioccolata, l’ora in cui ricevo la visita della mia infelicità e l’accolgo con tutti gli onori. Ci sono persone che raccontano agli altri di come sono diventati buoni e belli e luminosi. Queste persone lanciano al mondo messaggi incoraggianti. Anche io ultimamente provo a lanciare messaggi incoraggianti, provo a dire che un paese del Sud italiano può essere una meraviglia. È una cosa che posso dire solo a persone che stanno lontano dai paesi. L’altro ieri il paesaggio tra San Mauro Forte e Craco mi sembrava un paesaggio mistico. Ho fotografato gli alberi soli nelle colline arate. Avevo la sensazione che quel paesaggio fosse tutto per me. Non passava nessuno. E io ero dentro una chiesa, la percorrevo in macchina, ma si trattava di una chiesa. La paesologia ha di queste accensioni, non sono frequenti, ma ci sono. Ho passato due ore perfette, ho fatto delle belle fotografie, ho voluto bene a ognuno di quegli alberi e loro hanno voluto bene a me. Li andrò a trovare quando c’è il sole, voglio fare una mostra fotografica sulla solitudine degli alberi lucani. È raro che le persone mi diano emozioni belle come quelle che mi hanno dato tre giorni fa gli alberi lucani. Le persone puntualizzano, chiariscono, aggiungono, ti tirano da una parte, ti prendono, ti lasciano, le persone fanno e disfanno patti con la tua presenza e con la tua assenza, parlano col silenzio o con le parole. Gli alberi hanno la stessa omertà dei morti, parlo degli alberi invernali. Le chiome estive le amo di meno. Nelle chiome può nascondersi qualsiasi cosa. Mi piace vedere i rami, vedere come graffiano l’aria, respirare l’aria ferita dai rami. Non so quando le cose che sto dicendo arriveranno a incrociarsi con la grazia di essere fragili. Certamente io non conosco la condizione contraria: la disgrazia di essere forti. Ora mi piace come sto andando avanti con questo testo. A me spetta stendere le parole, confido che qualcosa della paesologia appaia tra le righe, sopra o sotto le parole, sul dorso o sulla pancia, le parole hanno il dorso rivolto verso il cielo, sono stese in orizzontale, con la pancia a terra. Ogni testo è una zattera appoggiata sulla terraferma del foglio. La grazia della paesologia è che il naufragio avviene all’asciutto. Oppure che da una pagina all’altra si passa da essere naufraghi ad essere completamente asciutti. La paesologia non parla dei paesi, ma di chi li attraversa, parla delle creature che vivono nel paese, ma non è mai uno sguardo insistito, non c’è mai un supplemento d’indagine. C’è un’occhiata, un piccolo passo in compagnia, una vicinanza provvisoria. Non so come possa e quando possa finire questo testo, non sto raccontando una storia, non sto descrivendo un luogo, sto semplicemente facendo paesologia, cioè stendo parole e devo solo decidere quando smettere. Fuori c’è il cielo di gennaio. I morti stanno al cimitero, mio figlio sta fischiando, i fili della luce sono illuminati da un poco di sole, la neve sui tetti ogni tanto scopre qualche tegola. Sto dicendo troppo, ancora non riesco ad avvicinarmi a un dire che sia puro dire, che sia un puro stare al mondo delle parole. La scrittura paesologica non ti spinge da qualche parte e quando lo fa è per difetto, è perché non ha la miglior forma. Scrivere non è investire la realtà, ma andare verso la realtà e scansarla all’ultimo momento. Il lettore deve vedere questo guizzo. Ci vuole agilità per scrivere bene, è un lavoro da ginnasti. Pensate agli esercizi al cavallo con maniglie. Si sta sull’attrezzo per scansarlo. Forse accade qualcosa di simile anche nell’amore. Non si giace sull’altro o nell’altro, si danza verso l’altro, la bellezza della danza è quando si concilia l’ampiezza del movimento nel minimo spazio possibile. Ti abbraccio, ti stringo eppure rimane spazio, ci sentiamo liberi, non soffochiamo. Intimità e distanza sono un bell’intreccio per amministrare un territorio ma anche per abitare un paese o una storia d’amore,  per scrivere una poesia o una prosa. Chi è solo intimo o solo distante è come se volasse con un’ala sola. Forse si può solo volare con un’ala sola, ma deve essere composta da due mezze ali, l’ala della distanza e l’ala dell’intimità. I concetti della paesologia non sono molti. Ne ho appena illustrato uno. Un altro è quello dell’autismo corale. Siamo nel cuore dell’ossimoro. La comunità come cumulo di rovine autistiche, le rovine autistiche come unica comunità possibile. La solitudine e la compagnia sono come le facce del nastro di Moebius dove interno ed esterno si scambiano di segno continuamente. È così oggi anche per l’algebra degli affetti. Si aggiunge e si ritrova il meno, si sottrae e si ritrova il più. Allora per salvare i paesi dell’Italia interna non bisogna pensare di aggiungere,  non bisogna pensarli come luoghi in cui manca qualcosa che noi dobbiamo mettere. Ogni paese è un testo. Un paese può essere un racconto o può essere una poesia, può essere un romanzo o un aforisma. Bisogna lavorare con le regole della lingua più che con quelle della politica. La politica non può fare nulla per i paesi se lavora solo con le leggi e non con la lingua. Un paese deve essere aiutato a stare nella sua lingua, a crescere nella sua parola o nel suo silenzio, a farsi sempre più nitido, eloquente. Bisogna intervenire sulla società, bisogna fare leggi per le persone, bisogna lasciar stare i paesi. Un corpo mitico, un corpo mistico non può essere messo nel lenzuolo dell’attualità. Bisogna lasciargli la polvere che ha, la luce che ha. La paesologia non ama i rivestimenti, semmai si tratta di scorticare e lasciare a vista i tubi, gli allacciamenti. Ecco la grazia di esporsi, di essere esposti. E dunque anche la fragilità di questa grazia.

 

 

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

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