Posto qui un “pezzo” pubblicato da Gianni Biondillo su Nazione Indiana, a proposito di quel che sta accadendo in Egitto, davanti al cortile di casa nostra. Di sicuro quel che avviene lì riguarda o riguarderà anche noi. Barbara Teresi ne fa un reportage in presa diretta, un occhio anche alla rete. (Salvatore D’Angelo)
di Barbara Teresi
“Noi sogniamo un paese in cui ci sia giustizia sociale e loro sognano un paese in cui portare avanti i loro interessi personali. Il nostro sogno è un paese in cui ci siano sicurezza e libertà e il loro sogno è una nazione governata dalle forze dell’ordine. Il nostro sogno è la dignità umana, il loro i tribunali militari che processano i civili. Il nostro sogno è un paese governato da persone corrette e preparate, il loro è un paese governato da generali. Il nostro sogno è nato negli anni ’70, ’80 e ’90. Il loro è nato negli anni ’30. Il nostro sogno diventerà realtà, il loro finirà nella pattumiera della Storia”.
Farida, classe 1992, è poco più di una bambina. Il 21 novembre, mentre in piazza Tahrir è in atto una carneficina, posta questo messaggio su Facebook. Scrive dalla piazza, dove si trova con tutta la sua famiglia, e in quelle poche righe riesce a condensare lo spirito e gli ideali dei “ragazzi di Tahrir” impegnati a scrivere una nuova pagina in quella che è la Storia della loro rivoluzione. E centra perfettamente il punto, Farida, raccontando quanto siano irrimediabilmente lontani e contrapposti gli alfabeti in cui si esprimono le due parti in gioco: il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) da una parte, le giovani generazioni con il loro sogno democratico dall’altra, in quella che sembra essere una battaglia decisiva, una resa dei conti finale tra lo SCAF, che in teoria starebbe guidando il paese in questa fase di transizione, dopo le dimissioni di Hosni Mubarak, e i “rivoluzionari” (thuwwàr, così si definiscono i giovani di piazza Tahrir), che non ci stanno a farsi strappare di mano la loro rivoluzione da quell’esercito che in questi mesi ha mostrato il suo vero volto, chiarendo di non avere alcuna intenzione di lasciare il potere, procrastinandone sempre più la transizione a un governo civile e mostrando più volte il pugno di ferro contro gli oppositori.
Quella contro cui si battono oggi i rivoluzionari di Tahrir è la controrivoluzione con la quale il regime tenta di mantenersi in piedi, gattopardescamente, e di superare indenne o quasi il ciclone delle richieste di cambiamento in senso democratico che all’inizio di quest’anno si è abbattuto sul governo trentennale di Mubarak. A capo del consiglio militare, infatti, c’è il generale Tantawi, già ministro della difesa sotto il regime Mubarak. Da tempo, fin da subito dopo le dimissioni di Mubarak, i rivoluzionari di Tahrir ne chiedono le dimissioni. Per tutta risposta nei mesi scorsi lo SCAF non ha esitato ad abusare del proprio potere e a mostrare il pugno di ferro, rendendosi responsabile di vere e proprie carneficine (come quella del 9 ottobre a Maspero) e di migliaia di arresti di civili processati da tribunali militari. Proprio contro quest’ultima pratica si sono concentrati nei mesi scorsi gli sforzi degli attivisti che non accettano i processi militari a civili. Ha suscitato molto scalpore in particolare l’arresto, che risale a più di venti giorni fa, del blogger e noto attivista Alaa Abdel Fattah, simbolo e anima della rivoluzione di gennaio, che si è rifiutato di essere processato militarmente e per questa ragione si trova tuttora in cella. Arrestando lui il Consiglio delle Forze Armate ha voluto probabilmente lanciare un monito ai “ragazzi di Tahrir”.
Così venerdì scorso la piazza si è di nuovo riempita, per chiedere le dimissioni di Tantawi, ma non solo. Le richieste della piazza sono precise, lucide, coerenti e per nulla ingenue o naif come si potrebbe pensare. Si chiede il passaggio immediato dei poteri dalla giunta militare a un esecutivo civile che guidi il paese fino alle elezioni presidenziali; di abolire i processi marziali ai civili; di far processare da corti civili i responsabili delle violenze degli ultimi giorni e dei mesi scorsi; di abbandonare i privilegi che fanno dell’esercito egiziano una casta potentissima non solo politicamente, ma anche economicamente (l’esercito controlla settori chiave dell’economia egiziana, tra cui quello del petrolio). Quest’ultimo punto è il nodo centrale che ha scatenato questa nuova protesta, dopo la presentazione di una bozza di emendamenti costituzionali che mirano a rinsaldare il potere dell’esercito, negando ogni possibilità di controllo sia sul bilancio che sull’operato delle forze armate.
