visita al cimitero mediatico

stanotte ho fatto visita al vecchio sito “comunità provvisoria”. è uno straordinario cimitero. per il mio lavoro è un prezioso deposito di un’esperienza tutta da studiare. intanto ho prelevato le poesie che ho postato e una parte le trasloco qui con questo post. ho tralasciato quelle apparse in vari siti letterari. la maggior parte dei testi scelti sono comparsi direttamente su comunità provvisoria, anzi sono stati scritti specificamente per questo blog. ora conto di recuperarne alcuni, magari con aggiustamenti, per libro di versi che devo consegnare il 20 febbraio.se a qualcuno venisse voglia di dare uno sguardo e trovasse un testo o un parte di un testo che gli piace, può segnalarmelo qui o via mail (arminio17@gmail.com).

intanto mi preme dire che la visita mi ha commosso. ho visto un luogo pieno di passione. io non sono uno che si guarda indietro. direi che quella vicenda è ancora in corso, anche se in altre forme, qui o altrove. la sensazione che ho adesso è che c’è stato e in qualche modo è ancora in corso un dono. ognuno ha momenti più o meno generosi, ma il segno del dono prevale su tutto.

arminio

parlo della morte dei paesi
ma il mio tema è la morte
la mia morte.
non c’è niente da fare
la vita serve a essenzialmente
a distrarci dalla morte
la vita non ha una sua ragione
più forte
è appena una diga di carta
un piccolo straccio
per asciugare
il mare nero in cui siamo immersi
il mare il male
di essere noi stessi
il male che si placa solo quando
non ci siamo
quando in qualche modo ci perdiamo
il bene di fallire
di perdere la strada
il bene di lottare senza mettersi
al riparo di un dio
o di un partito
il bene di essere nudi e veri
come i morti dentro i cimiteri
ma già qui
già ora
mentre lo stomaco mi brucia
e fuori divampa la calura
c’è lo scempio di una psicotica incultura
lo scempio di chi uccide le parole
la misera verità che ancora alberga
nelle cose.

*

nel bianco

il nero degli occhi

il nero dei capelli

ormai fuori dall’occhio del mondo.

l’altrove in cui sei sempre stata

ti rende bellissima.

la malattia lavora

ma non arriva alla tua pelle,

è un buio che non si mischia

alla luce dei tuoi occhi.

qui adesso è un paese

ingiallito e tutte le parole mie

e degli altri

non hanno il taglio, il mistero

dell’occhio di un bue.

immagino il sudore

del tuo corpo

la sofferenza dell’anima regale

e da formica.

per me non immagino niente,

oggi ho appena un po’ di mal di stomaco

che mi rende vivo.

*

il paese è la tana di chi gioca al risparmio

con la vita. oggi ad andretta

un uomo sulla settantina

salutandoci alle cinque del pomeriggio

ci ha detto “buonanotte”.

il paese è la tana di chi ha paura

degli altri.

prima un altro anziano,

da poco vedovo, mi aveva detto

che ha piantato pure quest’anno i pomodori,

la fave, i fagioli, un po’ per passare il tempo,

un po’ per paura del giudizio dei passanti

davanti all’orto vuoto.

*

ogni parola

ogni gesto

sono sempre appesi

a un filo.

anche il silenzio

anche il non far niente

hanno la stessa sorte.

inequivocabile ormai

è solo la morte.

*

se fate la rivoluzione

diventerete più sensibili

alla pioggia e perfino all’amore.

dopo un poco camminerete con zampe di gatto

e avrete la testa leggera

come un fiocco di neve.

oggi la guerra che ci vuole è senza fuoco

è una preghiera prolungata

una  poesia scritta bene.

*

oggi a cairano

ho visto gocce d’acqua

che cadevano su un ombrello

e restavano lì come piccole biglie di vetro.

una prova che c’è ancora onestà nel mondo.

*

il sud me lo ha già detto troppe volte

che non mi vuole

e io sono rimasto qui

a rifargli le suole

per calpestarmi meglio.

*

è quasi mezzanotte al mio paese,

i ragazzi sono nelle pizzerie, davanti

al bar millennium o alla sala giochi,

qualche marito ha già esaurito la sua foga,

molti televisori sono spenti

nelle case di chi non è tornato,

domani i ragni festeggeranno la pasqua da soli,

i morti non sapranno e non vedranno nulla

come sempre.

noi siamo qui, noi chi?

