stato di calamità morale

metto qui un pezzo uscito sul manifesto di oggi come editoriale.
ci vediamo il primo novembre ad aquilonia. con noi ci saranno gli amici del confine italo-sloveno.
armin
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Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/ frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull’assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L’Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l’acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell’Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie. L’Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché soci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall’Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell’agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno. Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l’impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l’attenzione della politica ai problemi dell’agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L’anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l’argomento. Nell’italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa. Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l’ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La piaggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.



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5 pensieri riguardo “stato di calamità morale

  1. un autovelox dell’anima non è ancora stato inventato, per “fermare” la corsa al mattone che sta devastando l’Italia ….

    Parole giuste , Franco .

  2. Complimenti
    Gli argini dell’editoriale non reggono. La scrittura di Arminio tracima, è un’onda di piena naturale, passa e rende di nuovo fertile la “ terracarne”.

  3. siamo anche concreti, due proposte operative: niente più sottrazione del suolo agricolo, mai più case in campagna a chi non è agricoltore

  4. L’ho scritto in un altro post e lo ribadisco, la tutela del territorio possono creare posti di lavoro, e l’Italia ha il territorio più spettacolare del mondo. Ma ne fa un uso scellerato.

  5. a arminio,
    leggo solo ora.
    grazie ancora.
    spero al più presto di comprare terracarne sia per me che per chi vorrà ascoltarlo.
    e sicuramente cercherò di diffonderloe anche di leggerlo a voce alta…
    mi piace anche l’idea del “traslocatore”…
    resto sempre affascinato dalla lucidità che emerge dalla poesia dei tuoi testi.
    al di là della forte urgenza dell’idea che ti anima c’è comunque uno stile, un segno che si fa seme e cresce, cresce anche sulle pietre, quelle che ostinatamnete e caparbiamente continui a difendere e ad amare.
    nutri un senso della collettività che supere il senso comune, il cosidetto bene comune.
    un senso che sprigiona il bisogno di chiamarci ad una leva: quella sul e del territorio.
    senza sconti e senza distinzioni.
    oserei dire come da più parti senza sé e senza ma…se non fosse che le parole quando usate come slogan si slogano da sole.
    e quindi per ora da questo piccolo paese della toscana meridionale (c’è un meridione dovunque, anche qui, anche nel nostro corpo visto il modo in cui trattiamo e consideriamo i nostri piedi…) dove sono venuto a vivere con la mia giovane famiglia tra altre famiglie per trovare e non ri-trovare, per cogliere e non ri-cogliere frammenti di respiro, non posso che continuare a leggere te e gli altri che scorrono su questo straordinario sito.
    comunità provvisorie…è proprio il modo in cui noi, piccola comunità all’interno del paese di Castell’Azzara (GR) cerchiamo di vivere.
    imparando a riconoscere la provvisorietà in un albero, un fiore, un tronco, un asparago, una carota, un cavolo e in un nuovo amico che parla un dialetto così del nord che non riesco a ridere ogni volta della sua pronuncia.
    ma è una pronuncia che riecheggia nel vento di questa povera valle che mi ha portato ad amarla.
    ecco allora provato sulla pelle, sul suo diventare a pelle d’oca, l’effetto del museo dell’aria: una cosa bellissima…
    bellissima perchè effimera, breve, come un bacio, come una carezza come un buffetto sul naso di mio figlio piccolo.
    gli dico ” ascolta…? senti qualcosa…? e lui di contro mi dice no…e io: non fa niente, prima o poi lo sentirai…il vento…e lui “ma io il vento lo sento…” e allora, tesoro mio, hai sentito tutto.
    a presto
    buona vita

    stefano lucarelli

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