LA QUESTIONE DEI PAESI

Anche chi vive in città, chi vive sulle coste, dovrebbe sentire l’urgenza di politiche alte per le terre alte dell’Italia interna. La questione è l’altezza, lo sguardo verso il futuro. Costruire un grande corridoio ecologico lungo tutto l’Appennino è azione che non si fa in pochi anni, ma è quello che serve. I paesi italiani sono un patrimonio universale. Solo noi abbiamo paesi di mille abitanti che sembrano capitali di un impero. Come si fa a non vedere che la questione dell’Italia è la questione dei paesi? Per anni ci siamo attardati sulla questione meridionale e invece c’era una storia che riguardava tutta la penisola, era la storia dell’Italia alta, dell’Italia interna, una storia che va da Comiso a Merano. L’Italia ha un asso nella manica, i suoi paesi, e non lo usa. Speriamo che venga fuori con la Strategia Nazionale delle Aree Interne. È una delle poche cose buone avviate dal governo Monti, grazie a Fabrizio Barca, che allora era ministro per la coesione territoriale. Ora quel ministero non esiste più, ma Barca ha comunque fatto in tempo ad avviare un complesso meccanismo che attualmente coinvolge 66 aree selezionate in tutta Italia (circa 1000 Comuni e 2 milioni di abitanti). La Strategia, attualmente guidata da Sabrina Locatelli, impegna una serie di giovani tecnici molto preparati e molto motivati, e vede tutt’ora impegnato Barca in veste di consulente a titolo gratuito. L’assunto è che l’Italia interna non è un  problema, ma una mancata opportunità per il paese. La missione è fermare l’anoressia demografica dando forza ai servizi essenziali di cittadinanza: scuola, sanità, trasporti. A questa base si aggiungono le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come fuoco centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio. Si parla da più parti di accesso alla terra da parte dei giovani, ma le pratiche concrete sono ancora poche. A volte i gruppi di base sono più avanti delle istituzioni. Due buoni esempi vengono dalla Puglia: La Casa delle Agriculture nel Salento e l’esperienza di Vazapp nel foggiano, ma ce ne sono in tutte le regioni: fare in modo che si incrocino e lavorino assieme è uno degli obiettivi del mio lavoro e della Casa della paesologia, un’esperienza che mette insieme tante persone che incontro nei miei giri nell’Italia interna.

Sull’Appennino negli anni scorsi sono arrivate le pale eoliche e sono andate via le scuole. Ora è il tempo di tornare a ragionare di servizi e di investimenti. In una logica di mercato e non di sussidio, ma senza dimenticare che al Sud negli ultimi anni sono state sottratte risorse preziose da governi centrati sui problemi del Nord. C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche. L’Articolo 42 della Costituzione andrebbe inteso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari dovrebbero diventare beni comuni.

Forse più che del teatrino della politica bisognerebbe parlare di scuole di montagna. Bisognerebbe riflettere sul valore di tutta una serie di mestieri che vanno perdendosi. Bisogna far conoscere la storia di Giovanni Cualbu, pastore sardo che si oppone a una multinazionale giapponese che vuole installare un gigantesco impianto per la produzione di energia solare lì dove pascolano le sue pecore. La Strategia Nazionale ha previsto di realizzare in Basilicata una Scuola della pastorizia. L’ottica è quella di rendere attrattiva l’Italia considerata più marginale. Ma ovunque ci si scontra con una burocrazia troppo lenta e con una politica dal fiato corto, attratta dalle azioni che fanno notizia e dai territori dove ci sono molti elettori.

L’Italia dei paesi ha bisogno di un approccio radicalmente ecologista. Seguire più la lezione di San Francesco che quella dei santoni della finanza. Forse è arrivato il momento di rendersi conto che è andato in crisi il paradigma meccanicista-industrialista che pensava i luoghi come inerti supporti della produzione di merci. Ripartire dai luoghi significa ripartire da un patrimonio di biodiversità straordinario. Da questo punto di vista non parliamo di luoghi della penuria, ma di luoghi della ricchezza. E lo stesso vale per la sociodiversità.

Ovviamente questo approccio non può eludere il binomio mercato e lavoro. I paesi italiani se non ricevono domande non hanno lavoro e senza lavoro il territorio deperisce. Si può immaginare che i paesi saranno oggetto di domanda e dunque di lavoro per via della loro diversità.  Pensiamo che oggi ci sia un bisogno di diversità. Il lavoro cruciale è dare fiducia, portare nei luoghi le persone che fanno buone pratiche. Forse è il momento giusto per coagulare, per dare coesione, per mettere assieme ciò che per troppo tempo è rimasto isolato e disperso. Ci vuole un’idea di sistema. Nei prossimi anni ci sarà un ritorno ai paesi e alla campagna. Il lavoro da fare è dare forza a questa tendenza che è già in atto, è mettersi alle spalle l’idea che i paesi sono destinati a morire. Quella dei paesi in estinzione è una vera e propria bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti o frane. Se l’Italia dei paesi non esce dal clima depressivo è destinata all’insuccesso qualunque strategia. La prima infrastruttura su cui lavorare è di tipo morale, è l’infrastruttura della fiducia: è il ragionameno da cui parte la festa della paesologia ad Aliano, una festa che mette insieme il meglio delle arti e dell’impegno civile al servizio delle piccole comunità e del mondo rurale, in conflitto con gli scoraggiatori militanti e con le vecchie equazioni: piccolo paese-piccola vita, mondo rurale-mondo arretrato.

