di fabio donalisio
(camoglieres)
intuisci le moli di fatica per terrazzare
l’orrido, il secco tra i tagli delle pietre – le gerle
di terra a spalla sotto il crollo del vischio
bubboni di processionaria in letargo
ultima incarnazione della peste
che succhia per dolore, ma senza uccidere
sotto il sole scemato dalle creste
o la neve inammissibile
se cambia il rumore è per qualcosa
in meno, si capisce – l’asfalto sotto il muschio
della vita ordinaria, dicevi, ma il sentiero
del crinale, per quanto lo si prenda in costa
è un’idea, al massimo una proposta
l’istigazione di cadere
schiodare i chiodi dalle travi crollate
le assi seccate, le rocce scenario e mattone
di case oscenamente smesse all’abitare
oppure rese alla povertà possibile, alla
vanità di bene rifugio
solo lievemente tassato
qui a colpire duro è il tempo – il primo
che se n’è andato per la via ferrata –
stupefatto dal vuoto minerale della vetta
scomposto dalla fretta negato
alla morte e alla discesa
(mèl)
ah i mort i mort i sun pa pi vëngù
boudrìe
è come se non ci fossero morti, pensi
sconcertato e distratto guardando il recinto
di tombe dal ponte levatoio lasciato
sghembo dai profanatori, forse dagli
ultimi addetti alla manutenzione
del secolo breve
hai forzato il cancello – quello dell’uomo
e, dentro, fuggi l’occhio della mezza
montagna che sovrasta a stento
spelata dal sole freddo, soltanto capace
a scomporsi sui prismi dei tralicci:
accecare, l’ultima missione, oltre il tempo
di augere e mungere
resta il campo di morte senza i vivi
e senza i corpi – l’avvocato freme di passi
vuole il Viso e il mito dietro i versi
e tu, pure
aggiungere, colere, un altro laterizio ancora
alla vostra peculiare via della croce
vedete la piccola balma, ridicola e fiera
e dentro la foto e la faccia di un matto
come altri, semplicemente più vicino
alla foce, al colare della voce
poi c’è la paura, la macchina e i tornanti
che svuotano la pendenza
di tornare giù
(saravàl)
l’approccio è quello in limine
ma il bosco ti spoglia ti fa cadere
e poi scrocchiare ti mischia un poco
con la terra pianta qualche spina
di riccio nelle suole mentre
il profumo di umido duole nel naso
e il fuoco sembra non potersi
dare mai
alle baite rovinose dai del lei
come a cose che non conosci
ti lasciano solo sulla scena di un crimine
preposto e sempre impunito
e anche se qualche uomo
ancora c’è, non sarai certo tu
chi lo vede, non più dell’orso
o del lupo – negli ingrati specchi
sei sempre quel che non ha
sguardo stordito dal regalo
dello spazio, dalla pianura
condizione e regola di ogni salita
di tutti i ci vediamo di là
(suniglia)
è campagna meccanizzata, qui
ma sembrano vestigia di un inverno
da cui non nasce niente
(pure se del freddo c’è solo la scia)
il sole cala veloce alle spalle e l’ombra
si fa mantella, verso gli aironi cinerei
(che la cenere è fertile ma soffoca)
e il pino solo e lungo
la filosofia gira intorno al cerchio, mi oppongo,
è necessità della menzogna
di dire ancora dopo la fine
stemperare la morte nel di nuovo
nel diverso
l’acqua piena di cose intanto si strozza
sotto la chiusa, unica voce, ma comunque
passa, perdendosi nel sotto del suolo
in uno dei luoghi sacri
del buio, perchè c’è sempre
qualcosa che non torna
che saluta o forse manco
poi va via, in disparte o in forma
organizzata
(l’aereoplano, quello grande, atterra
goffo dalla romania, sulle piste
corte a uno sputo da casa mia)
(savigliano, in espansione)
in battaglia o in vano pensi magari canti
mentre il balcone alpino si frastaglia
ancora e ancora chiedi cose
a ciò che era piano prima della violenza
rinunciando in faccia all’eterno
a farti una ragione di quel profilo
monito d’inverno e di assenza
scalfito, forse limato ma corrotto
mai
e la gente incarnata in persone ti sospetta
di sguardo illecito, di intrusione
in anestesia privata, in illusioni
non tue – prima irritato poi ostile
lo spazzare della vecchia sul terrazzo gelido
alzate le mani di chi da sempre,
dalla vita, gratta ruggine e aspetta
qualcosa
la voce del telefono magari, a far la guerra
preventiva mentre constati bubboni
e nuove tendenze dell’edilizia abitativa,
la tetra scienza che dà all’uomo il letto
e quel che, sempre, ne consegue
una qualche forma di stufa accesa
contro la stagione che si perde
apprendi nomi di scrittori, eccessivi e desolati
inadatti a dirsi tra loro
sulla segnaletica immobile,
appesa come forca nel catrame nero
e nuovo, i tombini fuori quota
il tosaerba robotico nel prato astratto del signore
si muove da solo
(tetti roccia)
le case sono truciolate qui, un eccesso
di ruderi a ricordare che c’è sempre
qualcuno che non se lo merita
il passo felpato dell’abbandono
o il dolore di esserci, basso o alto che sia
credendo o scherzando soli
o crudamente accompagnati
e non importa se anche gli uomini – quelli
della recessione, eroi eponimi della crisi
leccano le briciole sotto
il tavolo del progresso, nel bidone di merda
della porcilaia
basta il burbero di questi mattoni lasciati
liberi di soffrire a fornir loro se non redenzione
almeno le attenuanti generiche
tipo che la roccia è dura e ogni tetto
ha la sua falla, che la terra disegnata
dagli aratri è ipso facto una balla
gleba astratta e arida in cui la casa
è atollo, boa il pilone con l’ennesima madonna
regina della ghiaia