A chi parla di una seconda rivoluzione egiziana, i ragazzi di Tahrir rispondono che no, non si tratta di una seconda rivoluzione, stanno solo portando a compimento la prima. I messaggi su Twitter si rincorrono mentre piazza Tahrir e le vie circostanti si presentano come un teatro di guerra. Ma è, ancora una volta e ancor più della volta scorsa, una guerra ad armi impari, in cui ragazzi disarmati, o al massimo armati di pietre, affrontano gli uomini delle forze dell’ordine decisi a reprimere con ferocia, nel sangue, le proteste di quei giovani. Ma la piazza non ha più paura, e la violenza inaudita delle forze dell’ordine non è sufficiente a convincere i manifestanti ad abbandonare Tahrir. Sanno di rischiare la vita, ma restano lì. Mentre di minuto in minuto giungono notizie drammatiche riguardo al numero di morti e feriti, i ragazzi a Tahrir si annotano sul braccio, a penna, il numero di telefono di famigliari o amici per poter essere identificati in caso di morte. Una ragazza scrive su Twitter “Abbiamo tutto da perdere e tutto da vincere”, parole che mi fanno ripensare al testo di una bellissima canzone di De Gregori, La Storia siamo noi. Quei ragazzi sanno che la posta in gioco è molto alta, che si tratta di difendere la rivoluzione di gennaio, di fare in modo che tutto quel che è stato fatto finora non sia stato fatto invano. Non vogliono sentir parlare di compromessi con il regime militare e sono disposti a pagare in prima persona, anche con la propria vita, per veder realizzato il loro sogno di democrazia, di libertà e giustizia sociale.
Piazza Tahrir è di nuovo quella sorta di città nella città che era stata durante i 18 giorni a cavallo tra gennaio e febbraio scorsi. Ci sono diversi ospedali da campo e la virtuosissima macchina della solidarietà si è rimessa in moto. C’è gente che va in piazza solo per offrire il proprio aiuto, ci sono medici e infermieri, un servizio di ambulanza vero e proprio e uno improvvisato per trasportare i feriti in motorino al più vicino punto di assistenza, si organizzano collette per comprare medicine e generi di prima necessità, si dona il sangue per le trasfusioni. Si cerca anche di scherzare, per quanto possibile in una situazione così drammatica. Qualcuno scrive su Twitter che l’Egitto è l’unico paese in cui i giovani non temono la morte, ma hanno paura di dire ai loro genitori che stanno andando a Tahrir.
Ancora una volta, in piazza ci sono tutti, ragazzi e ragazze, cristiani, musulmani, comunisti, anarchici, liberali, islamisti, famiglie intere, anziani, bambini. E nel frattempo la rivolta infiamma anche molte altre città egiziane. Mentre scrivo, il generale Tantawi fa il suo discorso alla nazione. Spiega che l’esercito sta solo proteggendo il popolo egiziano e guidando la transizione democratica, non ha alcuna intenzione di governare il paese e le elezioni presidenziali verranno anticipate a Giugno 2012. Chi ha seguito da vicino i fatti di febbraio, ha la netta impressione del déjà vu: il discorso retorico e ipocrita di un carnefice che ha tante morti sulla coscienza e non si assume alcuna responsabilità per il sangue versato da tanti giovani innocenti. Un discorso cui, ancora una volta, la piazza risponde con un perentorio “Irhal!”, vattene.
