“La verità dei luoghi”….la casa di Erri De Luca….


di Costanza Lunardi
Erri De Luca – La casualità del luogo

Sta da qualche parte tra il lago di Bracciano e Roma, occupa poca terra
in orizzontale e lascia che siano gli alberi a prendersi aria e cielo, la casa
di Erri De Luca. Non saprei come ritrovarla, in mezzo a un paesaggio
attraversato dai greggi. Forse di notte seguendo la stella polare. O forse
dovrei lasciarmi guidare dal profumo delle mimose che ondeggiano e
nascondono la casa come fosse un nido. O forse prendere una strada che
dalla costa si inoltra nell’interno e seguirla fin dove il mare ha seminato
la sua impronta facendo fiorire anzitempo mandorli e rosmarini: lì, al
capolinea del suo corso mitigatore, è la casa di Erri.
Se l’è costruita più di vent’anni fa ricavandola da una vecchia stalla
per l’allevamento dei bovini, recuperando le pietre vulcaniche di questa
terra, grezzamente squadrate e scalpellate a due facce secondo l’uso di
un tempo, che a una a una gli sono passate per le mani più e più volte.
È una casa impastata di cielo, con l’acqua piovana raccolta: il pozzo è
stato scavato dopo, oltrepassando la dura crosta vulcanica spessa più di
trenta metri prima di arrivare all’acqua. Si sono modellati insieme lui e la
sua casa, mentre le dava spessore e forma e si tendevano le fibre del suo
corpo e si indurivano le mani nel lavoro di muratore; a sera o all’alba,
con la schiena dolorante, soltanto inginocchiato poteva dedicarsi alla
scrittura, allo studio e alla traduzione letterale della Bibbia direttamente
dall’ebraico antico. Il tavolo su cui si mangia davanti al camino è fatto
con i resti delle essenze – castagno, douglas, pino canadese – usate nella
costruzione della casa, ancora odorose a distanza di tempo.
“Ho vissuto così a lungo al suo interno che si è stabilito uno scambio
tra le sue pietre e me. Sento di far parte di una comune natura minerale.
Il suo silenzio è il mio, è interno… La casa mi risponde. La sua voce
non appartiene agli uomini: scaturisce dalla pietra vulcanica dei muri,
nata nel tempo in cui la crosta della terra friggeva e la materia era madre
di tutto”.
La casa è materia che vibra, aperta al vento che riproduce memorie. Le
stagioni, il caldo, il freddo producono scricchiolii, borbottii. La sonorità
della casa è fatta di assestamenti e polvere che si disperde, intonaco che
si spela, ma anche di rumori assorbiti, di racconti e ricordi custoditi
per poi restituirli con la sua voce di pietra al proprio abitante. Proprio
questo è il soggetto del lungo racconto del 1992: Aceto, arcobaleno.
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Muratore e scrittore, ora solo scrittore, traduttore di Bibbia e testi
in lingua jiddish e collaboratore di vari giornali. Il romanzo Tu, mio,
ambientato a Ischia, l’isola dell’infanzia e dell’adolescenza, racconta
la storia di un’educazione sentimentale in cui prevale la ricerca della
risposta ai fatti del mondo.
Erri De Luca si definisce spostabile.
“Non sono mai stato subacqueo e nemmeno subterreo; sono uno di
superficie, non ho radici e non le sento. Ho potuto abituarmi a qualsiasi
tipo di posto e lavoro nel giro di una settimana e andarmene in un
giorno da luoghi dove ero stato per anni, senza voltarmi”.
“Da Napoli” si definisce, a sottolineare non l’appartenenza, ma
un’estrazione da quel luogo, “come un dente senza la gengiva”.
Questa casa, incontrata per caso, lo trattiene.
“Sono rimasto in questa casa lontano dalle strade” fino a quando, una
volta al mese, da anni, le riprende guidando un camion carico di aiuti
per un campo di profughi serbi in Bosnia. “Sparsi nella periferia del
mondo ci si sente al centro della propria vita”.