*

non vogliono gli africani.

vogliono la casa

vogliono la macchina

vogliono il denaro.

per loro la poesia è un mistero.

portano il paese al cimitero.

*

c’è un’ora del giorno,

tra le quattro e le sei del pomeriggio,

in cui il paese diventa un sasso

in mezzo alla giornata.

è una vecchia pena,

non puoi aggirarlo,

devi salire fino in cima

a mani nude

e poi cadere

verso il buio e la cena.

*

due minuti. un videogioco.

il giappone visto alla tv

tre giorni dopo.

uno aveva dimenticato la sua sciarpa

nella macchina. perduta

anche quella.

e la borsa, gli occhiali, l’orecchino…

in nessun mare, in nessun fango

si potranno mai cercare.

la sventura sparisce

quando è troppo evidente.

e intanto qui nessuna preghiera

la vita continua come sempre, travolta

dall’onnipotenza del niente.

*

la rivoluzione è iniziata

solo in alcuni luoghi in alcune persone

ma è iniziata.

andateli a cercare

ditelo ai fruttivendoli o ai falegnami

a quelli che aggiustano computer

ditelo perfino agli scrittori

e agli architetti.

la rivoluzione è iniziata

da poco e non sappiamo

come si sta svolgendo

al massimo possiamo dire

perché non nevica

almeno fino alla prossima grande

nevicata.

la rivoluzione è iniziata anche qui

anche se il dono è inavvertito

e la carne brucia solo per l’offesa.

andiamo avanti anche se il buio

è arrivato anche oggi

e l’impotenza ci attende a cena.

c’è solo da aver cura di questo pensiero:

la salvezza non siamo noi

non siamo noi la cosa indispensabile

ma solo chi ci ama

chi crede alla nostra immensità

più che alla sua.

andiamo avanti

nel mucchio delle ore inerti

prima o poi ne arriva una

che rompe i muri schiarisce i cuori.

pensate a questo luogo

tutti ne parlano male

eppure sono tutti qui

alla fine vogliamo tutti le stesse cose

amore e compagnia.

per arrivarci scansate la vostra vita

scansate i caselli dell’epoca

perdetevi in aperta campagna

qualcuno arriva, qualcuno vi sta cercando.

*

è un freddo inutile

quello che adesso è nelle vie.

il paese è il nido più alto

della desolazione

e più sotto

il colore del mondo

è grigio.

affiggete fuori dalla porta

questo avviso:

ribelliamoci

e che non sia la nostra nuca

di tanto gelo il nido.

*

poco alla volta imprigionarsi

all’anca, sbiadire in sé, dentro il tragitto

che ti sei assegnato, nessun occhio intanto

vola via dal corpo, tutto resta al suo posto,

poco alla volta consumarsi

fare insieme un chiasso inutile

limarsi

per rotolare più lontano dagli altri,

la vita è stata un tempo un vetro rotto,

è stata, così diciamo

e adesso?

io sento ormai uno strano silenzio ovunque

un silenzio che contiene tutto

il bacio, il centro commerciale, piazza di spagna

l’autostrada.

sento che non riesco a muovemi, dovrei

uscire dalle mie ossa

rifondare un me che sia

altro da me, altro dalla materia,

fiato, stella, notte,

altro, altro che sia altro

anche altro mondo

non dunque amore

paura o festa o nebbia

dunque non questo niente mal condiviso

che si chiama vita

che però quando la minaccia è vera

subito riprende vita

e non vorresti sciupare più niente

e pensi che ti sei irritato inutilmente

e vorresti fare festa all’attimo che arriva

vorresti andare in luna di miele col domani

ma intanto non sai chi sposare

non c’è un solo atomo del mondo

che a te si vuole

coniugare.

*

voglio la neve l’inverno

voglio una cupa sofferenza

e non questo sole scialbo

questi giorni appesi

al niente

e questo niente

che si è fatto mondo

che seguiamo ogni giorno

sparsi e senza voce

fino all’imbuto della sera

pellegrini senza sguardo

camerieri dell’orrore

incapaci di aprirci al vento

al cuore.

oggi l’unica felicità possibile

è farsi straziare

non conservare nulla

essere semplici come una mela

non badare a ciò che accade

pensare al nostro io

come una mosca morta

nella ragnatela.

*

1. pensa che si muore e che prima di morire tutti hanno diritto a un attimo di bene.

