con questo racconto inizia qui, in esclusiva, la pubblicazione dei quattro racconti inediti di maria teresa di lascia. la generosa militante radicale e la grande scrittrice di passaggio in ombra (premio strega). ringrazio franco di lascia per la gentile concessione.
armin
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Filomena era andata ad abitare nella casa nuova, accompagnata dai mariti delle figlie; essi avevano caricato le masserizie sulle macchine targate Torino e avevano seguito docilmente le sue indicazioni. Le figlie abitavano a Torino da più di vent’anni: là si erano costruite la loro vita, con i mariti e l’alloggio di proprietà, ma l’estate sarebbero venute a stare nella casa nuova, dove c’erano già l’acqua e la luce e si poteva dormire con qualche branda.
Prima di restituire le chiavi alla padrona, Filomena si guardò attorno soddisfatta. Erano le cinque del mattino e la strada era vuota, ma la sera avanti le vicine, mai sazie di immischiarsi, stavano alle finestre fra un servizio e un altro.
Anche sua nipote si era affacciata al balcone e le aveva domandato:- Che c’è, stai scasando?
– Beh, – aveva risposto Filomena, senza smettere di caricare la mobilia – dovevo essere scema a restare ancora qua, a casa d’affitto per più di quarant’anni! Il dolce piace a tutti!…
Molti paesani le avevano riferito che la nipote pettegolava della casa nuova perché non l’aveva comperata dal marito, che faceva il muratore e aveva un’impresa di costruzioni, e nei negozi in cui entrava ripeteva che la zia era impazzita e l’età le aveva mangiato il cervello.
E cosa pensa? – diceva – che adesso va ad abitare al secondo piano di un condominio, e noi ci dimentichiamo che è sempre vissuta con la porta sulla strada? Pensa di fare la signora con me, che abito in un palazzo da quando mi sono sposata?
Nello sforzo di convincere chi l’ascoltava, il viso della nipote diveniva scarlatto per l’agitazione e sul collo grasso comparivano vene spesse come corde, che vibravano e palpitavano, sul punto di spezzarsi.
Al contrario delle figlie che erano sempre state belle, la nipote era brutta e il marito la tradiva fin da giovane con tutte le donne dei paesi attorno. Certe cose, Filomena lo diceva sempre anche alle figlie, bisogna saperle per tempo o non saperle mai più. La nipote, invece, né l’uno né l’altro: si disperava quando non c’era più niente da fare!
Tante cose assennate Filomena le aveva imparate da sua madre, che faceva la lavandaia per i signori del paese e si era spezzata la schiena sciacquando panni alla fontana. La madre aveva la risposta pronta per ogni cosa, e – benché bevesse sempre un poco di vino in più per scaldarsi dal gelo delle sorgenti e a sera barcollasse verso il letto solitario – era una donna precisa.
Così, mentre Filomena piegava i panni profumati di vento sotto gli occhi accesi della madre, e nelle sue manine di bimba passavano i fazzoletti ricamati di sigle sconosciute, la madre parlava con voce arrochita di fatica e ogni tanto rideva con uno strano furore. – Sapessi! – diceva – Sapessi di che colore erano quelle maglie quando me le hanno date: si potevano contare le ossa a una a una, e così pure le pieghe della pelle… Eh, fanno tanto i signori, ma non si lavano mai! Eppoi se la prendono con me: Rosa! – diceva cambiando voce e imitando l’odiosa committente – queste lenzuola le voglio bianche come la neve! Il mese scorso le avete tenute troppo a lungo nelle cenere e le avete sciacquate troppo poco alla fontana… Io sono abituata alla pulizia e tutta la mia famiglia con me… Ah! – si lamentava all’improvviso, tendendo le gambe sotto le lenzuola – mi fanno male le ginocchia! Li vedi quei fazzoletti – diceva alla figlia, indicandole un mucchietto che aveva messo da parte – quello non lo piegare! Erano pieni di sangue… Sangue dalla bocca, s’intende, sangue da cronicario. Il figlio di donna M. ha avuto uno sbocco pure lui! Eh, poveretti una famiglia tanto per bene, ma fracida fino al midollo…
Avevano vissuto insieme fino a quando arrivò la notizia che il padre era morto in guerra. Allora la madre non aveva pianto, perché le forze le servivano per lavare i panni e pagare ai cognati le parti sulla casa dove abitavano; poi, il prete la informò che lo Stato provvedeva agli orfani di guerra e che Filomena e il fratello potevano andare in collegio a Torino.
