DI ANGELO MASTRANDREA
La prima volta che Montano Antilia finì su un giornale il calendario
segnava il 5 luglio 1828. Non avrà grandi motivi per comparirvi nemmeno in
seguito, il piccolo comune del basso Cilento che all’epoca dei fatti aveva
lo stesso numero di abitanti di oggi: poco più di duemila allora,
altrettanti nel momento in cui stiamo scrivendo. In quell’estate del 1828,
però, Montano Antilia rischiò seriamente di passare alla storia, se solo
gli avvenimenti avessero preso una piega diversa. Si potrà comprendere
perciò con quale interesse, in un luogo in cui i lutti, le nascite e
persino il saldo tra emigranti che vanno e coloro che tornano si
compensano così perfettamente, i cittadini abbiano ascoltato dalla bocca
di un esperto di faccende cilentane come Giuseppe Galzerano, qualche
giorno fa, rievocare nomi e cognomi dei protagonisti degli avvenimenti del
1828, ciascuno sperando di ritrovarvi un suo antenato o un gesto che
riconducesse alla propria famiglia.
Nelle “notizie interne” del Giornale del Regno delle due Sicilie del 5
luglio di quell’anno un anonimo cronista di regime scriveva: “Un’altra
importante operazione è stata pure eseguita nei giorni ultimi di luglio,
egualmente dovuta alle misure energiche dell’Ispettor Comandante la
Gendarmeria Maresciallo del Carretto, ed a quella celerità di operare che
gli fa tanto onore. Erasi da lui risaputo che molti oggetti preziosi,
involati nel saccheggiamento di San Giovanni a Piro dalla rapace masnada
di rivoltosi, che sulla fine di giugno recò tante molestie e danni a parte
del Distretto di Vallo, giacevansi occultati presso un tal D. Pietro
Bianchi del comune di Montano, uno dei più aderenti alla Masnada medesima;
e quindi in conseguenza degli espediti provvedimenti del lodato
Maresciallo, preso ed arrestato D. Pietro, si venne a conoscere che colla
costui intelligenza e cooperazione gli oggetti stessi racchiusi entro un
barile eransi da que’ facinorosi nel loro passaggio per Montano sepolti
nel terreno d’un giardino di D. Vincenzo Galietti, degno nipote di esso D.
Pietro. Infatti fu ivi dissotterrato quel barile, ed in esso si rinvennero
calici, paténe, ed altri sacri vasi ch’erano stati rubati da que’
sacrileghi con altri argenti ossiano posate, calamaj, bugìe, caffettiere
ed altre simili cose”.
Nulla scriveva, l’anonimo cronista di regime, di tutto quello che era
accaduto a contorno dell’episodio raccontato, e che ad attento occhio
giornalistico avrebbe dovuto costituire evento ben più memorabile delle
posate saccheggiate da una banda di presunti malfattori e interrate nel
giardino di una persona del luogo.
Il cippo restaurato
Oggi bisogna scarpinare da Montano fin su a piano Guglielmo, un altopiano
da cui si parte per dare la scalata al monte Gelbison, per provare a
respirare l’atmosfera che si creò quassù la notte del 27 giugno del 1828,
otto giorni prima dell’articolo che comparirà sul Giornale del Regno delle
Due Sicilie. Due secoli dopo è stato finalmente rimesso al suo posto,
grazie all’impegno di un’associazione locale e al decisivo contributo
economico del medico condotto, il cippo che, in occasione del primo
centenario di quelle giornate, nel 1929 in pieno fascismo, fu sistemato
perché i rari viandanti fossero messi a conoscenza di cosa era accaduto da
quelle parti cent’anni prima. Vi si può leggere: “Nell’ora vigilata dagli
eroi la notte del 27 giugno 1828 questo punto segnò il primo passo della
rivolta per la libertà”.