Ed è che indietro non si torna. A chi in occidente si chiedeva, all’indomani dalla caduta di Mubarak, se quella rivoluzione sarebbe veramente servita a cambiare le cose, chi conosce da vicino l’Egitto e i protagonisti di questa battaglia ha sempre risposto che sì, il cambiamento c’è stato eccome, a prescindere poi dal se e dal quando se ne vedranno i frutti. Una democrazia non si costruisce dall’oggi al domani. Il cammino sarà inevitabilmente lungo e impervio, ma un cambiamento c’è stato, ed è sostanziale, ed è sotto gli occhi di tutti: la gente non ha più paura di reclamare i propri diritti ad alta voce, di combattere e perfino di morire per poter vivere un giorno in un paese migliore. Quelli che si trovano in piazza adesso sono gli stessi ragazzi che hanno dato il via alla rivoluzione di gennaio. Non si sono mai fermati, hanno continuato per tutti questi mesi a portare avanti le loro battaglie, non hanno mai mollato quella piazza e dimostrano di non essere disposti ad abbassare la guardia, ad accontentarsi di soluzioni di compromesso. Dimostrano di essere pronti a rioccupare piazza Tahrir ogni volta che sarà necessario. È questa la rivoluzione, questo il vero cambiamento. In un paese che da mezzo secolo vive sotto regimi militari e subisce a testa bassa ingiustizie e vessazioni di ogni tipo, la generazione dei ventenni di oggi insegna ai propri genitori e al paese intero a non aver più paura, ad alzare la testa, a reclamare dignità umana e giustizia sociale. E dà al mondo intero che sta a guardare un’inedita, tanto semplice quanto efficace, lezione di democrazia. Il simbolo della battaglia di questi giorni è Ahmed Harara, un giovanissimo dentista, la cui storia ha commosso il paese e in questi giorni sta facendo il giro del web: negli scontri del 28 gennaio Ahmed aveva perso un occhio e sabato scorso ha perso anche l’altro, ma lungi dal lasciarsi scoraggiare, ha dichiarato: “Meglio vivere cieco nella dignità, che vedere e vivere umiliato”.
Più di trenta i morti, martiri della libertà. Circa duemila i feriti. Indietro non si torna, ovunque porti questo secondo capitolo della rivoluzione.
Di certo non mancano determinazione e coraggio, ai rivoluzionari di Tahrir.
E per piacere, non chiamateli ragazzi
UN COMMENTO?
Alla fine di questa lettura, non approfonditissima, perché, come succede spesso con fb, ero qui per altro e con tempo zero, ma ci ritornerò.
Mi ha aperto un oceano dentro di me, mi capita spesso soprattutto in questa fase della mia vita, e della vita del mondo. è strano, in pochi forse potranno comprendere, perché forse quei pochi stanno vivendo questa indescrivibile magica e terribile sensazione: essere e sentire e reagire con il respiro del mondo. Non c’è cosa della mia giornata che non riguardi me e il mondo. è molto fatico, è molto immenso, megalomane e umilissimo, egocentrico e generoso, semplicistico e grandioso, ovvio e sofisticato….. ma sto andando fuori tema.
In tema. Ho ben poco da dire: so poco, cioè il poco che passa dai giornali, tv, media, tanto rumore per nulla. Per non dire quello che conta veramente.
Il pochissimo-molto sull’argomento lo so da qualche contatto giornalistico personale, pro e contro – ma anche dai contro io estrapolo – dal tam tam cosmico, che io afferro con naturalezza (anche qui, razionali, teorici, esperti professionisti, materialisti astenetevi da commenti, non è materia per voi, perché non c’è materia).
Intorno al tema e a partire dal tema, moltissimo da dire. L’oceano di cui sopra.
Parentesi di precisazione
Fare una sintesi comprensibile, efficace, leggibile e impresa che tento. Se non ci riesco, padroni di insultarmi, perché questa volta me lo sarò meritata. Da chiunque: materialisti e razionalisti di sopra e qualsiasi categoria umana o no.
Far perdere tempo agli altri e rovinare anche solo un attimo della propria giornata io lo trovo inammissibile. Anche quando, mio malgrado, sono io a farlo. Capita a tutti di sbagliare. A me spessissimo.
Fine parentesi
Ritorno all’oceano.
Ma avendo perso tempo nei preparativi, mi limito a qualche goccia, per i motivi di cui sopra: tempo zero mio ora diventato sottozero e quello scritto dentro la “parentesi di precisazione”.
E finalmente, o purtroppo, la goccia, sì nel frattempo è diventata una, è passata la fase megalomane e sono ritornata alla più consueta fase umile, per cui già mi vergogno che se sto un attimo qui, cancello tutto……
A PROPOSITO DI QUEI RAGAZZI.
Il titolo mi ha colpito tantissimo, perché io qualche giorno fa in altro contesto ho usato questa frase per una lettera rivolta a un gruppo di giovani, in quel caso sollecitata sgradevolmente dai “ragazzi” di B.
