1994 Un’altra catastrofe annunciata. di Antonio Cederna

Sono passati sedici anni dalla pubblicazione di questo articolo (la Repubblica, 9 novembre 1994). I distruttori hanno imparato a fare meglio il loro porco mestiere di «sviluppare senza limiti incuranti del bene comune», noi non ancora a fermarli: né con i carabinieri né a furor di popolo.

 

“HO SEMPRE sentito il peso terribile dell’espressione era imprevedibile, impiegata da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano solo di coprire le proprie responsabilità: perché, se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto: e ben pochi sono i disastri di fronte ai quali non resta che chinarsi a piangere i morti”.

 

Questo scriveva anni fa il grande geologo francese Marcel Roubault, e questo si adatta più che mai all’Italia. 

 

Un’Italia vittima da quarant’anni, a intervalli regolari, di alluvioni frane straripamenti, per l’ignavia dei politici e l’arretratezza dei pubblici amministratori: ai ricorrenti sussulti dell’opinione pubblica ha fatto riscontro la quasi totale indifferenza del mondo della cultura. E di fronte a tante rovine e a tanti lutti, chi torna a riflettere e a scrivere su questa tragica costante dell’Italia moderna prova pena e imbarazzo. La tragedia di Piemonte, Liguria e Lombardia viene ad aggiungersi a un elenco infinito, che è stato mirabilmente descritto, qualche anno fa dal Servizio geologico nazionale, pubblicato nel volume “Il dissesto idrogeologico e geoambientale in Italia nel dopoguerra”, che andrebbe diffuso nelle scuole. Sicilia e Calabria nel ‘51; Polesine, novembre dello stesso anno; Calabria nel ‘53; Salernitano nel ‘54; Vajont nel ‘63; un terzo dell’Italia sott’acqua nel ‘66; Val d’Ossola nel ‘78; Val di Stava nell’85; Valtellina, luglio ‘63 e luglio ‘87; Genova e provincia, ‘76, ‘86, ‘87. Eccetera, e sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 4.000 morti (quasi 7 al mese), un costo di 35.000 miliardi per lo Stato: impiegati per lo più in opere di regimazione cementizia dei fiumi (che saranno causa di nuove sciagure), e per rabberciare alla meglio e per un’infima parte del territorio, i guasti maggiori. C’è un fatto emblematico che illustra la nostra incuria, ed è questo. 

 

Il Servizio geologico nazionale che dovrebbe provvedere alla sicurezza di suolo e sottosuolo, esercitare prevenzione e consulenza, è stato per decenni composto da una trentina di persone (venti volte meno che in Francia e Gran Bretagna), e solo da poco è passato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio: il piano per il suo potenziamento rimane sulla carta, e per di più è ospitato, insieme ai suoi preziosi laboratori, in un edificio del centro di Roma che da anni rischia di franare. Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all’Italia? Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10.000 miliardi in trent’anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata. Quanto all’attuale governo non è particolarmente interessato al problema. La legge finanziaria in discussione stanzia 330 miliardi (dal Tesoro alle Regioni), più 304 miliardi dai Lavori Pubblici (in gran parte per il magistrato del Po), più 150 milioni (sic) per informazione studi ricerche. In tutto 634 miliardi, l’equivalente del costo di una ventina di inutili autostrade: per le quali l’Anas (oggi Enas) dispone di migliaia di miliardi di residui, una parte dei quali, come giustamente verdi e progressisti propongono, deve ad ogni costo essere trasferita alla difesa del suolo. E la difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell’industria. 

 

Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; depenalizzazione della legge Merli, condono a buon mercato per gli inquinatori, blande sanzioni penali solo ai criminali, quelli che scaricano nelle acque rifiuti tossici e persistenti; attacco ai parchi nazionali (si è distinto il ministro Matteoli) presidio della salute territoriale, a cominciare dal parco d’Abruzzo, che è un modello di buon funzionamento; sospensione della legge Merloni, nata per assicurare trasparenza agli appalti, dopo Tangentopoli; protrazione dei termini della legge per la difesa dell’ozono; riduzione dei controlli sulle aziende a rischio; blocco dell’”Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente”, con paralisi dei controlli e della valutazione di impatto ambientale. E c’è anche il condono per le dighe abusive, che sono 700 (!). 

 

Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l’urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il venti per cento (6 milioni di ettari) dell’Italia, riducendo del trenta per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali (e chi si oppone, dicono vaneggiando quelli di Forza Italia, è affetto da “demagogia ecologica”). E invece che gestione e manutenzione, avremo appalti truccati e ruspe. Come ha scritto ieri Giorgio Bocca, c’è davvero qualcosa che non funziona “in questo sviluppo senza limiti del capitalismo e del consumismo, incuranti del bene comune”. 

Antonio Cederna

Una opinione su "1994 Un’altra catastrofe annunciata. di Antonio Cederna"

  1. Ecco, qui per me cè tutto il senso dell’interrogativo implicito nel testo di Elda Martino qui pubblicato vicino a questo: a che serve scrivere? Mi domando con forza sempre più pressante: se “ognuno riconosce i suoi” (Montale) e comunichiamo solo con chi è già pronto alla risonanza reciproca, come arrivare ai sordi (“chi può arrivare ai sordi, \ e chi parlare per i muti?” – Auden, 1° settembre 1939), agli ‘analfabeti’? Oggi sappiamo tutto, ma non ci serve a niente: chi agisce, prescinde dall’umano. A che ci serve la sapienza millenaria, la letteratura universale fin qui accumulata, se il potere opera al di sopra di tutto ciò, di noi? Son due realtà parallele, con qualche rarissima intersezione e scambio, di fatto non significativi: e allora, che si continua a scrivere? Non è una prova che tutto questo scrivere e sapere di fatto è sbagliato, se non fa ciò per cui dice di esistere – ovvero incidere nella realtà? C’è quel mito fondativo di questi ultimi 2000 anni: un uomo riunisce cielo e terra, umano e divino, e non scrive una sola parola (come prima di lui un altro saggio greco): pratica ciò che va dicendo – a ciò ‘si limita’ il suo operato (e di continuo ricorda che l’opera è la vera parola, lui che fu definito parola divina appunto). E quindi: cosa significa questo paradosso di credere ad un racconto scritto, che parla di un uomo-dio che però non scrisse mai nulla, perché agì direttamente nelle vite delle persone? Qualche tempo pubblicaste qui una frase di Walser su letteratura e realtà, che mi ricordò qualcosa di analogo di Cage riguardo la musica: davvero importa il dito che indica, finendo per nascondere la luna? Ma la luna governa le maree, e a non guardarla bene si finisce sott’acqua…

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