L’immagine del mondo è solo un gioco d’ombra

L’immagine del mondo è solo un gioco d’ombra
Dalla. caverna di Platone all’astronomia, dalla filosofia all’arte: il sapere dell’Occidente ha un debito con le ombre

di franco farinelli

FRANCO FARINELLI
Forse è un po’ eccessivo, ammette l’autore, sostenere che tutta la filosofia deriva dalla riflessione su quei giochi d’ombra che sono le fasi della luna e le eclissi, concludere insomma che la filosofia sia il semplice prolungamento delle prime mosse della conoscenza astronomica (posizione comunque non più peregrina di quella che ha autorevolmente visto nel suo sviluppo il semplice commento ad un paio di affermazioni di Platone). Ma senza dubbio il geometra antico è una mente che vede dappertutto triangoli perché il triangolo è la figura dell’ombra. Lo gnomone, ovvero lo stilo piantato perpendicolarmente su di una superficie orizzontale, forma con la sua ombra (è tornato a spiegare di recente Paolo Zellini, Gnomon, Milano, Adelphi, 1999) una figura a squadra che ha finito con il rappresentare non soltanto il momento iniziale ma la chiave stessa della concezione del numero e della misura in Occidente. E tutto il nostro rapporto con il tempo e con lo spazio ne risulta determinato, specie in epoca moderna. Prima che, con l’invenzione del telescopio, l’ombra diventi nel Seicento il mezzo delle grandi scoperte astronomiche, essa presiederebbe, secondo Casati all’origine dell’invenzione della prospettiva pittorica, vale a dire della potentissima e totalitaria maniera con cui la modernità ha percepito, rappresentato e costruito il mondo. E questo non grazie a complicate riflessioni teoriche sui metodi di proiezione ma semplicemente perché l’ombra si offriva come un esempio per così dire naturale di immagine prospettica, come l’esempio più a buon mercato di proiezione, garantito nella sua precisione dal funzionamento stesso del mondo.
Come tutti i libri dotati di senso, perché destinati a produrre altri libri, il libro si arresta proprio qui, sul più bello, dopo aver fatto notare che “ogni ombra è uno scienziato” perché continuamente, instancabilmente “costruisce un modello in due dimensioni di una realtà corporea”, cioè tridimensionale. Ovvero detto più puntualmente: essa costruisce un modello del mondo caratterizzato da assenza di dettagli interni, localizzazione su di una superficie, bidimensionalità. Per comprendere cosa tutto questo voglia davvero dire è necessario mobilitare figure cui Casati non ricorre, ma che con fa storia dell’ombra occidentale risultano tradizionalmente ed archetipicamente implicate. Il cinico Diogene, ad esempio, il grande nemico dell’ombra. Oppure basta continuare a leggere g1i stessi libri di cui si serve l’autore come il principale dialogo politico di Platone.
Diogene è il grande nemico dell’ombra non soltanto perché prega il grande Alessandro di non fargliene, ma perché in pieno giorno va in cerca dell’uomo con la lanterna, in maniera tale da toglierlela. All’inizio degli anni Ottanta, in un’opera da noi passata quasi sotto assoluto silenzio ma dì grande risonanza europea, “Critica della Ragione Cinica”, Peter Sloterdiik ha fornito di Diogene un’interpretazione profonda e suggestíva. Diogene non è soltanto il filosofo che rifiuta ogni dipendenza nei confronti dell’uomo di potere, ma è anche colui che, come filosofo della vita, non riconosce su quest’ultima il potere di nessuna teoria e, depositario di una ragione viva, rifiuta l’assurdità di quel che si presenta come oggettivo dal punto dì vista sociale perché intende salvare la propria identità esistenziale e cosmica. Egli rivendica insomma un altro principio di realtà, basato sull’incarnazione diretta ed immediata, costruito dunque sul rifiuto di quel fondamento di ogni irrazionalità collettiva e dell’agire collettivo che è la rappresentazione. Di cui evidentemente l’ombra, oscura e inquietante controfigura del soggetto, è la prima espressione e perciò la matrice.
E di che tipo di rappresentazione in ultima analisi si tratti viene adombrato proprio nelle ultime parole de “La Repubblica”, il dialogo di Platone dall’inizio del quale – dal mito della caverna – il libro di Casati prende le mosse. Vi si narra che dopo la morte le anime giungono alla fine, sotto un caldo soffocante e terribile, nella pianura del Lete, in cui gli alberi, che pure vi sono, non danno ombra. Di qui si accampano sulla riva del fiume Ameles, la cui acqua non può essere contenuta da nessun vaso. Ma che razza dì paese è mai questo dove gli alberi non fanno ombra e nessun recipiente è in grado di attingere l’acqua dei fiumi? Ancora fino a qualche anno fa chi nasceva in Magna Grecia apprendeva da piccolo l’indovinello: è il paese che esiste soltanto sulla carta geografica. E’ questo dunque l’autentico paese delle ombre, cui le ombre conducono e al quale introducono.
E la loro funzione si riassume, alla fìne dei conti, nell’equivalenza – che soltanto esse evidentemente permettono di fondare – tra mondo e immagine del mondo. La stessa che per Heidegger fonda la modernità del mondo stesso. Cioè la sua autentica riduzione all’Occidente.

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