….sempre di “TERRACARNE”

di emanuela sica

Sembra quasi di sentirli, fuoriescono dalle pagine, si incuneano nella lettura, un suono che lambisce le immagini. Sono piccoli passi, d’un tratto veloci e poi lenti, attenti a scoprire, fermarsi, guardare, osservare, percepire. Un visitatore, uno straniero, un uomo che torna a casa. Tre persone fuse in uno solo. Il tocco della suola sulla strada è un rumore quasi impercettibile ma tale da rompere il silenzio di quei villaggi dimenticati. Nel cammino la terra attrae quei movimenti con una forza inaudita. La gravità stimola un contatto sempre più profondo che riallinea l’uomo con la sua origine e primigenia. Da quella culla prende forma e dimensione il percorso emozionale di chi ha nelle gambe solide convinzioni di esistenza e resistenza. Chi cammina, chi percorre quella strada, quelle strade infinte e senza meta, è Franco Arminio. Non “un paesologo” bensì “il paesologo per eccellenza”.

Franco Arminio è la fenomenologia più acuta dell’essere prima radice e poi abitante di un luogo. Locus animato da fanciullezza e gioventù, parzialmente estinto dalla vecchiaia galoppante dei tempi. Non solo il frutto ma il seme. Lo dice lui stesso quando si definisce:“Non sono un filosofo, non sono uno che produce concetti. Non sono un politico, uno che dovrebbe risolvere problemi. Sono uno che scrive, produco visioni senza l’obbligo che siano coerenti, senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana. Sono costantemente sospeso tra ritiri autistici e slanci comunitari. E forse proietto questa mia condizione anche sui luoghi che vado a vedere o a filmare nel mio lavoro che definisco di paesologo. La mia terra è una terracarne che mi appare a volte come segno del pericolo e altre volte come segno dell’opportunità. In certi giorni sento che in qualche modo forse stiamo già guarendo, che il mondo è bene accordato e che qui forse la vita ha ancora un senso proprio perché persiste nostro malgrado una trama comunitaria. Basta un soffio e mi ritrovo in un’altra percezione. Mi pare che anche qui l’autismo corale abbiamo steso i suoi teloni, sia la serra in cui stiamo appesi a maturare le nostre indifferenze, la nostra mancanza di compassione.”

È proprio in questa ambivalente lotta tra la percezione della rinascita e quella della decadenza che si addentra il lavoro di uno scrittore che vive finchè vive il suo mondo e la sua terra. Franco Arminio rappresenta o meglio è, soprattutto, un vero pioniere di quella rivoluzione culturale che tenta di far riemergere dal fango, di questa lenta decadenza temporale, i nostri paesi, le nostre origini. Lui è soprattutto questo. È un uomo, un combattete, un assoluto nemico delle incomprensioni e delle testardaggini della società moderna, uno che non si arrende davanti allo scorrere delle lancette ed alla inesorabile fruizione del tempo sulle cose. E’ soprattutto, come disse un critico, “un eroe culturale, appartiene a quella genia di scrittori che fanno qualcosa di più che scrivere: testimoniano con la loro vita e la loro presenza l’incontrovertibile.”

E’ vero, senza alcun dubbio, Arminio è il cantore dei sospiri e dei silenzi che vengono generati dagli abitanti di questi deserti di pietre, che chiamiamo ancora paesi, mentre la noia divora agonizzante ogni cosa, divora il Sud Italia e non lo fa nel sottosuolo ma nei centri del potere. E mentre il resto del mondo è cieco davanti a questo scempio ed alle illusioni di una rinascita che non ci sarà mai, Franco Arminio non si arrende, ma continua il suo percorso di lotta, di devota passione, verso queste terre abbandonate dagli spiriti più eletti, per salvare il possibile dal degrado patologico del presente.