2. ascolta con clemenza il mondo nei suoi sbadigli e nei suoi furori.

3. prendi coscienza del tuo sfinimento e dello sfinimento altrui.

4. scordati ogni giorno di te stesso e guarda con ammirazione le volpi, le poiane, il vento, il grano. impara a chinarti su un mendicante, ad accarezzare un cane, a non distogliere gli occhi e il passo. senti la sofferenza di una formica schiacciata sotto i piedi, onora le viscere esposte di un maiale squartato.

5. cerca continuamente parole migliori, senza credere troppo né alle tue né a quelle degli altri.

6. impara a sentire l’energia del dolore, della vecchiaia, della povertà e della disperazione.

7. vivi nascosto, coltiva il tuo rigore e lotta fino a rimanere senza fiato. vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, dai tutto te stesso, senza avarizia, senza remore.

8. considera la vita nella sua miseria e non nella sua grandezza.

9. diffida della ragione, dei ragionamenti, della freddezza stitica, dei cuori rinsecchiti. evita i commerci umani, non limitarti a galleggiare, scendi verso il fondo anche a rischio di annegare.

10. sorridi di questa umanità che si aggroviglia su se stessa e cedi la strada agli alberi.

*

settembre ci ritrova in un piattino

d’acque scure

con la prosa povera delle acacie

il grillo di carbone

le anime rafferme o addormentate.

in questi giorni di cui nessuno è lieto

l’aria è disadorna

e noi siamo estraniati da ogni ardore.

né docile, né servo all’agonia

il pittore di sassi ha un filo di fiato

per tenere a bada la morte,

nient’altro.

la nera stella dei balcani è in frantumi

e lui deve stirare uno ad uno i suoi respiri

la sua ultima biancheria.

la tavola del mondo è inospitale.

un dio barbaro getta i sassi

dal cavalcavia.

*

cairano non ha pianure
e non le vedi neppure
se guardi lontano.
lì l’unica pianura,
se ci pensi,
è il palmo della mano.

*

pochi al mondo sanno dove sei,

pochi sanno respirare l’aria che ti accende,

pochi sanno sentire il sasso

su cui stanno le case

e la mano di dio che l’ha lanciato.

andate a cairano, andateci

prima e dopo di noi,

fatevi soli,

abbiate cura di credere

solo a chi amate e a chi vi ama,

sappiate che  è facile diventare eroi

del filo d’erba,  della porta chiusa

del cane addormentato.

*

ma la vita non ce la dà nessuno,

ci cade tra i piedi e noi la prendiamo

a calci,

non lo troviamo, non lo troviamo mai

il filo che riunisce cielo e terra

visibile e invisibile.

e nemmeno il dio che abbiamo inventato

può aiutarci a morire nella vita

a vivere nella morte.

siamo soli, ma c’è un attimo

un attimo c’è sempre in cui qualcuno

qualcosa ci raggiunge.

io vi ringrazio tutti

voi che siete vivi e voi che siete morti,

fatevi abbracciare ancora,

lo farò come so, come posso.

tutto l’universo è un cane affamato,

io sono qui che gli offro le mie ossa.

*

nella stanza c’è la morte

le cose sembrano più degne.

guardo la madre di vincenzo

e non posso vedere il cerchio rosso

che aveva intorno agli occhi.

guardo i vivi che le stanno intorno

poveri e preziosi come un bicchiere

come il calendario al muro.

esco fuori, sento l’abbraccio

impercettibile dell’aria.

*

l’inferno esiste

e gira per il mondo.

adesso è fermo ad haiti

dove è già stato molte volte.

scavate pure, non troverete niente

in quel che avete sotto.

dove non c’è l’inferno

il mondo è morto.

*

è venuto il buio un’ora prima

nell’armadio della casa.

un silenzio enorme da stamattina

viene dalla salma del paese

dalla salma del mondo.

non so, forse manca la pressione,

manca il gelo e il fuoco.

quello che c’è non lo so dire,

le valanghe e i tuoni

di questo silenzio

non so capire.