E proprio in questo momento sto lavorando personalmente sul rapporto fra genitori e figli (adolescenti-post-pre…) e più in generale sul rapporto adulti-giovani (rapporto che nella nostra società occidentale, italiana in particolare non esiste e da lì tanti grossi disastri di ogni tipo, antropologico, culturale, economico, affettivo e effettivo e tutti quelli che vi va di aggiungere).
Per questo motivo mi ha colpito così tanto l’articolo – chiamarlo tale è peraltro riduttivo, e per me exgiornalista quasi un’offesa (oppure potrei scrivere ma ci vuole più spazio e più tempo, faccio una sintesi estrema: io giornalista gli altri per me – quelli che lo stanno facendo ora o continuano a farlo, colleghi – exgiornalisti) – perché ci ho sentito un fortissimo dialogo, o meglio una partecipazione osservante da parte del giornalista, che non mi è apparsa come un corpo estraneo, ingombrante, giudicante, materno, paterno, paternalistico, rispetto a quei giovani, ragazzi, bambini…. Mentre proprio giorni fa avevo letto cose diverse e lì per lì mi è venuta voglia di mandare questo all’altro collega – su posizioni fra l’altro piuttosto opposte, pur se spiegate e argomentate con molta intelligenza, competenza e acume forse – poi qualcosa mi ha trattenuto…. e ho preferito fermarmi a riflettere, cosa che sto facendo ancora – è evidente a un lettore attento – mentre sto scrivendo. E lo spunto è partito, cioè la differenza notevole dei due scritti era proprio la mancanza di dialogo fra generazioni: da una parte questo qui (non so quasi niente a dire il vero dell’autore ma non è questo il punto e tuttosommato non serve al tema) dove è innegabile l’ascolto e la recezione fra generazioni, dall’altro l’altro scritto al quale mi riferisco dove non c’è proprio niente, neppure il tentativo. La stessa cosa si potrebbe trasportare il altri contesti, in altre realtà, ma proprio dove ci sono drammaticità e scontri così forti a me appare evidente questa separazione generazionale e soprattutto appare evidente il peso terribile delle conseguenze di questa assenza e soprattutto di questa assenza di tentativo di colmare l’assenza con il dialogo, l’avvicinamento.
(Evito adesso di aprire una parentesi perché mi perderei e farei perdere anche il malcapitato che abbia avuto la pazienza e la temerarietà di giungere fin qui.)
Grazie a questo articolo mi è finalmente apparsa lucida e netta la necessità per i giornalisti, i giornali, i media di allacciare un rapporto con i ‘ragazzi’, ma che dico, con i bambini addirittura. Necessità? Indispensabilità! Bambini reporter, inviati, corrispondenti: meravigliosi resocontatori di quello che sta succedendo nel mondo, fuori la porta di casa e dall’altra parte del globo, fedelissimi osservatori e acuti commentatori.
Bambini giornalisti. Solo loro possono raccontare il mondo.
Per salvarlo.
Noi, exgiornalisti e giornalisti, vecchi, mezzaetà, pseudogiovani, giovanivecchi, giovanissimivendutiperchéfiglidipapà o perchédebitoridipadrinipoliticie/omafiosi, possiamo e anche bene, in certi casi, e anche benissimo, e forse anche meglio dei bambini, raccontare il mondo, vicino o lontano.
Ma per distruggerlo o al massimo lasciarlo così com’è. = pessimo.
Grazie a chi mi ha fatto compagnia fino a qui. Grazie veramente di cuore.
E anche a chi si è fermato prima.
Laura Sposato
Calvanico, giovedì 24 novembre 2011
mi ricordo di calvanico, harmin la elevò all’empireo paesologico in un suo resoconto, e io quindi andai a visitarla qualche giorno dopo. e mi viene in mente ora, nel salernitano, collianello, sulla cui sommità c’è una terrazza con delle panchine di marmo, su cui farsi venire i pensieri più cristallini di cui si è capaci. ottimo luogo in cui convenire per due che hanno litigato. in un luogo così può solo scoppiare la pace
Laura a proposito della tua chiusura, ti consiglio di leggere e/o ri/leggere IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI di Elsa Morante, Edizioni Einaudi.
Spero continuerai a intervenire sui blog e/o nei nostri incontri reali, meno frigidi rispetto alla rete.