Taccuino birmano

birmania-21

di Eliana Petrizzi

Premessa

Dopo aver viaggiato per gran parte dei Paesi più poveri del mondo, e soprattutto dopo questo mio ultimo viaggio in Birmania, confermo senza esitazioni il mio disgusto per l’uomo occidentale, me compresa. Non mi perderò in una mistica della povertà, patetica e del tutto fuori luogo. Con le persone incontrate non ho vissuto che per poco; non posso quindi sapere cosa hanno provato verso o contro di me. Ma di certo posso dire che ogni giorno, in ogni luogo, nelle condizioni più estreme, ho sempre incontrato grazia, pacatezza d’animo, educazione e pudore, nessuna diffidenza, furberia o prevaricazione, scarsissimo senso del possesso, cura per le cose, sana fiducia in tutto ciò che non si può fare né sapere. Considerando che nessun progresso e nessun sistema speculativo hanno mai risolto granché dei temi dell’esistenza che ci vedono inermi, a parità di risultato preferisco stare dalla parte di questa gente, per cui non esiste cammino più grande dei propri passi, niente che travalichi la curva del giorno; per cui ogni cosa si fa e si disfa con quello che è a portata di mano, con letizia per ciò che si è avuto, e nessun rancore per ciò che manca.

Tandwe, prima sera in albergo

Tutti persi a inseguire il punto Wi-Fi più attivo. Nessuno a passeggiare per i viali di questo giardino tropicale, dove passano lumache magrissime e scure. Nessuno dalla parte dei grilli, del mare a riva, del buio.

Cena in una capanna sulla spiaggia sempre vuota, inspiegabilmente, visti il cibo ottimo e la cortesia della famiglia che lo gestisce. Questo a causa della stupidità dei turisti, che seguono i comandi delle guide, o che semplicemente vanno dove trovano quelli come loro.

Abbiamo mangiato qui per tre sere. Per questo, Pa-Pa, 19 anni, che ci serve al tavolo, ci aspetta agitando le mani come piccoli ventagli. L’ultimo giorno le chiedo l’indirizzo, ma lei non capisce. Torna con un foglio su cui ha scritto il suo nome, la sua età, i nomi, l’età e i mestieri di tutta la sua famiglia: la madre, 48 anni, venditrice di frutta sulla spiaggia, il padre, 50, autista per la gente dei villaggi, i fratelli, 18 e 23, pescatori. Ci posa due conchiglie accanto ai tovaglioli, e un paio di orecchini per me, comprati sulla spiaggia. Quando la salutiamo, ci abbraccia con gli occhi lucidi e un sorriso pieno di pace. Resta a lungo a guardarci mentre ce ne andiamo, fino a scomparire nella distanza.

La storia di due genitori bambini che vivono in una capanna tra le risaie, insieme alle loro due vacche. Quando il marito torna dopo giorni dalle montagne col suo carico di bambù, di notte si stende accanto alla moglie e la cerca, bussando gentilmente alla porta. Lei si alza il vestito e si mette di spalle, accarezzando il figlio piccolo come se fuori piovesse.

Luoghi di culto: pretesti consacrati per la metastasi di commerci, venditori aggressivi, postazioni per questuanti ed estorsori di massa. Se non puoi rispettare i precetti del tuo credo, paga pure qualcuno che fingerà di farlo al posto tuo. Solo davanti alle pagode, mestiere ignobile: catturare uccelli, ammassarli in grandi gabbie circolari, e chiedere al turista di pagare per liberane alcuni. Tutte uguali le religioni. A conti fatti, crudeltà, avidità e stupidità sono le uniche divinità in cui la Fede è sempre ben riposta.

Ore 05,00

Canti sacri dai monasteri della collina, e cori di uccelli che non riconosco. Dalla camera accanto, il mugugno di due tedeschi che si accoppiano, uguale dall’inizio alla fine. Più il lamento di un pianto inutile che altro.

Tarda mattina

I piedi scalzi a lungo sulle pietre e nel terreno. Neanche cento metri e già si lamentano. E’ giusto che imparino cos’erano una volta i piedi.

Incontrare un manipolo di accaniti provinciali che per tutto il tempo non fanno che rimpiangere le spiagge appena lasciate, i confort delle loro case italiane, la Nutella. Vengono in questi posti chiedendo un bagno caldo, vestiti di tutto punto.

Contadino accovacciato a lungo nell’ombra di una pietra miliare, sulla strada per Mandalay.

Giovane donna con fascio di foglie di tè. Le chiedo una foto: resta immobile senza cambiare espressione, le braccia lungo il corpo, nuda all’improvviso di ogni cosa.

Visita a un monastero presso Kinpun. Due monaci ragazzi al piano superiore. Uno sbuccia una mela accanto alla finestra, si lascia fotografare senza guardarmi. Poi visita alla stanza del monaco capo. Seduto dietro un tavolo, parla al telefono, tenendo la cornetta distante dall’orecchio. Il nostro autista si inginocchia più volte al suo cospetto, ma lui non lo guarda, continuando a parlare trai denti. Gerardo dice: “Sembra un capo mafia”.

