Ovvero i poeti non sanno parcheggiare
Di Valerio Cuccaroni
La Casa degli Artisti di Sant’Anna, fino a qualche anno fa, era la dimora degli operai dell’Enel che lavoravano alla diga del Furlo. Questo casolare con decine di stanze, che Andreina de Tomassi e Antonio Storace – lei, milanese di nascita, ex-giornalista di Repubblica; lui, romano, scultore – hanno deciso di acquistare e trasformare in residenza creativa, si trova nell’Appennino umbro-marchigiano, nel comune di Fossombrone, provincia di Pesaro-Urbino.
Esci dalla superstrada per Roma, direzione Calmazzo, penetri all’interno del borgo di Sant’Anna – un campanile, un ristorante e poche case – lasci la strada asfaltata e ti immergi nella vegetazione della riserva naturale statale Gola del Furlo. Passi un ponticello di terra, che se non stai attento precipiti giù per il dirupo, e ti trovi di fronte alle prime sculture, tra alberi e cespugli. Sculture realizzate da autori che hanno abitato la Casa nei mesi scorsi. Niente di idilliaco, comunque, non è una casa di artisti bucolici, neoclassici. A due passi, infatti, corre e romba la superstrada, in mezzo al giardino della Casa si alza un traliccio dell’alta tensione, come a ricordarti che l’arte moderna non potrà mai essere pacificata, dovrà sempre fare i conti con la frattura insanabile tra Uomo e Natura, ovvero con una loro nuova convivenza, tipica della contemporaneità. Una Casa onirica, dunque, senz’altro, ma a metà strada, tra sogno e incubo. Una Casa bella, ma di una bellezza “convulsiva”, come avrebbe detto Breton, che amava i binari che finivano improvvisamente, con la loro bella locomotiva sopra, in mezzo alla foresta amazzonica.
Quando, in primavera, la nostra amica poetessa, Franca Mancinelli, ci ha invitato in questo luogo, che solo a pronunciarlo (“Casa degli Artisti”: oooh!) incanta, abbiamo accettato subito. Perché? Perché per rispondere “sì” alla mia proposta di matrimonio, mia moglie, Natalia, quando ancora non era mia moglie, ha aspettato mesi e mesi, ha aspettato che fossimo in un luogo speciale, consono all’occasione, all’altezza della circostanza e, precisamente, nello squat di artisti “59 Rivoli” (http://www.59rivoli.org), a Parigi, conosciuto anche come “chez Robert, électrons libres”: edificio di proprietà del Crédit Lyonnais, in rue de Rivoli, tra Chatêlet e il Louvre, dopo essere stato sgomberato dai vagabondi che ci si erano rintanati per scampare al freddo, fu occupato nel 1999 dal trio d’artisti KGB (Kalex, Gaspard, Bruno). Quando Natalia mi ha detto sì era il 2007: io mi trovavo a Parigi per terminare la mia tesi di dottorato e avevo trovato alloggio nello squat, che iniziai a frequentare e di cui scrissi per «il manifesto» nel 2002, l’anno del mio primo soggiorno in Francia, Natalia era andata a Berlino, a trovare un amico comune che viveva là da qualche anno e avevamo deciso di incontrarci a Parigi, passare qualche giorno insieme nello squat “59 Rivoli”. La sera che è arrivata a Parigi abbiamo cenato nella mansarda dello squat, dove mi ero sistemato con il mio sacco a pelo. Abbiamo aperto una bottiglia di vino, distesi sul sacco aperto e lei mi ha detto sì. Come potevamo rifiutare, quindi, la proposta di ritornare – stavolta anche con nostro figlio Lucio, di appena un anno – in una casa degli artisti, un luogo che ci ha sempre affascinato ed emozionato? Senza considerare il fatto che il nostro più grande sogno è sempre stato quello di metter su, prima o poi, proprio una casa degli artisti, dalle nostre parti…
Quando, in primavera, Franca ci ha invitato nella Casa degli Artisti di Sant’Anna del Furlo, ci ha detto che stava organizzando un raduno di poeti, una due giorni di incontri e letture intitolata “La Zattera dei poeti”: la sera di venerdì 29 luglio, nei locali della Casa degli Artisti, si sarebbe dovuto parlare di libri, riviste, progetti e il pomeriggio di sabato 30 gli autori invitati, tra cui Natalia, sarebbero dovuti salire sulla “Zattera dei poeti”, una piattaforma galleggiante sulle rive del Candigliano, alla Golena del Furlo, per leggere le proprie poesie.