Il Proclama
Ma cosa accadde quella notte tra i monti del Cilento? Per l’occasione era
sbarcato a Marina di Camerota un palermitano, Arcangelo Dagnino. L’8
giugno era arrivato anche Antonio Galotti, un pugliese che si era sposato
nel Cilento e che dopo la morte della moglie era rimasto in quelle terre a
seminare la buona pianta dell’insurrezione. Galotti era stato convocato a
Montano grazie ai contatti con il canonico Antonio Maria De Luca, punto di
riferimento del ramo cilentano dei Filadelfi, società segreta nata in
Francia che si proponeva di esportare i principi della libertà,
dell’eguaglianza e della fratellanza. Si presentarono anche i tre,
pluriricercati, fratelli Capozzoli, alla testa di una banda accusata di
vari misfatti tra cui l’uccisione del sindaco di Monteforte Cilento,
sospettato da loro di essersi impadronito della cassa dell’organizzazione
che doveva servire per assistere i familiari dei detenuti e per gli
spostamenti.
Non c’era Pietro Bianchi, padrone di casa in quanto la riunione si
svolgeva sui terreni di famiglia, e al suo posto faceva bella mostra di sé
sua moglie Alessandrina Tambasco, all’epoca trentaduenne, bellissima (così
la descriverà Domenico Capozzoli dal carcere nel 1831). L’accompagnavano
sua madre, una donna originaria della Basilicata, e le due sorelle
Nicolina e Michelina. C’era infine gente arrivata da tutto il Cilento e
perfino un nevaiolo che offrì dei magnifici sorbetti con la neve raccolta
in montagna e conservata in una fossa per non farla sciogliere.
Dagnino aveva portato con sé un calamaio e, al termine del consesso, vergò
un Proclama in cui si chiedeva l’introduzione della Costituzione francese
e la riduzione del prezzo del sale, bene di prima necessità per conservare
gli alimenti in tempi in cui il frigorifero era ben lungi dall’essere
ideato. Non che fosse filato tutto liscio, come in ogni assemblea
pre-rivoluzionaria che si riguardi. Alla prima stesura Domenico Capozzoli
e Giuseppe Ferrara, un rivoltoso discendente da una famiglia di comunisti,
si misero di traverso perché il Proclama appariva loro troppo liberale e
non era presente la parola “popolo”. Ci fu anche una discussione sul che
fare nel caso l’insurrezione fosse andata a buon fine, e alcuni visionari
si sbilanciarono affermando che, in caso di vittoria, la monarchia sarebbe
stata abolita. Fu così che da Montano Antilia quella notte fu lanciato
l’attacco al cuore dello Stato borbonico.
A dire la verità, non mancò chi ebbe da obiettare sull’opportunità della
rivolta contro il regime. Lo stesso Ferrara nutriva qualche perplessità, e
forse non aveva tutti i torti, perché si era nel periodo della mietitura e
i contadini erano tutti al lavoro nei campi, molti addirittura lontano dal
paese. Chi sarebbe insorto se non avessero trovato nessuno lungo la loro
marcia? Non saranno gli unici nella storia, da queste parti, a pensare la
rivoluzione in giugno, quando la natura si risveglia dal letargo invernale
e con essa gli uomini e le loro passioni: Carlo Pisacane, senza far tesoro
della lezione di trent’anni prima, sarà ucciso il 2 luglio del 1857 a
Sanza dalla Guardia urbana Sabino Laveglia mentre i contadini erano a
mietere il grano nelle Puglie e le donne in chiesa per la messa patronale.
Anche un altro partecipante all’assemblea notturna, Nicola Gammarano,
sostenne che non era il caso di promuovere una rivolta, ma fu contestato
da Galotti e dallo stesso Ferrara, che nutriva sì dei dubbi ma sulla
tempistica e non sulla necessità dell’insurrezione armata.
La marcia degli insorti
Alla fine, trovato l’accordo sul testo, i cospiratori decisero di andare a
leggere il Proclama in pubblico a Palinuro, sul mare, e così l’avventura
dei rivoltosi cilentani poté finalmente avere inizio. Quando ripassarono
per Montano Antilia, la sera del 30, trovarono una piacevole sorpresa:
dalle finestre di diverse case facevano bella mostra le bandiere bianche
degli insorti. Analoga accoglienza fu riservata loro a Licusati, Centola,
Marina di Camerota. Non così a San Giovanni a Piro, dove la popolazione
non si unì, anzi fece resistenza e alcune abitazioni, tra cui quella del
sindaco, vennero saccheggiate. E’ a questo episodio che fa riferimento il
Giornale delle Due Sicilie nell’articolo del 5 luglio, trattando i
rivoltosi anti-borbonici come una qualsiasi banda di malfattori.