I bambini dei villaggi, quando entro nelle loro case, saltano in piedi e mi dicono “Good morning teacher”.

Sulle strade, motocicli di fortuna e carri trainati dai buoi. Anche da lontano la differenza si vede. Gli uomini sui motori vanno spenti e come fermi. Quelli sugli animali hanno il movimento fiducioso di piccoli frutti sui rami.

La venditrice di frittelle al mercato di Phyu mi saluta gentilmente e abbassa lo sguardo. Aspetta che sia io a desiderare.

Bago

Altro manipolo di accaniti provinciali. Qualcuno dice che sarebbe stata meglio un’altra giornata nel resort sulla spiaggia, invece di villaggi e mercati, che visto uno sono tutti uguali. Meglio non intervenire. Persino loro si accorgeranno nel tempo che i viaggi importanti sono calci: il dolore si sente dopo.

Mi sono sempre chiesta, andando all’estero, da cosa uno straniero capisce che sono italiana, anche se resto immobile e non dico una parola. Osservando questo gruppo, capisco di che si tratta, e non mi piace.

I templi di Bagan, come le piramidi egizie: tanto splendore per contenere cosa? A dimostrazione che alla lunga solo le cose inutili la spuntano.

Un italiano alle mie spalle si lamenta del suo Inglese, che al liceo conosceva così bene: un ragazzo tenuto in gabbia, che quando esce diventa uno storpio che si trascina le gambe, cercando di arrivare dove deve.

Chiedo ad Aung se la gente dei villaggi è davvero felice. Dice che qui è abituata a considerare che, se c’è un soldo, quel soldo è giusto che basti, e che il resto va condiviso, perché non desiderare fa bene alla salute.

Case di bambù: dentro, per terra, un’unica stuoia su cui dormono anziani, figli e nipoti, accanto alle vacche. Il riso pestato nei mortai, l’acqua presa dal pozzo, il pesce essiccato sui tetti e cotto in pentole nere sulla brace. 10 mq, quando va bene, per una famiglia di 6,7 persone. Un solo mobile per stoviglie e abiti. Scarpe e oggetti sparsi sui pavimenti in teak o nel terreno. Niente sedie o tavoli. Al centro della stanza, sulla parete più grande, il posto per l’altare, sempre pieno di fiori freschi, incenso e doni. Così vivono gli abitanti della casa, ai piedi di Buddha, pregando e ringraziando, come villaggi sotto la montagna.

Donne sedute a terra lungo i cigli delle strade, le mani intrecciate come ceste pronte al carico.

Amarapura

Il pittore sul ponte dipinge gouache per i turisti. Banale, dice uno alle mie spalle. Nei dipinti: un fiume, un albero, una casa, un ponte, una figura che va o che torna. Mi chiedo in cos’altro consista la vita.

Yangoon

Negli slogan pubblicitari, nelle pose delle donne sui manifesti, nelle merci in vendita, il pudore dei villaggi, con l’ansia di darsi delle metropoli.

Réclame di bibite vitaminiche, shampoo e saponi. La marca di sapone più famosa in Birmania si chiama PARIS.

Rigurgiti di campagna alle spalle della via principale, piena soprattutto di negozi di cellulari e gioiellerie islamiche.

Camera d’albergo: scatola di cemento senza finestre. A stento il posto per il letto. Troppo freddo con l’aria condizionata, troppo caldo senza. Materiali scadenti, rifiniture pessime, sporco, totale mancanza di buon gusto e di elementare buon senso in ogni cosa. Cinese, insomma.

Rumore di passi nel corridoio come di lancette d’orologio. Poi conversazione monocorde tra coniugi coreani: la sciatteria delle coppie di lungo corso, come dappertutto.

Stormo di uccelli su Mingun, in volo come un nastro sciolto.

Sui cigli delle strade e nei canali, cumuli di plastica sottile come sfoglie di cipolla, tra cui giocano bambini, riposano maiali, muoiono cani malati. Plastica per ogni cosa. Da lontano, buste di plastica bianca in cima ai pali nella risaia sembrano aironi. Di plastica anche certe borse a strisce colorate, che le donne dei villaggi più poveri usano per la spesa nei mercati. Costo, 1000 Ks (0,70 centesimi di Euro). Borse che ritroverò in Italia nei negozi del centro, vendute a prezzi spropositati come accessori alternativi.

Acqua nera nei canali tra le capanne, in cui pure nuotano piccoli pesci. Al tramonto, pace nei campi, case che si stringono, certe del giorno dopo.

Davanti al monastero di Mingun, un uomo lava un fuoristrada Toyota ultimo modello. 4 monaci lo fotografano a turno coi loro Samsung S4. Poi si fotografano a vicenda.

Occupazione della gente nei villaggi: procreazione, accrescimento e declino. Momenti di trastullo e momenti di noia. Nessuna astrazione, causa ed effetto, evidenza uguale sostanza. Coltivare, nutrirsi, riparare, pregare. In sostanza, restare vivi e sperare di esserlo ancora.