Filomena era tornata a Torino per un mese, quando partorì Nina, la più grande delle sue tre figlie. Era stata la prima a andarsene al nord, con un infermiere forestiero che l’aveva chiesta in moglie. A quel tempo, Nina soffriva per un amore infelice con un paesano, e i consigli prudenti di Filomena circa la sorte che le si era presentata, servivano solo a farla piangere di più. Ma un giorno si era svegliata e aveva dichiarato di volersi sposare con un abito bianco e un lungo strascico.
– Si chiude una porta e si apre un portone! – sussurrò Filomena sollevata, mentre la figlia partiva con gli occhi asciutti e lo sguardo fermo di chi se ne va per sempre.
In quel mese, la stagione era calda e in casa si soffocava, Filomena usciva con la carrozzina e si avventurava in piccoli percorsi cittadini, alla ricerca di un poco di frescura: di un boschetto o di una fila di alti platani sotto i quali sedersi. Così facendo, si guardava attorno e non si capacitava che quella fosse Torino, la città che da bambina le aveva fatto tanta paura, e che da adolescente aveva disprezzato, pensando che il suo paese fosse più grande e più bello.
Per tredici anni, tanto tempo restò chiusa in collegio, aveva pensato che Torino fosse il nome della stazione dove le suore la separarono dal fratello. Dopo, mentre gli anni trascorrevano, aveva anche immaginato che il collegio fosse un punto insignificante dell’universo: qualcosa il cui nome non era segnato nelle cartine geografiche.
In quegli anni, Filomena imparò a leggere e a scrivere, a ricamare e a cucire, a cantare e a cucinare. Nessuna delle figlie aveva appreso tante cose quante lei; nessuna aveva ereditato la sua prontezza, la memoria strabiliante! Perché Filomena ricordava tutto quello che ascoltava anche una sola volta, e soprattutto i numeri che, nella sua coscienza, svelavano legami improvvisi e duraturi, e l’uno richiamava l’altro in una successione logica indistruttibile. Così, aveva imparato senza alcuno sforzo le date di nascita di quelli che conosceva e degli altri di cui sentiva parlare, e, nella sua testa di bambina, aveva creato una specie di archivio segreto che aggiornava instancabilmente.
Due volte al mese, scriveva alla madre e non si lamentava mai della sua vita; quando tornò al paese, ormai signorina, seppe di avere fatto bene, giacché la madre era analfabeta e si faceva leggere le lettere dai paesani.
Quando era partita per il collegio, la madre le aveva detto: Figlia mia, avessi avuto io la tua fortuna! A quest’ora farei la signora, altro che lavare i panni a questi sporcaccioni del paese! Eppoi, se tu vai in collegio io posso pagare la casa ai fratelli di tuo padre, e quando sarai grande ti farò trovare un corredo…
Ma Filomena aveva capito per tempo che le promesse sono il credito degli sciocchi; così non si era mai lamentata per non avere riscosso le cose impossibili, e accettava di buon grado ogni dono della sorte: disgrazia o fortuna, rovescio o cuccagna. Sempre storta non può venire, si ripeteva quando le avversità la incalzavano. Storta va e diritta viene, era il suo motto.
