[Sono trascorsi venti anni dalla morte di Valentino Bompiani (Ascoli Piceno, 27 settembre 1898 – Milano, 23 febbraio 1992), editore, drammaturgo e scrittore italiano che nel 1929 ha fondato la casa editrice che porta il suo nome. Le righe che seguono sono state pubblicate sul quotidiano La stampa il 5 Marzo 1982], riprese da Chiara Valerio su Nazione Indiana il 23 febbraio 2012, e da me qui rilanciate, perché in tono con quanto andiamo elaborando a proposito di paesologia decrescita lentezza del vivere (Salvatore D’Angelo)
di Valentino Bompiani
Oh, se tu sapessi, se tu sapessi, la terra eccessiva- mente vecchia e cosí giovane,
il gusto amaro e dolce, il gusto delizioso che ha la vita cosí breve dell’uomo.
A. Gide, I nutrimenti terrestri
Passati gli ottant’anni, ti dicono: “Come li porti bene, sembri un giovanotto”. Parole dolci per chi le dice ma a chi le ascolta aprono la voragine del tempo in cui si affonda come nelle sabbie mobili. La vecchiaia avanza al buio col passo felpato dei sintomi, squadre di guastatori addestrati che aprono l’inattesa, inaccettabile e crescente somiglianza con gli estranei. Su una fitta ai reni o per l’udito ridotto, anche il nemico diventa parente. Lo spazio e le cose si riducono: la vecchiaia è zingaresca, vive di elemosine.
Poeti, scrittori e filosofi che hanno parlato della aborrita vecchiaia, i piú non l’hanno mai raggiunta; parlavano dunque della vecchiaia altrui, che è tutt’altra cosa. Niente offende piú dei coetanei tossicolosi, che perdono tempo sulle panchine. Impazienti, vogliono essere serviti per primi, mangiano guardando di sot- tecchi il piatto degli altri, tirano fuori continuamente l’orologio, un conto alla rovescia. Per la strada, a un incrocio, alzano il braccio col bastone anche quando non lo hanno, stolida affermazione di una capacità perduta. Scambiano per conquistata saggezza la paura e tendono all’ovvio, che li uccide.
Nelle ore vuote telefonano. A chi? A chi li precede di un anno o due, che è la dimensione del possibile. Rifiutano i segni della decadenza ma non della peggiore di tutte che è la speranza delle circostanze, le quali nelle mani dei vecchi diventano gocce di mercurio nel piatto, si uniscono, si dividono o si ingrossano, ignorandoli. Neppure i giovani possono dominarle, ma credono di poterlo fare.
Capita di sentirsi domandare: “Se potessi tornare indietro, che cosa faresti di piú o di meno?” Non vorrei tornare indietro: mi mancherebbe la sorpresa delle circostanze e sarei saggio senza recuperi. La vecchiaia è la scoperta del provvisorio quale Provvidenza. L’unità di misura è cambiata: una malattia non è quello che è, ma quello che non è e la speranza ha sempre il segno del meno. La provvisorietà della vita esce dal catechismo per entrare in casa, accanto al letto. Quando il medico amico batte sulla spalla brontolando: “Dài ogni tanto un’occhiata all’anagrafe”, gli rispondo che no, a invecchiare si invecchia e dài e dài, va a finire male. Bisogna resistere alla tentazione delle premure e dei privilegi. Ricordo Montale, a Firenze, durante la guerra; non aveva cinquant’anni e faceva il vecchio col plaid sulle ginocchia e i passettini. Si proteggeva con “l’antichità” dalle bombe.
Ero giovane quando ho pubblicato quarant’anni fa Monsieur Teste di Paul Valéry, ma soltanto adesso mi pare di capire alcune parole che allora trascrissi in un quadernetto: “Quando si è giovani ci si scopre, si scopre lentamente lo spazio del proprio corpo, si tocca il proprio tallone, si prende il proprio piede destro con la mano sinistra e si tiene il piede freddo nella mano calda. Ora mi conosco a memoria, anche il cuore”. Il corpo, la materia si fanno fatiscenti e dietro quelle ombre c’è il vuoto, un buco nella terra per qualcosa che domani germinerà, nascosta ai nostri occhi pieni di ieri.