L’adunata alla fine c’è stata e abbiamo rivisto tanti amici, non solo marchigiani, ma anche emiliani e toscani, e ne abbiamo conosciuti di nuovi, capani e laziali. Abbiamo discusso di tante cose, cose da poeti, soprattutto, ma anche del nuovo movimento che tanto sta facendo parlare di sé, TQ, Generazione Trenta-Quaranta (http//www.generazionetq.org), dei buoni propositi, espressi dal movimento, di cambiare la condizione nostra di “lavoratori e lavoratrici della conoscenza”, precarizzati, emarginati, specie se attenti alla scrittura di ricerca invece che all’audience, dell’onestà intellettuale, dell’impegno, dell’engagement, ma anche della furbizia, dei gruppetti, dell’autopromozione.
Venerdì sera. Al momento di iniziare la kermesse, presentando libri, riviste e progetti poetici, dopo l’introduzione di Andreina e i saluti dei rappresentanti della riserva del Furlo, Antonio, da scultore, ha manifestato subito il suo scetticismo nei confronti della poesia, chiedendosi che ci faceva uno come lui, uno abituato a lavorare la materia, in mezzo a chi lavora con le parole. Purtroppo non c’è stato modo di confrontarsi, di dibattere, di controbattere a questo senso di spaesamento del padrone di casa. La serata prevedeva molti interventi, infatti, e tutti, il mio compreso, concentrati a spiegare cosa si fa qui o là, in questa o quella rivista, in questa o quella antologia, annoiando terribilmente, c’è da supporre, chi è estraneo al mondo della poesia, così chiuso, e, viene da pensare, autoreferenziale. Del resto, ai poeti interessa, deve interessare conoscere il modo di procedere di una rivista, i criteri compositivi di un’antologia. E allora è evidente: per quella fine settimana la Casa degli Artisti di Sant’Anna del Furlo sarebbe diventata la Casa dei Poeti. I poeti a occupare la sala, a occupare la cucina, a occupare l’esterno e l’interno. I poeti che fino alla fine non capiranno che la Casa degli Artisti non è un albergo, che la cucina è a disposizione di tutti, ma le tazzine e le posate, dopo aver mangiato e aver bevuto, bisogna lavarsele.
Le comunità provvisorie non si improvvisano, purtroppo: se i membri non appartengono tutti alla stessa categoria, se non hanno tutti le stesse esperienze, le regole devono essere chiare ed esplicite sin dall’inizio. Altrimenti, chi è abituato a essere invitato a rassegne e festival, si comporta come sempre, quando pensa di essere ospite: mangia, beve e lascia tutto così, sicuro che chi lo ospita metterà tutto apposto. Altrimenti, succede come ad Antonio, che si è sentito un estraneo a casa sua. Il giorno della partenza, la domenica mattina, Antonio si ritroverà addirittura un’auto parcheggiata sopra un’opera d’arte. Questi poeti: li si crede così sensibili e invece sono come tutti quanti, questi poeti, non c’è da fidarsi. E pensare che nel mio intervento, quella sera, ho osato paragonare quel raduno di versificatori alle comunità di pensiero di cui ho letto un giorno, precisamente il 12 settembre del 2009, in un articolo di Gianni Celati apparso su «Alias», l’inserto culturale del «manifesto». Celati, rifacendosi al celebre saggio di Peter Sloterdijk Regole del parco umano, contenuto in Non siamo ancora stati salvati (Bompiani, 2004), ricordava che i grandi testi antichi (Omero e Platone innanzitutto) sono come lettere inviate ad amici ignoti, «lettere che hanno prodotto – sintetizzava Celati – nell’occidente latino una fioritura di comunità di pensiero, unite dall’amore per i grandi testi e orientate verso l’umanizzazione dell’homo inumanus». Anche quella comunità di poeti, lì riunita da Franca e ospitata da Andreina e Antonio, a me sembrava una comunità di pensiero.