In questo stesso modo aveva allevato le figlie, e in loro aveva visto accrescersi i frutti dei suoi insegnamenti. Bettina soprattutto, la seconda, dopo un’adolescenza infuocata era divenuta la più simile a lei, la più capace di ignorare i colpi della sorte. D’estate tornava al paese e trascorreva le giornate nella casa dov’era nata e dove ogni cosa era rimasta immutata: la porta che si apriva sulla strada, il bagno cieco e maleodorante, lo stanzone unico diviso in parti da una struttura di legno che sostituiva i fili dei tendaggi del passato.
Quando la mattina compariva sulla porta, avvolta in una vestaglia fiorata e con il viso ancora stropicciato di sonno, le vicine si affacciavano per salutarla e lei rispondeva mescolando il dialetto allo strascichio un poco insulso di una lingua che imitava. -Ah, sei arrivata! – dicevano le vicine. E lei:- Sciono arrivata stanotte!
Ti sei fatta estranea! – la irridevano quelle; e Bettina, afferrando prontamente la situazione:- E certo! – rispondeva – credevate che sciarei rimasta sempre una terrazzana come voi?
Queste erano le risposte che piacevano a Filomena e che la facevano gongolare dietro la tenda della camera da letto.
Poi, la sera, Bettina si vestiva come una grande signora e usciva col marito a passeggiare per la piazza del paese. Allora tutti la guardavano perché era una bruna strepitosa: alta e con certe gambe lunghe e affusolate che facevano invidia a una indossatrice.
Filomena non aveva mai dovuto buttare via nulla della poca mobilia che riempiva la casa: i letti chiudibili con le molle rotte avevano fatto sempre il loro dovere, benché a volte le figlie si lamentassero per il dolore alle ossa con cui si svegliavano e le domandassero perché non comprava un letto nuovo.
– Zitte, – rispondeva Filomena, che già cucinava per il pranzo. – Zitte! Quando compro la casa nuova mi faccio nuova ogni cosa! Come una sposina, io e vostro padre! – diceva ridendo e mostrando le gengive cieche di denti che si erano sfilati ancora sani, senza un dolore.
La casa della madre se l’era presa il fratello, benché egli fosse rimasto in collegio solo per cinque anni e avesse mangiato il pane della madre più a lungo di lei. – Ma ha anche lavorato! – sospirava la madre. – Eppoi è maschio, e i suoi figli porteranno il nome di tuo padre!…
Filomena aveva accettato: si chiude una porta, aveva detto senza fissarsi, e cinque mesi dopo si era sposata con un mercante di Barletta che voleva stabilirsi al paese.
Ma il portone non si era aperto: il marito era malato e sputava sangue tutti i giorni. Filomena lavava le lenzuola e usciva da sola a vendere le mercanzie. Lo aveva curato con tutte le uova e la carne che riusciva a comprare, e lei era rimasta senza mangiare. Quando Dio volle il marito sembrò guarito e le figlie diventarono abbastanza grandi per aiutarla; perfino la più piccola, Sofia, stava sempre davanti a una conca a strofinare panni. Come mia madre, pensava Filomena orgogliosa.
A volte, raramente, il marito picchiava le figlie con la cinta, e Filomena restava in cucina a mettere a posto i tegami o a rovistare nei cassetti.
– Le figlie tue sono come te! – gridava il marito, mentre assestava qualche colpo senza convinzione, e la sua voce dall’inflessione ritorta si spandeva nella strada. – Ce d’è? – chiedeva nel suo dialetto, inseguendole attorno al tavolo. – Che cos’è, siete scontente? – traduceva – vi manca qualcosa? Ci manca qualcosa alle tue figlie? – insisteva con Filomena che guardava ostinata dentro le pentole.
Dopo che il marito era uscito, Filomena andava a cercare le figlie che si erano sparpagliate nelle case vicine. Bettina! – chiamava per prima, nella speranza che non stesse raccontando tutti i fatti loro. Sono qua! – rispondeva quella dopo un poco. Che fai? – domandava Filomena. Quello che hai fatto tu prima! – rispondeva la malnata. – Dài! -diceva Filomena- le mazzate per te ci vorrebbero tutti i giorni!