Chi si addentra nella lettura di “Terracarne” (Mondadori, pp. 353, §18) incontrerà un modo ipocondriaco, chino su se stesso, fermo ad uno stadio della vita che è l’ultimo e più prossimo alla morte. Le tracce della sua poetica, fatta di pelle e carne espiantati dai mondi e dai paesi che ha attraversato, raccontano i devastanti silenzi e le sofferenze senza voce di un Sud indifeso, morente, asfittico, eppure così pieno di amore da poter risorgere veramente, se solo si riuscisse a staccare la spina dalla malattia cancrenosa della politica latente.

Con estrema sensibilità, eppure con tono severo e crudo, ma pur sempre riflessivo ed intimistico, crea la simbiosi narrativa di un tempo e dei suoi conflitti in una essenza nuova e sanguigna appunto:“Terracarne”. Un libro che dovrebbe soppiantare quegli innumerevoli testi scolastici che, giocoforza, creano la parvenza o l’illusione di una società che non ci appartiene e che non ci è mai appartenuta, perché al sud la lenta agonia dell’assenza costante dello Stato si sente da secoli. È un libro realistico, che prende forma da quello che l’occhio umano vede e l’anima rielabora con sapienza quasi pittorea. È una narrativa che conficca il pugnale nello stomaco e lo ritrae delicatamente, un balsamo che calma e lenisce i dolori appena provocati.

Terracarne stimola la percezione di una verità assoluta, una verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Mai esperienza di lettura fu più proficua e appagante, fatta di sostanza non aerea ma palpabile, vera, essenziale. Non erano parole o tracce d’inchiostro messe su un foglio, per dare vita ad un articolato senso compiuto di immagini e narrativa. Erano scavi emozionali di radici, storie che non si possono dimenticare, che non si devono tralasciare. Una grande rivoluzione sociale è insita in quelle pagine. È quasi un richiamo alle armi senza usare mai la parola guerra. È uno stimolo intenso e costante, un defibrillatore del cuore di ogni uomo, donna, bambino, vecchio che vive la realtà delle terre in cui il destino ha deciso i natali. Un appagante senso al non-senso del vuoto. All’invisibile mondo che circonda ogni cosa, che diventa visibile solo alle anime che soffrono per l’assenza di una forza naturale che li risollevi dall’oblio.

Sono percorsi fatti di solleticazioni emotive anche dove l’emotività si è persa o magari soltanto dimenticata. Arminio ha saputo dare ai nostri paesi, quasi estinti, la traccia notturna di una fiammella che si alimenta giorno dopo giorno per non farsi soffocare ed ingoiare dalla depressione del tempo, che passa inesorabile. È un antropologo rurale che nasce dalle carni di un poeta eccelso. La ricerca del cuore pulsante di ogni terra che ha attraversato è il leitmotiv del suo narrare, mai scontato, sempre legato all’umanesimo più vero.

Pellegrino tra le terre del Sud, percorre con le sue ossessioni ogni pezzo e lembo di terra che lo riconduca al messaggio iniziale del testo, quel Terracarne che non è solo un titolo ma una scelta di vita, una decisa presa di posizione contro la polvere della tragedia contemporanea, dove il fallimento è stato già deciso e così dovrà essere.

Non si tratta di un esercizio di meridionalismo fine a se stesso, come è nella moda del tempo. Oggi tutti si scoprono meridionalisti convinti ma se si presta attenzione ai luoghi di vita presente ecco che si svela l’arcana bugia ed il sospetto che si tratti di una parvenza, di una facciata di convenienza. Arminio ha vissuto, vive e continua a vivere la sua terra, da Bisaccia si stacca solo per analizzare il territorio circostante ma rincasa sempre, tra le mura di casa, senza possibilità di fuga. Che non cerca, che non aspira. Rimane padrone e impadronito del suo paese. Arminio si muove da Bisaccia, fulcro vitale del suo progetto di paesologia, verso l’Irpinia d’Oriente per tornare in fondo sempre e solo verso la radice e l’origine dei suoi natali.