Mia sorella di un paio d’anni piú anziana di me, un giorno diceva: “La vita è strana”. Subito qualcuno ha parlato d’altro, secondo l’idea che la vecchiaia, di memoria corta, va distratta, come se fosse un cedimento sconveniente da coprire col falso stupore di un’infanzia ritrovata: “È come una bambina”. Senza sorridere lei ha ripreso: “Nella vecchiaia bisogna scegliere: o ci si difende con l’egoismo o ci si affida fino in fondo all’altruismo, che tutti hanno avuto almeno in qualche momento”. Su queste parole mormorate in confessione, l’aria si è aggrumata nel silenzio. Poi è capitato di trovare sul suo scrittoio un elenco, come l’appunto per un ricevimento ma con nomi disparati: c’erano le amiche ma anche il droghiere, il fioraio all’angolo, l’ortolano. “Che cos’è?”, le abbiamo domandato. “Ah,” dice, “facevo la lista di quelli che verrebbero al mio funerale”. Ha scosso il capo: “Pochi, però…”.
Da vecchi si diventa invisibili: in una sala d’aspetto, tutti in fila, entra una ragazza che cerca qualcuno. Fa il giro con gli occhi e quando arriva a te, ti salta come un paracarro. La vecchiaia comincia allora. Si entra, già da allora, in quella azienda a orario continuato, qual è il calendario; il risveglio al mattino diventa uno scarto metafisico; il movimento nella strada si aggiunge come l’avvertimento che per gli altriil tempo è scandito dagli orari.
Bisogna, per prima cosa, mettere in sospetto le proprie opinioni, comprese quelle piú radicate, per rendere disponibile qualche casella del cervello. È faticoso perché i punti di realtà si vanno rarefacendo e le opinioni rap- presentano l’ultima parvenza della verità. Come a guardare controluce il negativo di una vecchia fotografia: quel giorno in cui facevo, dicevo, guardavo… Il bianco e nero invertiti stravolgono la realtà, che si allontana. La vecchiaia è la scoperta del piccolo quale dimensione sovrumana. Chi pensi alla fortuna o alla Provvidenza, sempre s’inchina alla vita che domani farà a meno di lui. Non è un pensiero sconsolato, ma di conforto: la memoria, estrema forma di sopravvivenza.
Un uomo di ottant’anni, malato di cancro, senza forze per stare in piedi, dice: “Non è che io chieda molto: stare su un terrazzino anche cosí a guardare il mare”. Moriva il giorno dopo. Perché non gli è stato dato un giorno in piú? Possibile che non ci sia una parola per ottenerlo? Il meccanismo inesorabile della natura sgomenta piú dei fatti che determina.
Qualche tempo fa Cesare Zavattini mi scriveva: “… si muore, come tu dici per il cane, sulla tomba di qualche cosa di inspiegabile. In effetti non siamo in grado di spiegare niente. Ma solo di rappresentare il nostro limite. Non basta piú. E allora si cerca, si cerca, e me ne sarei già andato se non fossi sicuro che bisogna portare a compimento l’incompiuto, a costo di voltarsi indietro (come doveva essere bella Euridice), mi hai fatto sentire inesorabilmente l’attuale situazione del pensiero – perché non cambiare il pensiero, essergli meno fedeli? L’aria è piena di guaiti, di silenzi, le parole sole non contano piú niente, derivanti tutte da un pensiero che continuo a dire che non c’è…”.
Il deserto della vecchiaia va attraversato con gli occhi riarsi d’amore. Bastano, perché vedono per l’ultima volta e tutto diventa sacro. Che la fine cominci dal cervello. Tre secoli fa il mistico svedese Swedenborg scriveva, anzi informava “ex auditis et visis” che nell’al di là prima si perde la memoria, poi i desideri fino a che l’occhio fisso non vede che la luce di Dio.
Che sia questo il sorriso dei morti?