Poi, era nato un maschio, Angelino, e tutti si erano felicitati con Filomena. – Ora avete chi vi porterà il pane a casa! – le dicevano, e Filomena acconsentiva con un gesto del capo. Ma, per quanti sforzi facesse per nascondere i suoi sentimenti, tutti capivano che viveva per le figlie. A volte lei stessa si domandava perché provasse una simile, ingiusta, preferenza e perché non riuscisse a sentire dentro di sé un amore speciale verso il suo unico figlio maschio.
A volte il figlio e il marito litigavano per qualche sciocchezza; a volte alzavano un poco la voce; altre volte si arrabbiavano molto e mettevano un muso tremendo; allora Filomena usciva con loro a vendere ai mercati e diceva all’uno le cose che mandava a dire l’altro, fino a quando non si quetavano. Quando Angelino ebbe una fidanzata, Filomena sospirò di sollievo e cominciò a prendere il treno da sola. Andava a trovare le figlie a Torino; viaggiava tutto il giorno senza riposare, e i suoi occhi penetranti non smettevano di guardare fuori dal finestrino.
Dio! Come erano diversi questi viaggi da quelli che faceva da bambina: com’era bello adesso sedersi nello scompartimento e sapere che alla stazione avrebbe trovato ad attenderla le figlie e i nipoti. Le figlie le dicevano di trasferirsi a Torino, in una casetta vicina; Filomena lo ripeteva al marito, ma quello non voleva saperne di lasciare il paese per andare a vivere in città.
Quando Angelino si sposò e andò a abitare a casa di nonna Rosa, le figlie decisero che bisognava comprare un alloggio al paese. Un alloggio, avevano detto, nel quale potessero venire tutte e tre insieme ad agosto, e dove fare delle belle tavolate. Infine, tirarono fuori ciascuna un po’ di soldi e comprarono tre stanze con bagno e cucina, al secondo piano di un condominio.
Adesso che era finalmente padrona di una casa nuova, Filomena passava tutti i giorni davanti alla dimora della madre e si affacciava dentro a guardare che cosa combinava la nuora.
Entrate, mammà! – le diceva quella con buona educazione. – Vi faccio un caffè.
Filomena entrava, e dopo un poco che si era seduta misurava la casa a piccoli passi: la cucina con la fornace incassata nel muro; le due stanze che si aprivano entrambe su quell’unico vano che le divideva, fungendo anche da ingresso.
– E’ piccola questa casa! – diceva la nuora. – Eppoi la porta sta sulla strada! Io vorrei una scalinata esterna, come quella davanti a casa di mia madre. Qua tutti possono entrare – continuava dopo un attimo di silenzio. – Chiunque passa può guardare dentro anche se ho messo le tendine…
Filomena ascoltava senza dire nulla e i suoi occhi si volgevano attorno seri. – Poi, -continuava la nuora- se nasce un figlio non c’è il posto per fare una stanzetta e ce lo dovremo tenere in camera con noi!
– Io e mio fratello ci stavamo benissimo! – sussurrava appena Filomena, pentendosi subito di avere parlato.
– Ma erano altri tempi mammà! Allora tutti i figli dormivano con i genitori…
– E tu mettili qua! – diceva Filomena mostrandole la stanzetta laterale, come si mostra un tesoro.
– E un poco di salotto dove lo metto? – si accigliava la nuora.
– No, no! Io glielo dico sempre ad Angelino: vendila e compriamo un appartamento come si deve! Come ha fatto tua madre che questa casa non l’ha mai voluta perché era troppo piccola e non potevano venirci le figlie!
A queste parole, nelle pupille di Filomena passava un fuoco che subito si spegneva.
– E alla fine lo convincerò! – concludeva l’altra minacciosa, come se il silenzio di Filomena le sembrasse un’accusa.
