Lettere settentrionali

di Sandro Abruzzese

Via Franco Arminio, poeta della clemenza, dell’orlo e dei paesi della bandiera bianca, avvelenato nel paese della cicuta.

Quando, poco tempo fa, ho scoperto grazie alla rete l’opera e il lavoro di Franco Arminio un moto di orgoglio mi ha portato a credere che un’altra Irpinia fosse possibile, insomma ho creduto alle sue parole e idee e al fatto che sarebbero state accolte dai miei conterranei come guida ad una consapevolezza di sé, ad un riscatto generazionale rispetto alle tante umiliazioni subite negli ultimi decenni dal territorio.

Da quanto il sud aspettava un nuovo intellettuale meridionale del calibro di Arminio non spetta a me dirlo e i riconoscimenti di livello nazionale sono sotto gli occhi di tutti, ma da operaio della letteratura mi è apparsa chiara l’enorme possibilità schiusa dalla sua presenza, il simbolo, l’esempio che costituisce il lavoro del poeta bisaccese: la prova che possiamo, anzi dobbiamo raccontarci per ciò che siamo, piuttosto che cercare di rappresentare altro da noi stessi, dobbiamo con umiltà riconoscere gli errori commessi, riportare sulle nostre lande quell’umanesimo capace di renderci autentici, ricostruire le comunità, riguadagnare la dignità persa negli abusi della politica, nel trauma dell’emigrazione, la capacità di ricostruire un futuro per i nostri figli nel cuore dell’appennino meridionale.

E’ in questo contesto che trovo fondamentale inserire l’operato di Arminio, ed ero convinto che avendo trovato le parole per raccontare la devastazione urbanistica e sociale della Campania successiva al sisma del 1980, la dolorosa emorragia dell’emigrazione e dello spopolamento delle nostre terre, avremmo di conseguenza trovato il coraggio per aprire una grande stagione di discussione, cambiamento, riflessione fattiva su noi stessi, il futuro, e l’amministrazione di ciò che rimane di noi.

Quello che invece ho trovato girando l’Irpinia in tutto il mese di agosto e parlando di questo scrittore con le persone più disparate è stata insofferenza, non curanza, giudizi sprezzanti e spesso ignoranza della sua opera e delle sue idee. Allora ho compreso maggiormente i riferimenti del poeta al “paese della cicuta”, e tutto ciò mi colpisce maggiormente in quanto vivendo e lavorando nel laborioso Veneto, trovo visioni capovolte della vita e metodi diametralmente opposti di stare al mondo in questa penisola.

Intendo dire che la società veneta riconosce tra i suoi valori fondanti il sacrificio e la laboriosità, in una parola il merito. In una realtà del genere scrittori come Arminio, se ce li avessero, costituirebbero un punto di riferimento per l’intera comunità. In Veneto non esistono l’insofferenza verso il successo e la presunzione che vedo oggi nella nostra Terra (una specie di neonichilismo fuori tempo massimo), e tali fattori hanno contribuito a farne negli ultimi decenni un punto di riferimento per l’intera nazione. Un popolo che si è costruito intorno alla grande religione laica del lavoro quale identità collettiva e valore condiviso, lo ha fatto a tal punto da smentire gli studi del sociologo Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ma questa è altra storia.

Qualsiasi tipo di cambiamento necessita di un adattamento culturale, e mai come oggi abbiamo avuto gli strumenti e le conoscenze per crescere, lavorare per far sì che i giovani italiani abbiano la possibilità di scegliere se andare via o risiedere e realizzarsi nel loro luogo di origine. Credo che la strada tracciata da Arminio nel definire un nuovo linguaggio comune per i paesi senza più voce, sia l’occasione per perseguire l’obiettivo di una nuova Italia interna,  di un Meridione fuori dalla sua atavica minorità, la via senza falsi piagnistei, e ricca di radicale consapevolezza di sé, al raggiungimento del progresso inteso secondo l’accezione  pasoliniana.

Quando la nostra classe dirigente si proporrà quale “tarlo psicotico” il miglioramento delle sorti del proprio territorio, la lotta contro lo spopolamento delle zone rurali e interne o estreme del Paese, torneranno utili le lucide e acute riflessioni dell’inventore della Paesologia. Purtroppo solo allora il suo sguardo utopico potrà svilupparsi quale sostituto e antitodo culturale al nulla attuale.

Ciò di cui si avverte la necessità è che fiorisca in tutte le case, nelle scuole, negli uffici pubblici o dietro le scrivanie dei banchieri e nelle stalle dei contadini, la possibilità di una nuova religione laica che spinga gli esseri umani verso grandi progetti condivisi, piuttosto che “morire una vita giorno dopo giorno”, sotto i colpi della tv satellitare o del tressette.

Solo quando i nostri concittadini non riusciranno a dormire la notte perché il sogno dei loro figli è di andare via dal luogo di nascita, quando anziani e giovani diserteranno il Bar per le sale civiche, per i Consigli Comunali, per le sedi di nuovi partiti che inneggino all’attenzione, più che alla vacua libertà dell’impotenza, avremo una stagione al passo con le parole del poeta irpino.

Cosa aspetta la provincia a distribuire le sue opere alle scuole di ogni ordine e grado? Cosa aspettano i suoi concittadini ad attribuirgli il ruolo che merita nel panorama culturale e sociale irpino e nazionale?

Ve lo dico io, in tanti aspettano, prima degli elogi di rito e di aggiornare la toponomastica cittadina, soltanto che tiri le cuoia, incarnando l’ennesima occasione perduta di questo meraviglioso Paese.

Sandro Supplentuccio Abruzzese

Sandroabruzzese78@gmail.com

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Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

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