La scrittura di Franco è una elegia della letteratura in ogni singola frase. La parola che usa per far parlare Bisaccia è quasi un simbolo di questo rapporto uterino che non si è mai rotto. “Caro Arminio, io sono il tuo paese. Ora mi chiamo Bisaccia, ma prima di questo ho avuto altri nomi e c’è stato un tempo in cui non avevo nome. Stavo qui, terra al vento, terra e carne di un perenne sgomento. Vennero alcuni pastori dalle steppe dell’Eurasia. Era un giorno di giugno. Si fermarono qui in silenzio per alcuni millenni. Erano pochi e non divennero mai tanti. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, allevavano pecore, tessevano e vendevano la lana. Adesso hanno raccolto alcuni pezzi del mio passato. Nel castello c’è una donna, che hanno chiamato principessa, sepolta con i suoi gioielli di bronzo molti secoli prima che Cristo salisse in croce”. E nella lettura che fa del suo paese, dalle voci che fuoriescono dalle pietre, dalle somme delle case, tegola, scalino… arriva sino a toccare il freddo, la paura, la trappola. Da qui l’esortazione a vivere senza provare paura, senza sprecare il tempo, attento a non farselo rubare, ed ancora la sintesi della verità: “La verità è che io sono tuo fratello, tua sposa, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante”.

Permettetemi di non concordare con chi identifica, nella poetica di Arminio, una sorta di amore ed odio verso il suo paese. Al contrario. Penso non ci sia stato mai nessuno che abbia amato così intensamente una terra che è madre e matrigna al tempo stesso, che non finisce mai di generare il ricordo dell’infanzia come limite alla critica ed alla contrapposizione dei suoi figli. La genia è, per contro, una dichiarazione d’amore infinita, costante, per il suo paese. Traccia caratterizzante di una rivoluzione che è quasi paragonabile a quella del muscolo cardiaco. L’intero percorso è un arricchimento ed impoverimento per poi di nuovo riempirsi di ossigeno. La “patria poetica” per eccellenza di un uomo senza preconcetti e senza antitetiche convinzioni, nel confine o nell’angolo in cui si rintana, al ritorno dalle sue peregrinazioni, definisce il destino del tempo che passa. Metterlo a frutto e cancellar la stasi del nulla e del riposo. La ricerca è quella del rifuggire. Allontanarsi dal vuoto che aleggia sulle terre desolate e spente, prive o depredate da quel“lievito colloso che ci univa alla terra, che ci teneva avvitati al cosmo.”

Eppure, anche se, all’apparenza, l’autore vuole evadere, scappare, dalle mura del proprio paese, magari anche e soprattutto dal proprio corpo, egli ravvisa in questo percorso i passi della morte che si avvicinano alla propria inevitabile dipartita. Più terribile di questa è percepita l’assenza di una vera e propria comunità. Ecco il fendente che lo colpisce nell’architrave del suo sentire. Da questa mancanza, quasi metabolica, parte l’ingravescenza dell’egoismo, dell’individualismo, esplosivo e degenerativo per la società. Genus della distruzione. Paesi incapaci di sopravvivere alla mancata alleanza dei suoi figli. Sono queste connotazioni emblematiche eppure visibili nel concreto vivere quotidiano. In diversi passaggi del libro lo speculare rapporto tra io e abitante, tra io e cittadino, sono entrambi collegati ad una certa porzione di territorio, ad un paese con un suo nome, una storia, un presente, un ipotetico e quanto mai inconsapevole futuro. L’abitante, che ha le mani ancora sporche di terra, di vissuto, sembra quasi accasciato sul proprio decadimento temporale, senza avere la forza di rialzarsi. Il cittadino, il figlio, sente e vive di euforica partecipazione e si incunea nelle pieghe del paese. Eppure ciò che manca è il legame per farne unica essenza e nuova forma di vita. Se entrambi potessero fondersi sarebbe il superamento dei limiti imposti dalle convenzioni. Se si diventasse comunità, simbiosi tra uomo e cose, allora si potrebbe sperare di uscire dalla voragine distruttiva che si riversa su ogni cosa. Il demone da rifuggire ha un nome: ”autismo corale”. Materializzatosi nella incapacità degli uomini, sempre più soli, di riappropriarsi della compagnia dell’altro. E forse la paesologia diventa una scienza che vuole avvicinare l’uomo alla terra, ad inginocchiarsi davanti all’immenso mondo che lo circonda, dove finanche l’aria, il vento, le piccole cose, dovrebbero modificare la percezione di chi si è, di chi si è diventati. Nella natura e nell’abbraccio con quello che sta fuori, potrebbe rinascere il nostro io interiore, quello nascosto e più difficile da estirpare. Compito dello scrittore e dissimulare le incertezze e svelare la realtà, costruendo versi onesti, coraggiosi. Una nuotata controvento nell’immenso paesaggio naturale, una spinta vigorosa fatta di cuore, ossa, muscoli e carne.