Non affondare, non andare sotto. Come le radici delle mimose,
che dopo trenta centimetri di terreno incontrano l’osso duro della
crosta vulcanica. Materia soffice, giallo luce e ombra profumata che
seppelliscono la casa. Penso al giallo delle mie forsizie lombarde
che sembrano le trombe di una terra spalancata senza misteri e non
possiedono ombra. Alberi le cui generazioni si susseguono, “le mimose
perdono l’equilibrio”, racconta Erri, e non occorre il vento: esiste un
punto di rottura e d’improvviso si accasciano. “Aveva un palco di rami
già pieno di nidi, stendeva in terra l’ombra di una nuvola”. Il tronco della
mimosa caduta, lucidato a coppale, sta in mezzo alla stanza appoggiato
ai travi del soffitto come una colonna archeologica, in compagnia delle
lettere dell’alfabeto ebraico, appese alla parete, composte da Erri con
pezzetti di legno.
Accanto al piede delle mimose più adulte sono cresciuti giovani getti,
pronti a sostituire l’albero nel giro di due o tre anni quando, un giorno,
crollerà.
Erri De Luca preferisce piantare gli alberi che coltivare la terra. Ha
l’impressione che tutta l’agricoltura sia una specie parassitaria del
suolo: “Scortichiamo la buccia della terra e nelle sue ferite ci mettiamo
le nostre larve”. Gli piace lasciare la terra così com’è – dato che non ha
bisogno di cavarci nulla – e che possa avere la sua peluria.
Gli alberi sono persone molto esigenti che hanno bisogno di accoglienza
sotto e di bellezza fuori. “L’albero è una creatura estetica, metterlo in
terra è come fargli una proposta dato che necessita di bellezza, luce,
vento, uccelli, formiche e la possibilità di puntare i rami verso una
trigonometria di stelle”.
Il primo albero fu il mandorlo perché fiorisce d’inverno, albero di
primizia intorno al quale un giorno di febbraio si viene richiamati dal
rumore sordo di api insonnolite. Oltre alle piante che, perdendo le
foglie, gli ricordano le generazioni che ritornano, vi sono due lecci nel
campo, traccia della Villa comunale di Napoli dove giocava da bimbo e
del verde cupo che rendeva ancor più fitta l’ombra di vicoli e cortili. E
una forestina di bambù, che cresce ogni anno a vista d’occhio. Il vento
che arriva senza preavviso, con violenza da sbandato, trova i pioppi a
riparare il retro della casa.
Pietre nere trovate nella terra sono state incastrate nel muro come rozzi
sedili e accanto alla ginestra, ricordo di Ischia, Erri ha collocato il masso
gigante fatto rotolare a spinta fino a casa dalla campagna, là dove scure
pietraie convivono con prati di grasse margherite e dove il paesaggio
di colpo si abbassa e sprofonda nel tufo e nelle cavità delle tombe
etrusche rupestri. Il paesaggio risale e ascende a brivido di vertigine,
idealmente, quando Erri accenna a misteriosi luoghi di scalate libere e
di solitaria integrale, “un’esperienza di nudità… conta solo andare, stare
nella corrente della propria solitudine esposta, inservibile alle mete”.
Ancora si abbassa e scende, verso il lago di Bracciano, dove Anguillara,
grigia di pietra vulcanica, sta sulla sponda di un cratere d’acqua.
È arrivata la corriera. Erri si allontana dentro sandali monacali.
Me ne sono andata senza voltarmi, come mi hai insegnato tu.

Una opinione su "“La verità dei luoghi”….la casa di Erri De Luca…."

  1. Infatti, non si abita in un luogo, ma nel tempo. Giusto quanto sostenuto da Fabrizia Ramondino. E chi abita nel tempo, ancor prima che nella casualità del luogo, è cosmopolita e , da vero cosmopolita, sa aprezzare all’ennesima potenza, senza trionfalismi etnici e/o paesanologici, la bellezza di un luogo, con esso interagendo.

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