Ogni posto ha una sua aria. E poi c’è un’aria che arriva in certi giorni speciali. Non sono tanti i giorni speciali dei luoghi. Non sono tanti i giorni speciali della nostra vita. In genere pensiamo agli avvenimenti. Abbiamo un calendario impostato sui fatti: il compleanno, l’anniversario di un lutto, la nascita di un figlio. Sono fatti che si aggiungono allo scorrere delle giornate, fanno da ornamento, incorniciano il giorno, lo rendono solenne, prezioso, o anche delicato, dolente.
Le mie giornate speciali sono segnate spesso dall’arrivo di una certa luce. Mi ricordo una sera al mio paese, una sera qualunque. Non mi ricordo che mese fosse. Ricordo che c’era la luna piena. Non sempre le sere di luna piena sono speciali. Quella volta ci deve essere stato un grado particolare di umidità. Deve esserci stato qualcosa che ha aspirato via l’aria. Non so, fatto sta che il paese nuovo, che mi aveva sempre impresso nella carne un senso di sgraziato disordine, quella sera diventava un luogo oltre il bello e il brutto, un luogo in cui ogni sguardo diventava intenso: pensai a un paesaggio metafisico. Vedevo il profilo delle case, e non vedevo la legna fuori alla rinfusa, le baracche di zinco, i copertoni. Non vedevo i segni della modernità incivile con cui abbiamo rottamato la civiltà contadina. Il fuoristrada parcheggiato sul marciapiedi è un fazzoletto con cui salutiamo chi resta nella sobrietà mentre noi andiamo al carnevale degli arricchiti.
Mi è venuta questa lunga premessa pensando al mio ultimo viaggio nel Salento. Un viaggio d’inverno. Normalmente si associa il Salento alle vacanze estive, al sole, al mare, al cibo. Il mio giorno speciale era stato partorito da una giornata nera, la giornata dell’uragano che aveva colpito anche l’Ilva di Taranto. Ero a Gallipoli a presentare un mio libro. Sono stato molte ore in albergo per non affrontare la pioggia furente. Uscendo a ora di pranzo ho visto nuvole nere che sembravano bestie con la pancia piena d’acqua.
Arriva il giorno dopo e il giorno dopo le cose cambiano. Sono partito da Gallipoli con l’idea di andare verso Leuca e poi risalire lungo la costa fino all’altezza di Lecce. Una giornata di sole. Una giornata con una luce specialissima. Me ne sono accorto appena fuori dal paese o dalla città. Gallipoli è allo stesso tempo un paese e una città. Guardando un pezzo del lungomare ero stupito dalla bruttezza di certi palazzi. Mi sembravano creature incongrue, arrivate di notte davanti al mare. Una forma di pirateria urbanistica, sputata dalla bocca delle betoniere, ha preso d’assalto il bordo di questa città.
Un paio di chilometri e finisce tutto. Appena fuori Gallipoli è subito un’altra storia. La strada è piena di sabbia ai bordi. Un resort bianco pieno di bandiere. Villette di varia fattura, dissonanti tra di loro e con l’ambiente. Lo scempio finisce e comincia un paesaggio vagamente africano. Lido Pizzo, natura bellissima. Torre Suda, mare verde muschio, un colore che non ho mai visto. Dal verde si muovono onde bianchissime. Fanno pensare al latte. In certi momenti mi pare di stare sulle mie alture a maggio quando il grano verdissimo è mosso dal vento. In più qui ci sono questi grandi riccioli bianchi. Non hanno nulla di minaccioso. È come se il moto ondoso fosse un gioco. C’è una grazia infantile e gioiosa in quest’acqua che si muove verso la terra. È la prima volta che il mare sbarca nella mia terracarne. Il mare diventa nave, arca gonfia di immagini, gonfia di creature fantastiche, elfi, folletti, ianare, è un mare nordico e meridiano allo stesso tempo. E si prende tutta la mia attenzione. Solo ogni tanto getto uno sguardo al lato terrestre della strada. In certi punti pare che il guardrail sia da una parte la sabbia e dall’altra le case.
Torre Mozza, un africano in bicicletta. Acquarica del Capo, poco traffico. Oltre al mare, ecco la cosa che mi sta piacendo di questo viaggio: non c’è nessuno in giro. Ho incrociato non più di dieci macchine. Ci sono i segni di quello che questi posti diventano ad agosto. Ecco un’insegna che annuncia “le Maldive del Salento”, ma tutto è come dismesso, avviato a un lungo letargo.
Torno a guardare il mare. Pare che le onde vogliano cancellare il costruito. È solo una mia proiezione. Le onde non hanno l’isteria dei nostri desideri. Davvero penso che nei prossimi secoli o nei prossimi decenni dovremmo dedicarci a cancellare molto di quello che abbiamo depositato sulla terra nell’ultimo mezzo secolo. Un lavoro di svuotamento che se ci trovasse concordi sarebbe anche il segno di una nuova comunità. Addirittura di una nuova religione. Come se la nuova metafisica non fosse in alto nei cieli, ma in basso, sulla superficie della terra pulita da quello che ci abbiamo messo sopra, da tutte le chincaglierie che ne impediscono la vista.
Torre Pali, Marina di Pescoluse, Torre Vado, Torre San Gregorio e poi Santa Maria di Leuca. I nomi delle località spesso sono legati a una torre, a un punto di avvistamento. Oggi lo sguardo verso il mare è fiducioso. Non scruto l’arrivo di possibili nemici. Sento che è un giorno lieto e Leuca è come una tavola imbandita per festeggiare le nozze del finito con l’infinito. Guardo il mare non più dalla strada ma da un grande balcone, il balcone del santuario vicino al faro. Oggi il luogo è veramente mistico. Rispondo a una telefonata. Vorrei che rispondesse il mare al posto mio. Vorrei che fosse la luce a parlare. Vorrei portare a casa tanti pezzi della grande fortuna di questa giornata. Una torta di luce da dividere con i miei cari.