Sabato mattina. A Sant’Anna abitano dieci famiglie, compresi Andreina, Antonio e la loro cagna, Lara. Venerdì notte non abbiamo dormito molto: Lucio si è svegliato in continuazione e ha voluto ciucciare ciucciare ciucciare, fino al mattino, tanto che la mamma si è svegliata con un terribile mal di testa. Dopo aver fatto colazione, allora, abbiamo caricato Lucio sul passeggino e siamo andati a vedere se al ristorante del borgo avessero una tachipirina. Il ristorante, una casa bassa con una grande veranda davanti, occupa tutto il lato meridionale di una vasta corte, che oggi ha le sembianze di un grande piazzale d’asfalto, ma che un tempo, forse, era semplice terra battuta, dove scorrazzavano anatre, galline e altri animali da cortile. Dall’alta parte della corte, altre case basse, per tutta la lunghezza del lato. L’ultima casa porta appeso sopra l’ingresso uno di quei vecchi cartelli, rotondi e gialli, con il segnale del telefono: un tempo, lì, si sarebbe potuto trovare un telefono pubblico, a gettoni. Oggi che ci sono i cellulari, non ci sarà di sicuro nessun telefono pubblico, ma il cartello è rimasto, resto archeologico del passato prossimo.
Chiediamo al padrone del ristorante se hanno una tachipirina, ma lui non lo sa, deve chiedere alla moglie, che sta uscendo proprio in quel momento dalla porta con appeso il cartello giallo del telefono pubblico. Per fortuna la signora ne ha una bustina in casa. Risolto il problema, possiamo tornarcene alla Casa degli Artisti. Ma con la signora sono arrivate anche le nipotine, una piccola e una più grandicella, per cui ci fermiamo per far socializzare e giocare Lucio con le bimbe.
Dal portabagagli di un triciclio parcheggiato al bordo della corte, Lucio tira fuori pupazzetti e altri ciaffi divertenti a non finire: ha trovato il suo paradiso. E noi possiamo intrattenerci a chiacchierare con il padre delle piccole. Un discorso tira l’altro e chissà perché finiamo a parlare di cinghiali che infestano il Parco naturale del Conero, all’interno del quale si trova Varano, il paesino in cui risiediamo con Natalia e Lucio. Quest’estate la presenza dei cinghiali è diventata talmente fastidiosa e pericolosa, per le colture dei contadini e i conducenti che viaggiano sulla strada del Conero, che si sta pensando di sradicare la specie dal Parco. “Non sarà facile” dice il padre delle bimbe. “E voi, qui, come siete messi? – chiediamo noi. – Immagino che i cinghiali non manchino neanche qui…” “Cinghiali, sì, ci sono e ci sono anche i lupi”.
Nella strada di ritorno verso la Casa degli Artisti, Lucio si addormenta nel passeggino. Allora decidiamo di fare una deviazione all’interno del Labirinto; a un certo punto, nella boscaglia che precede la Casa, c’è un cartello con su scritto “Ingresso del Labirinto”. E noi entriamo. Percorriamo un sentiero delimitato da sassolini bianchi, ormai radi, ma ancora visibili. Alla fine usciamo da un arco a sesto acuto, formato da arbusti intrecciati. Ancora qualche passo e ci troviamo di fronte a una distesa di sculture e istallazioni. Sculture e istallazioni realizzate, come il Labirinto appena attraversato, in occasione della seconda edizione di Splash (http://www.youtube.com/watch?v=pFuiiqH9e4M&feature=youtube_gdata_player), una manifestazione di Land Art, in programma al Furlo dal 9 luglio al 3 settembre.
