i viaggi di eliana petrizzi

Oggi si va a fare una gita a Romagnano al Monte, poi a Buccino vecchia.
Romagnano: borgo diroccato più volte visto in cima alla montagna, tornando dalla Basilicata. Il paese che incontriamo è quello nuovo costruito dopo il terremoto. Nessuna indicazione per la zona vecchia. Qualche negozio, un bar, sulla destra molti prefabbricati in legno tutti uguali, simili ai ricoveri per lavoratori fuori sede di una cava o di una miniera. Chiedo informazioni a un vecchio seduto in piazza. Gli parlo, ma lui annuisce senza dire una parola, sorridendo da una distanza infinita. Più avanti, chiedo a un uomo che ci risponde con un forte accento barese e una confidenza rustica, come se fossimo parenti appena giunti in paese. Ci spiega la strada, che seguiamo, ma all’arrivo l’ingresso del borgo è chiuso da un cancello appena installato. Dietro, cumuli di macerie, rovi, finestre vuote, cani fermi. In alto, una gru e un paio di case nuove che sembrano cadaveri truccati in una bara aperta. Facciamo il giro da sotto: altro ingresso del paese, chiuso pure questo, da una catena con la scritta a pennarello “proprietà privata”. Sulla sinistra, un capanno per attrezzi agricoli che sembra abbandonato: un cartello ci avvisa “area video sorvegliata”. Oltre la catena, due cani che abbaiano, un pony legato al rimorchio arrugginito di una 128. Da qui si vedono meglio la gru e le due case nuove nate morte. Di nuovo verso la parte alta di Romagnano. Per strada incontriamo il tizio che ci ha dato l’informazione. Ci chiede se il borgo ci è piaciuto. Gli diciamo che era chiuso e che stiamo andando a visitare Buccino. Ma lui dice che adesso ci porta per una strada a piedi che non conosce nessuno, e che qui è più bello di Buccino. Giovanni ha 53 anni. Vestito come un lavoratore della forestale, i suoi abiti sanno di formaggio di capra e di terreno. Ha un lieve ritardo agli arti, ma ragiona sveglio ed è molto simpatico, col suo accento barese e la confidenza che ci fa sentire parenti. Gli chiedo che lavoro fa. Mi risponde “tutto quello che capita”, ma che il mestiere che gli viene meglio è il tipografo. Rifacciamo insieme la strada già percorsa. Ci fermiamo presso un terrazzo di cemento da cui si vede Romagnano vecchia dall’alto: una dentiera spezzata in bilico sulla roccia, su uno strapiombo di montagne e ulivi. A sinistra una ringhiera, e da qui un sentiero di rovi che si inoltra tra le case, quasi tutte cadute o pericolanti. Scatto foto ad una lumaca maestosa posata su un muro, al crollo silenzioso di qualche finestra aperta dentro stanze piene solo di detriti e della lana sciolta dei materassi. Ragnatele come palmi aperti. Poi i miei amici si spaventano per il percorso e chiedono di tornare indietro. Riaccompagnando Giovanni al centro, passiamo davanti a una costruzione nuova in marmo nero lucido, con più ingressi sormontati da tetti spioventi. “E’ il cimitero?”, chiedo. “No, è il Municipio”. Ci spiega che i prefabbricati in legno sono case-vacanza che il Comune fitta in estate a famiglie dell’hinterland napoletano, e che le due costruzioni nuove nel borgo vecchio sono “esperimenti pubblici della ricostruzione” che, con la scusa di testare edifici con tecnologie avanzate nei centri storici, ha intascato i soldi senza fare niente. Gli chiedo che si fa di bello in questi posti, e lui comincia a parlarmi di tutti i ristoranti dei dintorni, di come si mangia e di quanto si spende. Poi caffè al bar e saluti. Ci lascia il numero di cellulare; ci dice di avvisarlo la prossima volta: lui va dal sindaco, si fa lasciare le chiavi per aprire il cancello, così possiamo visitare il paese vecchio.
Il cielo è bianco, l’aria ha l’indolenza della primavera nei campi. In giro solo prati, ulivi, il turchese svampito dei monti, le pale eoliche ferme. Ogni tanto passa un trattore, o una macchina con un abitante del posto, che ci guarda stupito come se avesse visto un airone tra uno stormo di passeri. All’ingresso di Buccino c’è un cartello di legno con la scritta “Benvenuti nei paesi del buon vivere”. Oggi è il 25 Aprile e non c’è nessuno in giro, nemmeno in lontananza; solo silenzio lungo i tornanti che portano al centro. Arrivati in piazza, però, troviamo movimento. Pensiamo alle celebrazioni per la Liberazione, invece è un funerale, che si svolge però nel brusio della festa patronale, coi fedeli che aspettano il Santo che esce dalla Chiesa. Gente in abiti colorati, ragazzi che scherzano, le anziane affacciate ai balconi che chiacchierano con le vicine, il vigile in maniche corte che gioca a Ruzzle. Molti, venuti dai paesi vicini, parcheggiano le auto, camminano un poco mangiando un gelato, e poi passano il tempo svagati sulle panchine al sole. Dietro il carro funebre, un altro ancora vuoto aspetta il turno per il prossimo funerale, facendo un pigro giro dell’isolato, come gli aerei sopra le città quando la pista per l’atterraggio è occupata. Saliamo verso la parte vecchia del paese, che inizia con case che qualcuno sta cercando di ristrutturare con le solite pietre senza sale, o coi colori incerti di chi vuole voltare pagina. Anche qui nessuno in giro, a parte una vecchia vestita di nero, che cammina tenendo in braccio un cucciolo di pastore tedesco nella posizione di un figlio. Pergolati di viti giovani, le covate dei passeri, mosconi, piante grasse che colano dai balconi vuoti. Di porta in porta, un composto corteo di “Vendesi”, di quelli dove nessuno piange, perché il morto, vecchio, si è spento serenamente circondato dall’affetto dei suoi cari. Queste case non interessano a nessuno: lontane da ogni cosa, e troppo vicine tra loro. Se ti affacci dalla finestra di una puoi aprire quella di fronte. In basso, forre di muri bui, dove crescono solo pietre, erba e lumache.
Pranzo a “La Giara” in aperta campagna, consigliato dal vigile che giocava a Ruzzle. Un agriturismo vero: serviti solo i piatti del giorno, preparati coi frutti della terra coltivata intorno. Biologici l’olio e il vino. Portate abbondanti, 20 euro a testa. Dopo l’antipasto, la ragazza che ci serve dice “Per il primo aspettiamo anche gli altri?” Bella questa frase, come se gli altri fossero amici seduti allo stesso tavolo nella cucina di casa.
Poi visita al museo archeologico, grande, fresco, noi tre gli unici visitatori. La signora che ci stacca i biglietti ci fa dopo anche da guida. Anche qui, come in quasi tutti i musei, ciò che dura nel tempo ha sempre a che fare con la morte, poco con l’amore o con la vita.
Finita la visita, si fanno le 6. Il verde dei prati prende una dolcezza quasi dolorosa, il cielo fermo, il sole come una cataratta in alto tra le nuvole. Mentre andiamo verso la macchina, due anziane parlano tra loro. Una dice: “Ma mo’ tua nipote quanto tiene?” E l’altra: “18 mesi”. “18 mesi, già?! Come passa il tempo.”
In paesi come Romagnano e Buccino bisogna venire per capire proprio questo, che la vita è solo tempo che passa, acqua che scorre, che forse ogni tanto s’incaglia in una pietra, ma che se ne va quieta, sempre, lontano verso il mare.

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

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