metto qui una nota scritta per gli amici di facebook che forse qui serve meno, ma mi piace comunque condividerla anche con voi, nuovi e vecchi comunitari. per me terracarne deve servire anche a questo, a rinvigorire l’idea delle comunità provvisorie. ovviamente non è un lavoro che posso fare da solo.
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è bello ricevere i complimenti per il mio lavoro. è bello sapere che tanti
leggono e apprezzano ciò che scrivo. facebook, per me, è un modo per
condividere la mia scrittura col mondo. ma qualcosa non funziona in questo
universo virtuale al quale affidiamo informazioni, parole, poesie. non c’è
recensione che valga nel mondo della letteratura quanto un passaparola tra
amici. io vorrei che questo impegno, il mio impegno che dura da trent’anni,
ricevesse un segno di generosità da voi che vi dite miei amici. e questo segno
è promuovere ciò che scrivo, ciò che pubblico, suggerirlo agli amici. perché in
italia di scrittura non si vive, ma non solo per questo. perché, se io scrivo,
se sento il bisogno, la necessità di scrivere, è per arrivare alle orecchie e
al cuore degli uomini e delle donne. è per poter immaginare che la rivoluzione,
il “mutamento di sé”, per usare un’espressione di una persona che mi è
carissima, sia possibile. che sia possibile un’umanità nuova, più generosa, più
consapevole, più fuori di sé.
E’ una pura illusione della mente il paesaggio del dentro e fuori.
L’ambiente e l’interiorità sono fatti di medesima medaglia ottica.
Più fuori di sè è entrare nei paesi in solitaria
e negli interstizi delle case assolate come nei calendari isolati all’81…
e nelle piazze devastate dai mattoni rossi.
Io mi sento un paese, un interstizio, un calendario e
divento una devastazione.
E sono il mutamento di sè, la pelle che il geco non perde.
L’umanità è dentro com’è fuori, fuori come dentro.
Dendrocronometria da millenni, in solitaria comunione umana.
Ecco perchè nei paesi, io mi sento un perenne dentro addosso.
sarebbe bello se fosse così, mi permetto di osservare, sarebbe bello se il termine “umanità” avesse questo valore che si vuole attribuirle. “vicino all’humus”, vicino e simile alla terra. uscire da sé, mutare se stessi non è così facile, non è ovvio. bisogna spogliarsi dell’io, della volontà di ascoltarsi, di guardarsi l’ombelico, di ben apparire. bisogna anche rinunciare a sé, non chiedersi più “cosa penso?”, “come mi sento?”, “cosa posso dire di intelligente oggi?”. una volta con gli amici di cp parlammo a lungo di donazione degli organi. forse è a questo che bisognerebbe arrivare, dissanguarsi lentamente per generosità, donare sangue, fegato, polmoni, farsi carne viva e esposta, mescolarsi con le poiane, le volpi spiaccicate sulle strade della mia terra, col vento che non si ferma mai. è un esercizio quotidiano, un quotidiano mutamento nel quale non ci sono certezze, asserzioni, ma solo orli, cornicioni sui quali traballare in bilico. il mutamento passa per i dubbio e per la demolizione lenta. il mutamento ha bisogno di abbandonare l’intelligenza e di abbracciare la Natura, che è legge e impulso insieme. Mi viene sempre più in mente la Ortese e la sua sfiducia negli uomini e nelle donne come sono oggi, “canne vuote, dove, nelle notti d’inverno, fischia ancora, piegandole, il vento dell’intelligenza, che li sedusse e li distrusse”. Forse è al silenzio che dovremmo arrivare, o a poche, vere e intense parole, senza questo continuo rumore di sottofondo, questo perenne e delirante ronzìo dell’io e del noi.
grazie, Franco…
elda