Quello che il giornale non racconta è cosa fosse avvenuto nel frattempo e
cos’altro si stesse preparando. Per evitare di ripetere la disavventura di
San Giovanni a Piro, i rivoltosi avevano fatto precedere l’arrivo nel
comune di Bosco da una lettera indirizzata al sindaco. Scrivevano i
rivoltosi, che si firmavano “i nazionali”: “Sig. Sindaco, a vista della
presente fate subito pronte cinquecento razioni per cinquecento nazionali
e siete avvertito di non fare appartare persona alcuna dal paese,
assicurandogli sotto la parola di veri spartani per la loro salvezza.
Avvicinatevi però voi con i galantuomini ed il parroco a ricevere la
bandiera della Costituzione di Francia, in caso poi che vi negate, vi
succederà sicuramente come in questo momento è accaduto al vicino indegno
paese di S. Giovanni”.
Questa volta non fu necessario ricorrere alla forza. I cittadini li
accolsero sventolando rami di ulivo e il pranzo ai cinquecento ribelli che
stavano attraversando il Cilento fu offerto con grande entusiasmo. I
malcapitati cittadini di Borgo pagheranno però molto cara quell’adesione
così entusiastica alla “rivolta dei Filadelfi”. La repressione, guidata da
un ex liberale passato armi e bagagli con i borboni, il Comandante
Francesco Saverio del Carretto, sarà durissima.
Il 7 luglio 1828, due giorni dopo l’articolo che abbiamo preso come punto
di riferimento temporale, Bosco fu dato alle fiamme e completamente
distrutto, e i terreni furono cosparsi di sale per far sì che non fossero
più fertili per le popolazioni locali. Il 28 luglio re Ferdinando II firmò
la soppressione definitiva del Comune. Il Regio decreto all’articolo 2
recitava: “Né essi né altri potranno ricostruire mai più le abitazioni che
formavano l’aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in
altro dell’antico suo tenimento”.
Centonovantasei maioliche dipinte da Josè Ortega, pittore amico di Picasso
ed esule antifranchista trasferitosi da queste parti perché, diceva, «sto
bene con voi, perché qui ho trovato un’angoscia ed una miseria che sono
quelle della mia gente, perché i colori sono quelli della mia terra,
perché la pelle dei braccianti è scura e secca, come quella dei contadini
spagnoli», ricordano oggi la distruzione all’ingresso del paese. Chi pagò
più duramente per la rivolta fallita fu la famiglia Bianchi, che aveva
ospitato a Piano Guglielmo la riunione in cui fu decisa l’insurrezione: la
bellissima Alessandrina Tambasco fu condannata a dieci anni di “ferri”,
vale a dire di carcere duro, che sconterà tutti senza riduzioni di pena,
perché nella notte della rivolta aveva cucito delle coccarde bianche che
gli insorti avevano indossato, un fratello sarà fucilato, la madre e le
sorelle anch’esse incarcerate. Il marito Pietro Bianchi morirà di stenti
in galera. I tre fratelli Capozzoli fuggirono in Francia prima, in Corsica
poi. Tornati in Cilento, saranno arrestati un anno dopo, assassinati e le
loro teste, conficcate in un palo, portate in giro tra i paesi del Cilento
perché la loro visione servisse da monito per chi avesse intenzione di
ribellarsi ancora. In tutti i paesi che i vincitori borbonici
attraversarono trionfanti la popolazione fu costretta a inginocchiarsi al
loro passaggio. A Montano Antilia non si inginocchiò nessuno. Fu questa la
“rivoluzione insubordinata” di Montano Antilia che il poeta-scrittore
lucano Rocco Scotellaro avrebbe voluto raccontare se la morte non lo
avesse colto ad appena 30 anni, il 15 dicembre del 1953.