É importante dare alla parola contadino un prestigio che non ha mai avuto, riportandola all’antica funzione di custode del territorio, oggi più attuale che mai, soprattutto in prospettiva futura. Pensiamo agli artigiani del cibo, proprio per sottolineare la cura con cui si coltivano e si trasformano i prodotti. Il cibo che unisce bontà e qualità terapeutiche. È il lavoro che sulla scia Slow Food fanno tanti. Mi piace segnalare Peppe Zullo sui monti della Daunia e Roberto Petza che in Sardegna utilizza e rielabora i prodotti del territorio e della tradizione e li ripropone in forme originalissime. A Siddi si fa non solo ristorazione di respiro internazionale ma anche attività di formazione delle nuove generazioni rieducando al cibo e al gusto le persone attraverso una microfiliera locale del vino, dei formaggi, degli ortaggi e dei salumi.

Bisogna uscire dalla dittatura del consueto che spesso caratterizza le piccole comunità. Una buona pratica per i nostri paesi è lo sblocco dell’immaginazione. In fondo la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Troppo spesso nei piccoli paesi si ha paura di essere visionari, come se questo ci potesse assicurare un giudizio di follia da parte degli altri. Urge anche nelle stanze della politica la presenza dei visionari che sanno intrecciare scrupolo e utopia, l’attenzione al mondo che c’è col sogno di un mondo che non c’è.

 

franco arminio, da l’espresso

Pubblicato da Arminio

Nato a Bisaccia è maestro elementare, poeta e fondatore della paesologia. Collabora con “il Manifesto”, e "il Fatto quotidiano". È animatore di battaglie civili e organizzatore di eventi culturali: Altura, Composita, Cairano 7x, il festival paesologico ""La luna e i calanchi"". Da molti anni partecipa a innumerevoli manifestazioni sulle problematiche dei territori. Recentemente ha avviato scuole di paesologia (ne ha già svolto una decina in ogni parte d’Italia). In rete è animatore del blog Comunità provvisorie. E' sposato e ha due figli.

3 pensieri riguardo “LA QUESTIONE DEI PAESI

  1. L’idea di ridare vita all’Italia interna è una follia che placa la ragione.
    Uno dei principali ostacoli per la realizzazione di un’opera di tale portata, tuttavia, non può attendere i tempi di un coordinamento nazionale, considerato che il Ministero per la coesione territoriale, ad oggi, non esiste più e Fabrizio Barca – ahinoi! – gode di una minore rilevanza politica (in merito a quest’ultima riflessione spero che qualcuno sia in grado di contraddirmi!).
    L’idea resta, è evidente.
    Credo, però, che sia difficilmente realizzabile in un contesto nazionale in cui:
    – la distanza tra chi si occupa di quel progetto e il territorio,
    – l’assenza di persone di riferimento visibili, conoscibili, rispetto ai quali vedere con i propri occhi che quell’idea è in fase di realizzazione,
    rischiano di trasformarsi in fattori di fallimento e, per chi ci ha creduto in quella follia, di frustrazione.
    Una valida alternativa potrebbe essere quella di avviare una rivoluzione di questo genere a livello di singole aree, a livello Regionale, partendo da una realtà che, a mio parere, presenta un minore livello di complessità, tenuto conto del non elevato numero di paesi che lo compone e, aspetto non irrilevante, della maggiore capacità finanziaria.
    Parlo della Basilicata, mia terra di origine.
    Un laboratorio di rigenerazione delle aree interne che, qualora dovesse essere di successo, rappresenterebbe un modello da replicare altrove.
    Rispetto alla Basilicata, in particolare, sarebbe un messaggio forte quello di una Regione che, davanti all’ inarrestabile deturpamento ambientale causato dalle attività estrattive del petrolio, svolta finalmente e con decisione verso un recupero delle proprie aree interne.
    Una sorta di segno di riconciliazione, per far pace con la natura offesa.

  2. L’idea di ridare vita all’Italia interna è una follia che placa la ragione.
    Uno dei principali ostacoli per la realizzazione di un’opera di tale portata, tuttavia, non può attendere i tempi di un coordinamento nazionale, considerato che il Ministero per la coesione territoriale, ad oggi, non esiste più e Fabrizio Barca – ahinoi! – gode di una minore rilevanza politica (in merito a quest’ultima riflessione spero che qualcuno sia in grado di contraddirmi!).
    L’idea resta, è chiaro.
    Credo, però, che sia difficilmente realizzabile in un contesto in cui la distanza tra chi si occupa di quel progetto e il territorio, l’assenza di persone di riferimento visibili, conoscibili, rispetto ai quali vedere con i propri occhi che quell’idea è in fase di realizzazione, rischiano di trasformarsi in fattori di fallimento e, per chi ci ha creduto in quella follia, di frustrazione.
    Una valida alternativa potrebbe essere quella di avviare una rivoluzione di questo genere a livello di singole aree, a livello Regionale, partendo da una realtà che, a mio parere, presenta un minore livello di complessità, tenuto conto del non elevato numero di paesi che lo compone e, aspetto non irrilevante, della maggiore capacità finanziaria rispetto ad altre Regioni del Sud.
    Parlo della Basilicata, mia terra di origine.
    Un laboratorio di rigenerazione delle aree interne che, qualora dovesse essere di successo, rappresenterebbe un modello da replicare altrove.
    Rispetto alla Basilicata, in particolare, sarebbe un messaggio forte quello di una Regione che, davanti all’inarrestabile deturpamento ambientale causato dalle attività estrattive del petrolio, svolta finalmente verso un recupero delle proprie aree interne. Un segno di riconciliazione per far pace con la natura offesa.

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