*

siciliani e napoletani

giovani e anziani mi chiedono

l’autografo nel carcere di secondigliano.

prima facevano domande

con l’ardore di chi non può arraffare

alcuna sorte,

occhi semplici e veri

voci diverse dalle nostre

che affollano la punta dell’ago.

quello più colto ha una condanna

per mafia, ergastolo,

ma a sentirlo pensavo alla vita senza forza

di chi è fuori.

io lì ieri mattina potevo perfino

essere felice se avessi avuto qualcosa

di più pesante addosso:

solo il  freddo disturbava

le perle bendate che porto sulla schiena.

ero con loro, censurati malfattori,

perché il sonno

per due notti era sfuggito

e con esso le querele della noia.

ho visto nei liberi lettori

delle fiorenti cittadine

parole murate

aria di sabbia

invidia o adulazione.

ho visto nei miei lettori incarcerati

ben altro che prigioni.

*

al mio paese accade poco

quasi niente ormai dopo la furia

di spostare il vecchio dentro il nuovo.

da anni nessuno si toglie più il pigiama

la piazza non ti mette più le dita negli occhi.

stamattina

al mio ritorno dopo molti giorni

guardavo senza essere visto i due giuseppe

col passo di chi chiude ad ogni passo

la porta della gabbia.

è durato poco il mio restare.

qui non mi resta che scrivere

invecchiare.

*

pensavo che la fabbrica della merda

fosse l’intestino.

la fabbrica della merda è la politica.

e su questa merda

pure se già secca

vecchi mosconi e moscerini

fanno a gara a chi più lecca.

*

se perdi un figlio puoi venire qui a dormire

in macchina alle due del pomeriggio,

puoi sentire il tremore del tuo corpo

come un cespuglio sente una formica.

non disturberai nessuno

non sarai disturbato nel tuo lutto

nella tua voglia di stare lontano

dall’usura degli impicci, anche quella minima

che viene dal restare in casa.

ora sei qui di passaggio

ancora non sai come accantonarti

come accantonare il mondo guasto.

ma guardali, alcuni già lo fanno,

magari a quest’uomo che ti sta di fronte

è già capitato qualcosa

di simile, ha già chiuso la bocca

alla sua vita.

*

il paese da cinque giorni è senza luce

una nuvola è venuta a morire qui

e invece di dissolversi

è come se vivesse tra noi

la sua eternità.

*

ti scrivo dalla notte notturna

che fra poco finisce

per dare spazio alla notte diurna.

la notte mia e la tua

la notte di tutti gli altri.

questa notte è come una sposa

a cui battiamo le mani

noi che non siamo suoi parenti

ma gente del paese, conoscenti.

*

mi sto affezionando a queste ore

la quarta e la quinta dopo mezzanotte.

sono le ore in cui il mondo

ha il peso minore, non ci sono parole

aggiunte alle cose, il televisore è muto

i negozi chiusi.

*

scrivo per te

e poi porto

questa piccola calza di scrittura

nella piazza della comunità

provvisoria.

mi sento una befana clandestina

una vecchia e una bambina.

*

quando mi stanco di guardare in questo schermo

tra la mia casa e quella di un vedovo

che d’estate fuma sopra un divano sfasciato

c’è un lampione che mi distrae

lo so che non è molto

né per il cuore

né per l’occhio

ma è l’unica giraffa

in questo posto.

*

pensa a un fiore sul ciglio di un strada

sfiorato dal boato di chi viaggia.

anche questo è uno spavento

che non vediamo

noi che solo di noi stessi ormai

ci spaventiamo.

*

neppure una gonna rossa in questi giorni

un goccia di luce.

nel paese dei muli e delle vedove

c’era almeno il rosso del costume.

*

noi accendiamo i fari

ma come fanno gli uccelli

a scansare le pale eoliche?

come fanno i ragni a vedere

il filo della loro tela?

*

non abbiamo la chiave

per aprire questa nebbia

così come il cane più ammaestrato

mai potrebbe sciogliere un nodo.

e allora aspettiamo che torni

il vento

cane randagio.

*

un poeta iraniano scrive:

“un orologio

si ferma

al polso di un cieco”.

è accaduto così

pure al paese.

per noi era il tempo

della neve

e invece…

*

non ero così grave a calabritto

quando una mattina il direttore

della scuola mi disse:

arminio, tu sei ancora giovane,

devi darti una calmata,

non puoi andare avanti così.

io allora camminavo verso i lampi

in solitudine, ma in fondo

non pioveva quasi mai

e lo sgomento non era ancora

un’abitudine.