– Non ci pensare – rispondeva Filomena conciliante. -Si chiude una porta…
Nel mese di agosto la casa nuova era piena dell’allegria delle figlie e dei nipoti e Filomena si affacciava orgogliosa al balcone della cucina.
-Altro che stendere i panni alla Croce! -rideva Sofia. -Ti ricordi che freddo, quando uscivo sulla strada per rimettere a posto i fili che il vento aveva spezzato… Tornavo con le mani congelate!
Filomena assentiva con un piccolo segno del capo, e gli occhi si riempivano di lacrime per il bene che voleva alle figlie.
Poi erano partite, e Filomena aveva rimesso in ordine ogni cosa e si era aggirata per le stanze divise dai muri; infine si era seduta in cucina a guardare arrivare la sera. Dalla strada non giungeva nessun rumore e il condominio si era svuotato di inquilini: tutti partiti, pensò, sono scasati tutti a Torino!
Una mattina si svegliò, e invece di mettere i panni dentro la lavatrice, li immerse nella vasca da bagno; il marito la trovò che sfrecava le lenzuola con tutta la forza delle braccia.
In casa non le piaceva molto stare, e, quando aveva finito le poche faccende, scendeva sotto al portone del condominio con una sediolina, ad aspettare di vedere passare qualcuno.
Poiché i giorni erano lunghi e le ore piene di tedio, cominciò a ripassare tutte le date che conosceva a memoria, e nella sua mente pronta sfilò il lungo corteo dei vivi e dei morti. Certo, certo! – pensava di qualche raro passante che l’aveva salutata, questo ha proprio la mia età: è nato tre giorni prima di me e due anni e quattro mesi dopo mio fratello; i figli, invece, sono tutti più grandi di Nina e si tolgono undici mesi l’uno con l’altro! Sì sì! – commentava soddisfatta scuotendo la testa, quello tiene quattro figli. Il primo è nato di maggio, il 6 maggio; il secondo è nato il 25 aprile: era festa, me lo ricordo come fosse ora; il terzo è nato il 3 marzo e il quarto l’8 di febbraio! Le cose stanno così! – commentava soddisfatta, sbattendo a terra i piedi in segno di giubilo. Anche quando viveva in collegio faceva questo gioco, e chi avrebbe mai detto che si potesse fare ancora!
Il collegio! Madonna mia che ricordi: lei non lo augurava a nessuno il collegio! Che freddo faceva nelle camerate delle orfanelle come lei! Nelle camerate delle ricche invece, di quelle che avevano i genitori che venivano a prenderle nelle feste di Natale e di Pasqua e due domeniche al mese, c’erano sempre le stufe accese e le imbottite sopra i letti. Ma il momento più doloroso era la mattina a colazione, quando alla sua tavola trovava da mangiare il pane secco con le noci, e nella tavola imbandita delle ricche arrivavano ogni sorta di leccornie: latte, marmellata, biscotti dal profumo tanto intenso che bastava a fare rotolare le lacrime giù dagli occhi. Recitavano tutte insieme le preghiere: Padre nostro che sei nei cieli… dacci oggi il nostro pane quotidiano, e la sua voce si incrinava per il pianto e per quella desolata umiliazione che le affannava nel petto e le faceva distogliere lo sguardo dal volto della suora istitutrice.