Ci sono sculture di tutti i tipi. Alcune tanto irriconoscibili da essere scambiate per acciottolato dove parcheggiare l’auto, come è capitato al distratto poeta che ha fatto infuriare Antonio. Altre divertenti e ludiche, come il didjeridoo realizzato con tubi idraulici, montati su una struttura in ferro e regolarmente accordati da un accordatore professionista. Oppure l’uovo gigante, in feltro, abitabile, alloggiato sotto una cupola di rami e foglie. Di così divertenti ce ne vorrebbe una serie da montare anche sul tratto di superstrada che corre lì davanti: un colorato artificio creativo che possa catturare nella stregata orbita della Casa anche quell’infernale serpente d’asfalto con le sue scaglie mobili, rumorose e puzzolenti.
Sabato pomeriggio. Natalia si è andata a riposare, perché il mal di testa, nonostante la tachipirina, non è passato. Io sono rimasto a giocare con Lucio. Verso le tre Andreina, Antonio e i poeti se ne vanno verso la Golena del Furlo per l’inizio della manifestazione, che, prima delle letture sulla Zattera, prevede una performance di un Po(e)tatore Volante che dimostrerà come si cura un albero, con poesia, arrampicandosi sulle cime arboree che si affacciano sul Candigliano. Quando Natalia si sveglia, sono già tutti partiti. Manca mezz’ora all’inizio delle letture. Raccogliamo armi e bagagli e ci dirigiamo verso la macchina, ma un altro poeta distratto ha parcheggiato male, non sopra un’opera in questo caso, ma davanti alla nostra auto, occludendoci il passaggio. Grazie alle divinità dei versificatori, Natalia riesce a trovare un passaggio. Io invece resto lì con Lucio ad aspettare che il poeta distratto torni dalla Golena a spostare la sua auto. Forse una causa dell’emarginazione dei poeti contemporanei è proprio questa: la distrazione durante i parcheggi.
Quando arriviamo sulle sponde del Candigliano, Natalia ha appena finito di leggere. Scopriremo poi che ha fatto colpo su tutto l’uditorio con le sue poesie assolutamente inadatte a quegli scorci naturalistici. Vorremmo arrabbiarci con il poeta distratto, ma lasciamo perdere e, rassegnati, ci mettiamo ad ascoltare gli altri, mentre Lucio gioca con i sassi del Candigliano.
In questi raduni ci si trova di fronte a decine di poeti chiamati a leggere, uno dopo l’altro, pessimi ed eccelsi, senza distinzione, secondo un criterio difficile da comprendere anche per i più esperti, tanto che uno tra i più noti di tali raduni è stato soprannominato dai maligni Parcheggio Poesia (a ulteriore conferma del legame critico tra la poesia contemporanea e la sosta). Ma il raduno di Franca si dimostra subito differente dagli altri: i poeti che si alternano sulla Zattera sono tutti degni, con qualche picco che fa alzare lo sguardo sopra le loro teste, sognanti, ad ammirare le cime arboree e rocciose che sovrastano il Candigliano. E brava Franca!
Sabato notte. Dopo un eccellente cena a base di tartufo, consumata in un ristorante a due passi dal Candigliano, torniamo alla Casa per passare l’ultima notte. Natalia e Lucio vanno a dormire. Io conduco due amici poeti nel Labirinto, visto che non ci sono ancora stati. All’andata non ricordo di cosa si parli, mentre al ritorno i nostri discorsi sono occupati dal cinema di Lynch, Gondry, Powell e Pressburger: Lynch io non lo capisco ma mi affascina, Gondry lo adoro, Powell e Pressburger me li dovrò scaricare da internet, perché non li conosco.
I due amici poeti vogliono vedere il grande uovo di feltro, di cui hanno sentito tanto parlare. Gira e rigira, finalmente riusciamo a trovarlo. Così, al buio, di notte, sembra un’astronave. Sì, un’astronave, un’astronave adatta a trasportare nello spazio quest’orda di alieni versificatori, dove sicuramente non avranno problemi di parcheggio.
ho appena ripostato una versione riveduta e corretta di questo pezzo.
Grazie Franco!