Canto per l’Italia nuova

La prima cosa, cara Italia,
è rimanere sensuali. La politica
deve accendere le facce come fa un amplesso.
Lottare per la terra senza essere sensuali
serve a poco, metti giù altre parole, fai girare
formiche morte nel sangue, e invece bisogna
alzare in alto le chitarre come hanno fatto in Cile.
Ci vuole nelle piazze un canto a oltranza
e baci e abbracci in abbondanza.
La modernità non va adulata né licenziata:
ci vuole una modernità plurale,
le ragioni delle città e quelle dei paesi,
la comunità che intreccia indigeni e stranieri,
le ragioni dell’utopia e quelle dei banchieri,
il muso delle vacche e Piero della Francesca.
Fuori dal Parlamento
c’è l’Italia alta e silenziosa,
l’Italia marina e collinare,
industriale e inoperosa.
Bisogna costruire un tempo intimo e civile,
politica e poesia,
lo sguardo delle regole
e le regole dello sguardo,
la bellezza di ogni spazio
più che la ruggine del farsi spazio.
Bisogna subito spiegare a chi vota
per i suoi nemici
che il cancro non finisce
con nuove elezioni
e le acque si alzeranno coi profeti
della crescita e delle betoniere,
gli alberi caduti raccontano
di una terza guerra mondiale
in atto: la guerra del clima.
Non ci sono eserciti che si confrontano,
c’è il cielo contro tutti,
un cielo senza angeli
e montagne senza ghiaccio.
Ci vuole subito che la parola terra diventi
il primo motto:
noi siamo la politica della terra,
e questo dice anche della cura per chi sta
nei campi col gusto di fare cibo buono,
cibo per la salute.
Il secondo motto:
noi siamo la politica della salute.
Con noi l’aria torna pulita,
tornano puliti i fiumi, le api stanno meglio
noi le veneriamo come fanno in Slovenia.
Ecco cosa vuol dire essere moderni:
avere Milano e Matera, l’alveare e la Rete.
Il terzo motto:
noi siamo la politica della giustizia.
Noi siamo la politica che in dieci anni
toglierà via dall’Italia il crimine organizzato,
magari resterà qualche folle, qualche malandato,
ma con noi in Italia diventa ridicola
la furbizia, orribile il reato.
Bisogna dire cose grandi e dirle con gli occhi
accesi da entusiasmo,
non è vero che vinceranno,
la loro candela si allunga perché è alla fine.
L’uomo del futuro non può essere nazionalista,
il pianeta può salvarsi solo con un uomo conviviale,
l’uomo profittatore è un rottame:
il capitalismo se vuole restare in vita
deve arrendersi alla poesia, alla gentilezza,
al mistero della morte.
Gli umani che stanno per venire
torneranno all’essere più che al dire,
saranno di nuovo attenti al dolore
degli altri, saranno stufi di finzioni,
sarà bello essere nudi e sinceri.
Il quarto motto:
noi siamo la politica che profuma di gioia,
noi opponiamo le barricate della comunità
alla mestizia dei consumi,
noi opponiamo ai loro muri
una stretta di mano.
Il quinto motto:
noi siamo la politica dell’attenzione,
attenzione alla povertà e al dolore.
La destra è il tempo dell’imbrunire
e la notte è l’avvenire
di chi ora la conduce.
Noi siamo le due del pomeriggio,
siamo le vie senz’ombra,
siamo la politica della luce.

canto per l’Italia nuova, Franco Arminio
Apparso su “L’Espresso” del 12 gennaio 2020

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