Manifesto del Terzo paesaggio

Metto qui una recensione del libro di Gilles Clément “Manifesto del terzo paesaggio”  (Quodlibet ed.). E’ un piccolo libro che apre delle riflessioni molto interessanti sul tema del “margine”, del “residuo”, per un idea del paesaggio, dei paesaggi capace di destabilizzare politicamente l’approccio con il mondo.  (Antonio D’Agostino)

Non è il paesaggio montuoso e interrogativo di Musil, né il formicaio metropolitano di Bret Easton Ellis: è il ciglio della strada. Non sono i ricchi giardini goethiani né i deserti di Coetzee: sono i bordi dei campi, quelli dove cresce un’erba strana, senza nome. Non è la città, né la campagna: è un’aiuola dismessa. Non è l’infinito, né il finito: è l’indefinito. Non è la destra, ma nemmeno la sinistra: è l’indecisione. E’ il Terzo paesaggio, chiave di lettura della contemporaneità, occhio attento sul mondo, manifesto apolitico ma rivoluzionario: è il libretto di Gilles Clément, ingegnere paesaggista per professione, “giardiniere” per autodefinizione, filosofo per forza di cose. Tradotto per la prima volta in Italia dalla Quodlibet, casa editrice raffinata e con il gusto del paradosso, e curato da Filippo De Pieri, le 64 pagine del “Manifesto del Terzo paesaggio” sono una spada (o una vanga?) che può trafiggere più di una coscienza urbana. Certamente offre una lettura alternativa agli ambientalisti. Paesaggista tra i più noti e influenti d’Europa, docente all’École Nationale Supérieure du Paysage di Versailles, tra gli ideatori del parco André Citroën e scrittore tra i più eclettici, Gilles Clément pubblica l’anno scorso questo libretto in Francia. Sessantaquattro pagine per dire che il paesaggio è molto più di quello che vediamo, che ci sono delle zone che sfuggono al nostro controllo e che, pur avendo uno straordinario potenziale politico, meritano rispetto per la loro verginità e per la loro disposizione naturale all’indecisione. Che il ciglio della strada, l’orlo dei campi, una torbiera o un piccolo orto non più coltivato, un piazzale invaso dalle erbacce o il margine di un’area industriale, laddove non ci sia (o non ci sia più) l’intervento dell’uomo, sono “residui” dove trova rifugio la diversità. E dove, in potenza, potrebbero nascere cose nuove, case nuove, idee nuove, forze nuove. Potrebbero, ma non è detto che nascano. Ecco l’impatto di questo volumetto dalla copertina bianca e il titolo quasi invisibile: è un elogio all’incompiuto, all’imperfetto, all’indefinito, al non espresso. Un elogio a quella biodiversità che ha in sé i germi di un cambiamento ma che potrebbe anche non cambiare. Non è un’analisi della marginalità dalla Bauman. E nemmeno una corazzata eco-ambientalista alla Vandana Shiva.


E’ piuttosto un elogio dell’incolto, una lode all’incompiuto. Ma fa incazzare sia a destra che a sinistra: sì perché Clément non dice che tutto va lasciato così com’è. Nelle sue teorie sui giardini, raccomanda un intervento minimo, un tentativo di addomesticare dolcemente la verginità delle aree. Così si infuriano sia gli ambientalisti che gli anti-ecologisti. Ma è il destino di chi sceglie di stare au milieu. Di chi ha deciso che non tutto si può dire, non tutto si può definire, categorizzare e che lo stato “in potenza” merita attenzione, rispetto, quasi ammirazione. E’ un’incarnazione di un “progetto incompiuto” alla Habermas, una modernità mancata. E’ lo sguardo sull’irrisolto come risorsa per uno sviluppo armonico del mondo. Clément rivendica l’identità del Terzo paesaggio come struttura a sé. E di una diversità che assume tante forme. A seconda dell’area di cui parliamo infatti avremo una certa diversità. Ci sono i sistemi originari, come le lande, in cui si insedieranno piante e animali. In città, troverà spazio la diversità umana, collocandosi a seconda delle zone lasciate libere. Nel Giardino in movimento, Clément scrive: “Ciò che l’incolto ci dice, riassume tutte le problematiche del giardino e del paesaggio: il movimento. Ignorare questo movimento, significa non solo considerare la pianta come un oggetto finito, ma anche isolarla storicamente e biologicamente dal contesto che la fa esistere. A me piace l’incolto perché esso non si riferisce a niente che possa perire”. Come leggere questo libro? L’autore suggerisce: “Terzo paesaggio rinvia a Terzo stato (e non a Terzo mondo). Uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere. Fa riferimento al pamphlet di Seyès del 1798: Cos’è il Terzo stato? Tutto. Cos’ha fatto finora? Niente. Cosa aspira a diventare? Qualcosa”.

(recensione trovata in rete con firma Claudia)



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3 pensieri riguardo “Manifesto del Terzo paesaggio

  1. E’ una buona lettura. Mi sta ripassando sotto le mani proprio in questi giorni mentre finisco di tessere la nuova edizione de “Le bocche di legno”. Però secondo me c’è un errore di fondo. Nel ragionamento di Clément. Accorpare gli ambienti delle riserve naturali al gerbido che rinasce in un campo dismesso, o in un margine. E’ un errore perchè anche se non si vede l’uomo ha agito in una riserva, ci sembra tutta natura allo stato “brado”, il trionfo della condizione naturale, ma non è così. Ci sarebbe da entrare nel merito delle biodiversità e del grado di controllo che l’uomo effettua su questi territori, anche per renderli visitabili, e penso ad esempio all’abbattimento ciclico di alberi per evitare incidenti e molte altre situazioni analoghe. I parchi portano in sé un certo grado di antropizzazione della natura e del paesaggio. Così come quando si va in visita in un orto botanico, che per noi è la natura ma in verità è la natura secondo l’architettura di una o più menti, in realtà siamo di fronte alla natura più umanizzata possibile.
    A parte questo distinguo, che nel “Manifesto del Terzo paesaggio” manca, la sua idea è molto interessante.

    1. “Accorpare gli ambienti delle riserve naturali al gerbido che rinasce in un campo dismesso…”
      Il termine gerbido in piemontese indica un terreno ventoso ed arido, inadatto alla coltivazione dei campi.
      Benvenuto a te Homo radix e alle tue parole

  2. Metto le mani avanti. “Terzo paesaggio rinvia al terzo agnello (e non al Terzo sud). Uno spazio provvisorio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere. Cos’è il terzo agnello? Provvisoriamente tutto. Cos’ha fatto finora? Niente. Cosa aspira a diventare? Qualcosa”.

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