Lucio Magri, del novero del Terzo Agnello

Non ho mai conosciuto di persona Lucio Magri e dal vivo l’ho ascoltato una sola volta, in quel di Lucca. Avevo ventuno anni, facevo l’aiutante muratore presso un cottimista. La sera, nei dopocena, per dimenticare lo sfinimento d’un lavoro a cui non ero abituato, me ne andavo al cinema, al teatro o a qualche convegno.  Quella sera decisi di andare ad ascoltarlo nella sede locale del Manifesto, che era anche un  raggruppamento politico  non solo un giornale quotidiano. Non ho mai militato in  quel gruppo né  negli  altri alla sinistra del Pci, eppure quella sera fui piacevolmente colpito dall’eleganza non solo della persona, ma del suo eloquio e dalla lucidità signorile con cui porgeva. Non l’ho più dimenticata quella serata e la ritrovo ora che Lucio Magri , figura defilata ma importante della sinistra, se n’è andato, oltrepassando il cerchio della vita.  Il suo ultimo scritto, riproposto da Antonio Sparzani su Nazione Indiana e che qui rilancio, testimonia della giustezza di quelle  mie impressioni giovanili. Non se ne abbiano coloro che non sono stati comunisti, ma  credo che quelle qui sotto siano  riflessioni che hanno anche a che fare con la nostra “nuova narrazione”,  non foss’altro  che per quella parola, comunità, così’ prossima all’altra  odiata/amata da milioni di persone. Leggete, se potete, e ditemi se sbaglio. (Salvatore D’Angelo)

Ciao, compagno Lucio

di antonio sparzani


                        

Ciao, compagno Lucio,

ti eri raccomandato con i tuoi amici più cari, quelli d’una vita, i compagni del Manifesto. «Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito.»

Adesso tutto è finito, compagno Lucio Magri, io ho abbastanza vissuto per ricordare dibattiti, conferenze, assemblee con la tua sempre piuttosto fascinosa, diciamolo, presenza, per ricordare le tue battute, sempre eleganti, le tue polemiche anche dure, ma così caratterizzanti un’epoca in cui ancora si dibatteva sui massimi sistemi, come usava dire. Sulla storia del comunismo avevi molto pensato e ora hai anche scritto.

Con un infinito rispetto per la tua scelta di andartene così, con determinazione e rigore, per i tuoi motivi che certo solo tu conosci appieno, scelgo questo modo per trasformare il lutto, che non volevi, come non lo vorrei mai io, in un’occasione per far conoscere ― senza fronzoli ― a più persone le prime pagine dell’introduzione del tuo ultimo scritto (Il sarto di Ulm, Il Saggiatore – tascabili, Milano 2011). Eccole:

«In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: “Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?”.
Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia — commenta Brecht — alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare.

Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico — in un’Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo — per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l’apologo del sarto di Ulm.

Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a lngrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell’aeronautica?

Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un’analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell’uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori.

Vent’anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un’espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente.

La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un’avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall’imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall’ambizione di porvi fine.
Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all’intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci.

L’orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi.

Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché non rende conto di un’impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l’oggi e per il domani.
Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla?

A me pare di sì.»



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Una opinione su "Lucio Magri, del novero del Terzo Agnello"

  1. Arminio quando tocca la morte vola sempre alto…

    Pagina 14 Il Manifesto domenica 4 dicembre 2011

    Vivere su una gamba sola

    Franco Arminio

    Quando qualcuno decide di morire, non sono le persone intorno a lui a doversi
    interrogare, ma è il mondo intero che in qualche modo è chiamato in causa. Il suicidio, quale che sia la forma, è la più intima delle scelte possibili, ma in un certo modo anche la più radicalmente politica. Il suicidio è una scelta che interviene ad abolire quello spazio tra la vita e la morte che noi tutti abitiamo, ciascuno a suo modo. Noi in genere ragioniamo della vita e più raramente della morte. Quasi mai ragioniamo dello spazio effettivo in cui siamo collocati, uno spazio in cui la vita in ogni attimo può finire nella morte, uno spazio in cui ogni attimo la morte cede tempo alla vita, fino a quando il dono finisce e il nulla ci entra nella nuca, il nulla che possiamo concepire come cenere o anima che ascende in paradiso.
    Non è di Magri che dobbiamo parlare, delle cause pubbliche o private del suo gesto, come se fosse qualcosa di clamorosamente anomalo. In realtà il suicidio assistito è un fenomeno molto diffuso, anche se in forme criptiche. Chi si ingozza di cibo ben sapendo che ottura le proprie arterie in qualche modo sta praticando un suicidio assistito. E la stessa cosa fanno gli alcolisti o i fumatori. Bisogna fare i conti col fatto che gli esseri umani hanno bisogno di letizia e di sventura. Il brivido di stare al mondo si sente solo nell’intreccio di questi due elementi. Appena manca uno dei due, la vita procede su una gamba sola e non ci porta assai lontano.
    Oggi pare che tutto il mondo proceda su una gamba sola. Il passo del mondo sembra non concedere letizia. E nel mondo la nostra Italia sembra diventata la patria della scontentezza. Una scontentezza che forse sconfina nella depressione. In un certo senso il governo Monti può essere percepito come un suicidio assistito, dopo il tumore berlusconiano. Siamo tutti ricoverati al momento nella clinica svizzera Dignitas, magari torneremo in dietro, ma non è risanando i debiti che l’Italia ritroverà il sorriso. La nostra malattia collettiva forse è iniziata dopo la morte di Moro. Quello che fu chiamato reflusso forse fu l’inizio di una condizione depressiva, anche se mascherata dalla baldoria degli anni ottanta. L’Italia si è sempre di più smarrita, incapace di essere società, nel senso del rispetto delle regole, e incapace di preservare le forme di comunità assicurate dalla forma paese di cui è sempre stata innervata, fino alle comunità svanite dei partiti, trasformate in aziende per sostenere truffatori. Una trasformazione che riguarda anche la sinistra e forse qui il discorso può tornare a Lucio Magri e al suo dolore. Non sono pochi gli uomini sensibili di questo tempo che pensano di non avere più nulla da dire al mondo. Non possiamo che ascoltare le ragioni di chi ha scelto la resa, nelle sue più diverse forme, una resa di cui il suicidio è solo la forma più irreversibile. E mentre ascoltiamo, magari continuiamo a batterci per ridare un senso collettivo alla nostra presenza nel mondo.

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