Philarmonie

di davide vargas

Sto davanti alla finestra in una mattina tiepida e ascolto il canto di un uccello. Forse più di uno. I suoni vengono dal fogliame dell’arancio. Un leggero vento fa ondeggiare sugli orli i rametti teneri che si spingono nel cielo. Il sole imbianca pezzi di foglie. Altri restano in ombra. Qua e là resiste ancora una pelle secca e accartocciata. Se guardo sotto poi, come alla fine di una galleria tra insetti che si muovono a scatti sospesi a mezz’aria, le foglie delle ortensie sono agitate da un altro vento. Più forte. Una specie di mulinello.
Come si fa a descrivere un suono con le parole?
Un primo registro sale e scende. Regolare e geometrico. Un ritmo. Come tetti a falde. Un secondo è una specie di sottofondo tremolante come una serpentina. Si spezza. Riprende. Si sovrappone. Come una linea d’acqua. Un terzo è il canto vero e proprio. Libero. Indipendente. Anarchico. Va nell’aria in ogni direzione. Si dispiega. Rallenta. Poi riprende. Scarta. Riprende quota.
Mi rendo conto che le parole non bastano. O le immagini per dire. Si può provare a disegnare. Nelle sue poesie quando le parole diventano ruvide come i frammenti delle rocce che affiorano tra suoi colli Andrea Zanzotto fa dei segni. Piccoli graffiti. “Geometrico avvenimento/improvviso stigma/di trini tagli/(…)” Non è che avessi mai capito fino in fondo. Ma ora sento come una necessità di innervare le parole. Come in un impasto. Forse la stessa necessità del poeta. Quando proprio non ce la fai allora ti aggrappi ad altro. Chiedi aiuto.
C’è una specie di solitudine nel canto di un uccello. Una voce in un paesaggio di vuoti. Non sai bene se è dell’uccello o roba tua. Ma sì che lo sai. Come una sete insaziabile. Tutto in una specie di diagramma. Faccio dei segni. Questi:

E allora mi viene in mente un altro disegno. Di tanti anni fa. C’entra con il canto. Lo cerco. Questo:

La Philarmonie di Hans Scharoun. Ci sono stato molti anni fa. Mi ricordo il paesaggio di vuoti. La Neue Nationalgalerie di Mies e la Biblioteca dello stesso Scharoun. In mezzo niente. Pezzi di niente. Come il negativo di sagome galleggianti. Mi ricordo vagamente una luce bianchiccia, un velo di nuvole compatte. Non so, forse non è vero ma io mi ricordo così. Una sensazione straniante. Come un paesaggio guardato da occhi malinconici. Metti una giovane donna assorta dietro il vetro un po’ sporco di una finestra affacciata sul cratere della città. Scrive qualcosa su un quaderno, poi alza gli occhi e li dirige verso fuori e cerca una conformità tra sé e i vuoti della città. Oh, quante volte ho incontrato lo stesso senso di vuoto. Lacune nella trama dell’esistenza. Come una voce che ascolti al telefono e che di tanto in tanto si perda. Proprio quando ti sta parlando. Ingenuità pensare a linee continue. Materie ravvicinate. Un tutt’uno compatto e uniforme. Ma occorre diventare, l’uomo sì l’uomo, diventare vuoto – assoluto, senza mezzi termini – per ricostruire più in là le proprie tappe. E dimore. Una rete di punti. Il sogno tracciato dallo stesso canto del mattino. Ecco, dopo tanti anni, trenta io credo, se dovessi scrivere una storia intorno alla Philarmonie vorrei scriverla così. Mettendo al centro i vuoti della città come ferite da cui ripartire per costruire finalmente cose vere. Facce. Edifici. Pensieri. E vorrei farlo attraverso gli occhi di una donna sola, fiera e dolente. Non solo gli occhi ma anche i suoi passi come linea che ricuce. E vorrei che leggendola si sentisse il canto spezzato di un uccello. Io non ce l’avrò messo. E come potrei? Ma vorrei che chi si trovasse a leggere lo sentisse. Nelle orecchie e nelle fibre. Lo stesso che dovette sentire Scharoun quando disegnò la corona musicale dell’edificio. Lo stesso che ho sentito io stamattina. Vorrei che la solitudine del vuoto fosse così nella mia storia. Come un canto. In un cerchio al di là dei tempi e dei luoghi.

4 pensieri riguardo “Philarmonie

  1. leggevo in questi giorni che ” l’italia non ha più orecchio” e fosse solo per la musica dei musicisti professionisti risolvibile con un adeguato programma scolastico.Molto più difficile la “sordità” al suono “descritto con le parole”, “il ritmo come….tetti a falde”, “il canto libero, indipendente ,anarchico” della poesia in genere…..necessitata a “innervare le parole. Come in un impasto.”La stessa difficoltà che si incontra a descrivere uno sguardo e un pensare “paesologico” anche nelle nostre “eterie” comunitarie improntate all’àristos sentimentale e conoscitivo. che non ci costringe al nobile individualismo solitario di Zanzotto e i suoi “Piccoli graffiti. “Geometrico avvenimento/improvviso stigma/di trini tagli/(…)” .o le “Philarmonie di Hans Scharoun. e il ricordo del paesaggio di vuoti” per evitare il “nihilismo” filosofico che ci spaura nel suo tante assomiglaire alla morte.Eppure sappiamo che bisogna prorio ricominciare dalla vista e dall’orecchio perchè “il lògos” come sua abitudine continui a farla da padrone assoluto ed autoritario…..
    mauro orlando

  2. i colori, i suoni ,i vuoti e la vita che si muove sotto le foglie ci aiutano ad essere vivi, ad aprire gli occhi ad ascoltare il vento che ci trasforma e porta sempre via una briciola di noi .
    RACCONTO MAGICO

  3. Scrittura elegante, geometrica, dalle strutture leggere, come le volte delle città invisibili di Calvino. Una gran bella scrittura, paesologica a suo modo. E Davide Vargas è di Aversa, ed è stato mio compagno di classe all’ultimo anno del corso 1973-74 al Domenico Cirillo di Aversa. Non c’entra niente, ma ne sono fiero lo stesso.

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