-Le signorine esterne ricevono i pacchi dalla loro famiglia! – diceva la superiora, camminando in mezzo alla doppia file di orfanelle infagottate nei loro orribili abitucci. -Ecco perché mangiano altre cose da quelle del vitto: noi non possiamo permetterci simili cibi per tutte! Bisogna accettare la volontà di Dio che ci ha volute fare nascere l’una diversa dall’altra; e d’altronde il nostro amato Salvatore, Gesù della Croce, nacque poverissimo in una stalla…
Ma Filomena pensava che avrebbe voluto mangiare solo cipolla a casa della madre, piuttosto che mangiare biscotti in quel collegio! Oh, la casa della madre, quante volte l’aveva sognata in quegli anni di prigionìa dentro le mura del collegio: oh, la porta che si apriva sulla strada e bastava un attimo per essere fuori, in mezzo ai rumori dei vicini, alle chiacchiere senza senso, agli odori mescolati delle cucine. Oh, cara vita perduta e selvaggia, cara vita di polvere e fatica!…
Una sera, il marito l’aveva minacciata perché era rimasta avvoltolata nel buio della strada, senza preparare la cena; allora Filomena lo aveva fissato nella luce morta del neon e aveva riconosciuto il suo guardiano. Questa scoperta le fece battere il cuore vorticosamente: come aveva fatto a non capire; come aveva potuto dimenticare il guardiano del collegio, l’uomo spaventoso che da bambina la sorprendeva al confine della cancellata, e la fissava con gli occhi lucidi di pensieri schifosi.
Come aveva fatto a non capire che quell’uomo che ogni sera la costringeva a tornare dentro le mura della casa, era lo stesso guardiano da cui fuggiva da bambina! Adesso capiva tutto! Adesso capiva perché lui non l’aveva lasciata andare a vivere con le figlie: voleva tenerla prigioniera nella casa nuova! E la casa nuova era il collegio: lei se lo era sempre immaginato che il collegio fosse un luogo oscuro che poteva trovarsi ovunque… O forse il posto dove si trovava adesso era Torino, ma non Torino dove abitano le figlie, quell’altra Torino!
Bisognava mettere ordine in tutte le scoperte che aveva fatto, e la prima cosa, la più importante, era che lui non si accorgesse di nulla, che continuasse a credere che Filomena era sempre l’orfanella, e lui sempre il carceriere. Sì, sì! Filomena sapeva come uscire da una simile situazione: storta va e diritta viene; sempre storta non può venire; e quello che abita in piazza è nato il giorno dopo di Bettina…
Voleva mettersi a cucinare, ma poi aveva portato a tavola una busta di pane vecchio e qualche noce. Quando lui si era voltato a guardarla con i suoi occhi di vetro, Filomena si era messa a tremare come una foglia e nella fretta di scappare era inciampata nel tavolo ed era caduta a terra, battendo le ginocchia. Allora il terrore l’aveva sopraffatta e quando aveva sentito le mani del guardiano afferrarle il braccio, si era rivoltata come una serpe e gli aveva graffiato il volto a sangue.
Aveva pianto tutta la notte perché adesso il suo carceriere non l’avrebbe più lasciata andare via, e Filomena voleva solo tornare a casa della madre, a piegare panni e ad ascoltare racconti. Se fosse riuscita a scappare, glielo avrebbe detto a sua madre: non mandarmi più in collegio, non mandarmi più!… Tienimi in questa casa dove ho sempre voluto stare, non mandarmi alla casa nuova: quella è il collegio che mi ha trovata!
Verso mattina si era addormentata un poco, eppoi aveva sentito una voce che la chiamava:- Mammà, mammà! Filomena!… Lo sai chi sono?
Certo che lo sapeva: era la sua amica, l’unica amica che avesse mai avuto in collegio! Facevano insieme ogni cosa: cucivano, cantavano, studiavano! Solo, dormivano in camerate differenti, e questo spiegava perché era venuta adesso che si era fatto giorno.
– Andiamo in parlatoio? – domandò speranzosa Filomena. La ricreazione è già cominciata, facciamo presto! – supplicò, indicando con gli occhi atterriti il suo carceriere. – Facciamo presto!
La nuora la fissò sgomenta, senza capire.