Uso le sue parole per concludere questa indagine parziale di un testo che dice ancora di più di quello che appare. La mia è solo una percezione minima, forse frammentaria, incompleta, della miriade di messaggi che vengono fuori dal libro. “Quello che propongo è semplicemente l’idea di congedarci dalla comunità fatta di umani, cioè di un insieme di io, ma di considerare una nuova alleanza tra noi e le cose che produciamo e la natura che ci accoglie. Bisogna prendere atto dell’inutilità di sé non in un’ottica nichilista e distruttiva, ma al contrario, considerando questo l’unico modo possibile per stare nel mondo, in tutto il mondo, nei suoi atomi, nelle sue parti. La soggettività è il risultato di un processo di produzione che serve a controllare l’uomo, a tenerlo a bada, a dargli, dosando bene, paura e diffidenza verso l’esterno, che non è l’altro uomo, ma l’altro in generale. La comunità non è mai esistita davvero, perché, quando c’era, era comunque escludente e esclusiva, la donne ne erano escluse, ne erano esclusi i cani, i bambini.”

2 pensieri riguardo “….sempre di “TERRACARNE”

  1. Ottima lettura , questa di Emanuela Sica. Mi piace e mi convince l’immagine del cuore pulsante per significare il movimento della scrittura arminiana in Terracarne.

    E’ proprio così, da questa contrazione ed espulsione nasce il flusso vitale; sta lì lo spasmo dello scrittore, il rapporto di alterazione e perdita tra il proprio sé e quello del paesaggio, del territorio, del paese/mondo in cui si muove.

    Come le contrazioni della pompa cardiaca, in quell’alterazione e perdita sta la natura complessa del rapporto tra Arminio e l’ habitat in cui si muove. Ed è da qui che scaturisce la drammatica bellezza della sua poetica, che in Terracarne trova una forma che altrove ho definito “pop”, con termine di moda, in realtà per indicare la misura aurea del “nazional popolare” secondo il concetto gramsciano.

    Infatti la bellezza di Terracarne riferita alla maniera in cui è scritto, consiste in questo: ha un linguaggio semplice, piano, elegiaco a tratti, ma che va in profondità, denso di “significanti”, per usare un termine specialistico.

    In sostanza è un libro che piace a tantissimi, al colto e alla persona poco avvezza alla lettura. In tutti lascia una scia di fascino tangibile; non è un libro che scivola nell’indifferenza o nella bulimia improduttiva delle letture distratte. Proprio no.

    Il che, di questi tempi, non è poco.

  2. Sabato mattina a Vico del Gargano Franco ha parlato davanti a 400 ragazzi del liceo. Una cosa entusiasmante, contagiosa, alla fine erano tutti felici, un vero miracolo……

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