Leuca è un gomito. E appena riprendo la marcia ho subito la sensazione che è cambiato il braccio. Adesso la strada non è più un pezzo di spiaggia asfaltato, ma un graffio nella roccia. Sono cambiati anche i colori. E la costa impervia qui ha impedito di pasticciare. Ecco un posto che si chiama “il Ciolo”. Mi aveva portato un amico. Sembra un piccolo fiordo norvegese. Scendo a fare qualche fotografia. Guardo alcune persone che pranzano in un ristorante che sembra una zattera legata alla roccia. Mi viene in mente che dovrei mangiare anch’io, ma non ho fame. Ho mangiato la luce e bevuto il mare. Vado avanti.
Gagliano del Capo, Marina di Novaglie, e poi sosta a Marina Serra. Qui ho fatto il bagno nel lembo finale dell’estate. Un posto che avevo sempre sognato di incontrare, una piscina in mezzo al mare, con enormi sassi che impediscono la deriva verso il mare in cui si affonda. Oggi non ci sono bagnanti. La piscina è agitata, sembra un piccolo parco giochi, l’acqua entra ed esce dalla buche, sembra voglia salutarmi, ma sono io che la saluto, sento una profonda gratitudine dello stare al mondo quando vedo luoghi come questi. E ora posso anche trovarmi un posto dove mangiare. So di un ristorante buonissimo nella zona. In verità in Puglia si mangia bene ovunque, trovare un ristorante pessimo è come trovare un ago in un pagliaio. Mangio davanti al mare. Un piatto di spaghetti che è un congegno perfetto di sapori mediterranei.
Riprendo la marcia con un senso di smisurata letizia che per me è davvero inedita. Anche il mio corpo, giacimento inesauribile di amarezze e recriminazioni e paure, oggi è come se si concedesse pure lui una vacanza. Ho solo un piccolo turbamento, non posso fermarmi in ogni posto. La giornata di fine novembre è breve e voglio arrivare a Lecce prima che sia buio.
Ecco la costa delle grotte: Rotondella, Zinzulusa, Romanelli. Roccia e mare, movimento e fissità, divergenza e fusione. La fusione è data dall’antico. Quello che vedo è qui da molto tempo, quello che è qui da poco tempo oggi è chiuso. E così passo per Santa Cesarea Terme per accorgermi che la costa salentina d’inverno torna quella che era nel tempo in cui le persone temevano il mare e vivevano all’interno. Un tempo in cui non c’era il turismo, ma solo la paura, un tempo in cui si viaggiava per andare a uccidere o a pregare.
All’altezza di Porto Badisco non posso non fermare il mio viaggio. E cammino dieci minuti a piedi sugli scogli per trovare un punto e distendermi. Questo posto ha davvero un’energia straordinaria. Ci sono stato in un giorno d’ottobre a prendere il sole completamente nudo. Quella mattina ho sentito la perfezione che hanno certe giornate: una mattina di ottobre col sole a Porto Badisco è come la sala della Gioconda al museo del Louvre, con la differenza che non devi contendere con nessuno la visione. Sei solo, tutta la bellezza sembra sia stata apparecchiata solo per te.
Arrivato a Otranto non mi fermo. Oggi il famoso mosaico che fa da pavimento alla cattedrale mi sembra il mare, vedo scene, colori mutevoli. E in lontananza le montagne dell’Albania. Non ho tempo per andare a rivedere il lago rosso che ho visto a ottobre. Si trova in una zona chiamata Orte ed è una cava dismessa di bauxite, la parte centrale ora si è riempita d’acqua e rane, ma l’attrazione è il rosso del bordo, l’attrazione è quella di un luogo che d’estate ti allontana dai clamori vacanzieri e ti mette nel cratere della tua vita dove il tempo passa e non capisci se sei la materia raffreddata di una lontana eruzione o una terra sul punto di esplodere.
Sono le quattro del pomeriggio. Mi sono svegliato presto, ma non è bastato, un solo giorno è poco per questa luna di miele con la costa del Salento. Adesso devo prendere di corsa il paesaggio che resta. Punto verso San Cataldo, la luce è un po’ invecchiata, non ha più il brio del mattino. Ho abbandonato nel cruscotto il mio taccuino. La prossima volta devo fare il giro nell’altro senso, partire da Lecce e arrivare a Gallipoli seguendo la costa. Vedere i laghi Alimini non alla fine ma all’inizio del percorso. Oggi qui non c’è la fauna agrituristica e ristorativa. E ormai avanzo solo per capire dove sono, quanto manca alla meta. Qui la strada non costeggia il mare, ma basta un minuto e si aprono meravigliose baie come quella di Sant’Andrea o di Torre dell’Orso (qui il contrasto con la bruttezza delle costruzioni è davvero avvilente). Faccio appena un salto alle grotte basiliane di Roca Li Posti, filo dritto senza fermarmi a San Foca e all’oasi Naturale delle Cesine.
A San Cataldo lascio il mare e la luce mi lascia. Ormai è notte. E il barocco leccese arriva come un fuoco d’artificio dopo una bella festa.
Astrarsi dal reale urbanistico per caricare le batterie degli innamorati della bellezza spesso perduta o quasi perduta.