Quando la guerra in ex-Jugoslavia non era ancora “cosa comune”, mentre i serbi ammazzavano i musulmani, che uccidevano i cristiani, che trucidavano chi restava, presi l’abitudine di lasciare che la radio dello studio, dove svolgevo il mio apostolato di architetto, gracchiasse quel genere di parole che, una volta sentite, credi siano state rubate ai tuoi pensieri. La radio dei radicali, era l’unica voce che aveva compreso (preso con sé) la necessità di condividere la conoscenza dell’eccidio che si compiva a qualche chilometro a destra di Ancona. Un giorno di sciopero della fame, per gridare alla stampa dei comunisti, dei democristiani, dei fascisti, dei socialisti, che cosa succedeva in quella terra senza petrolio ma con tanto odio represso. Telefonai, per dire che anche io avrei aderito. La voce, però, smise di gracchiare e divenne quella di una ragazza che mi disse: “…. solo tu?…poi??”. Come “..poi?”, ma lo sapeva “quella” che io chiamavo da Avellino? Che De Mita non permetteva che certe cose fosse necessario pensarle? Che mio padre era maresciallo e se lo avesse saputo avrei dovuto cambiare direzione dello sguardo per settimane?…”Solo tu?..e poi?” ….Da Avellino, allo sciopero della fame, parteciparono un centinaio di persone. Quando quella voce morì, un carabiniere ausiliario, di piantone alla sua caserma,aprì la porta ai genitori di quella voce, venuti a rispondere ad un suo telegrafico saluto.
PS
Perdonate l’intervento …”per fatto personale”
aspetto con ansia il seguito.
p.s. dividerei il racconto in parti minori.
..
“Bisogna scrivere una storia semplice con la massima semplicità possibile. Nella semplicità di una storia ci sono già abbastanza complessità, ferocia e disperazione”
K. Blixen.
Ho voluto citare la mia scrittrice di riferimento per ringraziare franco&franco per la pubblicazione di questo bel racconto.
Ma sopratutto la scrittrice che già apprezzavo e che ora particolarmente leggerò….
Questo racconto è un lenzuolo steso al sole.
“la porta che si apriva sulla strada e bastava un attimo per essere fuori, in mezzo ai rumori dei vicini, alle chiacchiere senza senso, agli odori mescolati delle cucine.”
Penso che una comunità debba avere una porta così.
Filomena sotto il portone del condominio che gioca all’anagrafe…una paesologia allo stato embrionale
La bella lingua inattuale di mAria teresa
un contraltare al testo…
LA CIPOLLA È UN’ALTRA COSA.
INTERIORA NON NE HA.
COMPLETAMENTE CIPOLLA
FINO ALLA CIPOLLITÀ.
CIPOLLUTA DI FUORI
CIPOLLOSA FINO AL CUORE
POTREBBE GUARDARSI DENTRO
SENZA PROVARE TIMORE.
IN NOI IGNOTO E SELVE
DI PELLE APPENA COPERTI,
INTERNI D’INFERNO
VIOLENTA ANATOMIA
MA NELLA CIPOLLA – CIPOLLA
NON VISCERE RITORTI.
LEI PIÚ E PIÚ VOLTE NUDA
FIN NEL FONDO E COSÍ VIA.
COERENTE È LA CIPOLLA
RIUSCITA È LA CIPOLLA.
NELL’UNA ECCO STA L’ALTRA
NELLA MAGGIORE LA MINORE,
NELLA SEGUENTE LA SUCCESSIVA,
CIOÈ LA TERZA E LA QUARTA.
UNA CENTRIPETA FUGA.
UN’ECO IN CORO COMPOSTA.
LA CIPOLLA D’ACCORDO
IL PIÚ BEL VENTRE DEL MONDO.
A PROPRIA LODE DI AUREOLE
DA SÉ SI AVVOLGE IN TONDO.
IN NOI – GRASSO NERVI VENE
MUCHI E SECREZIONE.
E A NOI RESTA NEGATA
L’IDIOZIA DELLA PERFEZIONE
(WISLAWA SZYMBORSKA)
…. letto e ripassato pocanzi