Mandalay

Città brutta, chiassosa, che però, dopo le due del mattino, ha il silenzio dei villaggi, interrotto solo da un grillo o da un gufo.

Piccole le donne, piccole le arachidi e i mandarini, docili i cani, tersi i paesaggi, calmi i bambini.

Nessun animale ammazzato per strada: cani, topi e serpenti si lasciano passare. La prostituzione punita col carcere. Suicidi: zero. Abbandono di anziani: impensabile. Divorzio: rarissimo. Delitti familiari: sconosciuti. Quando dico ad Aung che in Italia sono all’ordine del giorno stupri, femminicidi e assassinii parentali, mi guarda con un deluso stupore infantile.

I cimiteri: poche lapidi che sembrano pietre tra gli alberi alle spalle dei villaggi, parte del paesaggio, senza grandi pretese.

Il turismo fa bene, ma a chi? Nei villaggi, i bambini salutano, cercando di vendere con dignità dolcetti di zucchero di palma, frittelle di pesce secco, fiori. Nelle città, inseguono i turisti, elemosinando soldi a mani vuote.

Trasportatori di riso bevono il tè seduti in acqua tra le piante del fiume. Quando mi vedono passare sorridono, schernendosi come bambine.

Giovane spaccatrice di pietre sulla via per Mandalay. Dietro un ventaglio di foglie di bambù piantato nella sabbia, il figlio di pochi mesi dorme adagiato nel cappello della madre.

Prima di partire per posti come questo, prego. Dopo, non capisco come ho potuto.

Francesi: irrilevanti e sciatte per partito preso; un poco d’acqua bollita, raffreddata in una teiera neanche troppo pulita. E questa sarebbe eleganza?

Yangoon

Palazzo popolare contro il buio della sera: immensa colombaia con finestre chiuse, altre aperte, molte spente, in una gamma spietata di grigi. L’onda dell’oceano pietrificata nel punto più alto della cresta, la montagna che si alza immobile prima di franare a valle, la nuvola di un uragano, che in certi chiarori conserva la speranza di risparmiare un riparo almeno. Sopraffazione terrificante, e tuttavia maestosa.

Imparare il necessario e l’unanime, l’esistente indubitabile e infondato. A ogni gesto, cosa compiuta, persona attraversata, il senso quieto dell’addio. Mio qui è solo ciò che non mi appartiene: l’aria spostata dagli uccelli, una traccia di gesso sul muro, una parola senza messaggio. Di nuovo ogni cosa come ieri, e per la prima volta.

Se resto calma, il tempo mi segue come un bue. Se pure le cose a volte non funzionano, va bene lo stesso, perché il mondo è soprattutto un vasto numero di imperfezioni. Conservare il sorriso come un campanello di bicicletta che tintinna sobbalzando sui fossi.

Che i pensieri perdano risonanza e peso, soprattutto la vanità delle poche volte in cui sono buoni. Essere tra le cose come presenza basta. Verso il meno: niente allontana di più da ciò che si cerca che l’averne a pieno.

Tangoo

A gennaio, l’estate coi suoi turchesi pieni di ore.

Nei campi, alberi sciolti nel mansueto delle distanze, il bruno della terra, il legno degli aratri, la stoffa degli abiti dai colori solidi e pacati. Il riso per il pane, le bestie per il lavoro e per la carne, la terra per il frutto, l’albero per il fuoco. La supplica e il grazie per ogni cosa, la fiducia che aiuta i miracoli. Nei volti, la calma certezza di essere nudi al mondo. Le capanne strette nel fresco di sentieri dove, finito il lavoro, non passa più nessuno.

Stupore continuo per cose che non conosco, a ricordare che i momenti più pieni sono sempre quelli vuoti di me.

Tra i templi di Bagan, una turista tedesca sola, ben curata, ma col viso pieno di dolore: una casa che galleggia sul fiume dopo l’uragano.

In una capanna che dalle mie parti sarebbe un rifugio di struggente miseria, trovo il senso antico della casa. Sconfitta già sulla soglia, sono il punto in cui l’orologio fermo segna l’ora esatta.

Il vento dà agli alberi la luce dell’acqua, all’ombra delle cose la profondità di monti. Ecco Dio, come vorrei fosse il mio amore per il mondo: silenzioso, umile, totale.

Avere la pazienza dell’acqua, che aspetta per giorni nei pozzi.

Incontrare l’uomo, che a volte solo cambiando aria s’incontra, come si riconosce l’odore di casa all’aperto, da quello rimasto tra i tuoi capelli spostati dal vento.

Pubblicato da david ardito

web designer - https://www.damedia.it/

6 pensieri riguardo “Taccuino birmano

  1. Uno dei più bei diari di viaggio che io abbia mai letto.
    Ho visto e sentito, ho viaggiato a fianco di questo sentimento.

  2. Folgorata, commossa, stupita da così tanta bellezza nel descrivere luoghi, persone, emozioni e sentimenti. Grazie Eliana, e grazie a Cecilia che ha segnalato questo Blog. Eréndira

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