*

mi sembra in certe mattine

di stare seduto in taxi

e scrivo senza nessuno intorno

e la macchina gira senza destinazione

solo per aspettare arrivi

la luce del giorno.

*

nel centro di conza nuova fervono

i lavori, ci sono

giochi per bambini che non ci sono

e poi sculture d’arte moderna

senza ammiratori.

un anziano che ha lavorato  in belgio

mi dice cose chiarissime.

uno più vecchio, vedovo da poco,

parla della sua vita e mi commuove,

germania, australia, il nipote farmacista,

il nipote e l’emigrazione,

sua moglie filomena

morta davanti al fuoco

mentre puliva la verdura.

trecento abitanti in quattrocento case

davanti al bar un annuncio

che cerca operai metalmeccanici.

ecco un’altra notizia del mattino:

il sud senza lavoro qui non esiste.

attraverso altri piccoli paesi.

venticinque anni dopo il terremoto

dei morti sarà rimasto poco.

dei vivi ancora meno.

*

in piazza zio giovanni stamattina

era solo,

sono entrato all’edicola

e mi è sembrato che non potevo restarci

senza udire qualche zizzania.

sono salito sul comune e mi hanno detto

che domani si farà quella cosa che non si fa

da vent’anni.

all’uscita di scuola le maestre sono tristi.

il terremoto è una cosa che accade ogni tanto,

è una cosa che sapete, come il fatto

che in questi giorni fa buio presto.

zio giovanni a quest’ora sta mangiando

l’edicola è chiusa, mio figlio

si è messo davanti al televisore.

intanto una parlamentare ha orgogliosamente

rettificato il numero dei morti

e un ministro ha annunciato che

i castelli devono diventare alberghi.

questa poesia non può illustrare i vent’anni

che abbiamo passato a parlare di terremoto

ed è come le cose che si scrivono sui giornali

e quelle che si dicono alla televisione

o nelle case. non c’è scampo, e non c’è niente

da celebrare. il fiato è corto.

la vita e la morte si celebrano da sole

ogni giorno

e quasi mai hanno bisogno del nostro apporto.

*

questo paese  fu impervio

e accogliente,

rughe, vicoli e trincee d’una profonda

pacata vecchiaia.

ora è un immenso deposito

di materiale edile

germinazione e refuso di forme mute

devote alla desolazione.

infime, intime inerzie

infinite ideazioni parassite

incuria e diffidenza.

ma qui, nell’empia congrega di clausura,

io resto e scrivo, a oltranza

con puntiglio  e cura.

*

mele marce, ragnatele

sull’anima tombale del paese.

urlano i cani

le faine passano sui cavi

sui tetti delle case.

*

in mezzo alle rovine c’è un pallore
aperto, disperato.
tutta la famiglia si stringe
intorno ai vetri
della cristalliera, dentro
le tazze, tra le ceramiche
e le bomboniere.

*

è una marcia da fermo.

non mi allontano mai

dal formicoso, dal calaggio:

cane del paese,

terra e carne

terracarne del paesaggio.

*

ti chiamavo da una terra lontana,

era una telefonata da niente

e invece mi sono poco alla volta

sgretolato sotto le tue sillabe

e l’isola in cui sono si è dissolta

sotto le onde della voce,

adesso non posso scrivere, aspetto

che mi chiami: ho la punta del cuore

che mi trema come una lama,

la punta delle mani senza sangue,

chiamami, sfiorami sul ventre nudo,

ho buttato i pantaloni per terra

come si butta per terra un giornale,

resterò nudo fino a quando

non vieni a baciarmi con la tua voce,

resto qui, ti aspetto,

voglio che mi vedi così, inerme,

scomposto, voglio che mi lecchi

la punta del cuore, voglio sentirti

con la mano che gira sul ventre,

prendi la mano

che non ha mai toccato nulla

prendila senza sapere se è la mia o la tua

vieni a prendermi senza indugi

vieni a prenderti, sei qui

tra le mie braccia.

*

finalmente arriviamo a tricarico

il paese del sindaco poeta.

in cielo lontanissimo c’è un falco

il freddo mezzogiorno di novembre

ha il buio che sale già sui fianchi.

la luce che resta è bevuta

dalla vacche nei campi,

dalle argille dei calanchi.

*

oscilla assiderata

la stella di natale.

da un bar all’altro inutili traslochi:

l’ora delle macchine parcheggiate

dei giovani smaniosi

nel fumo della sala giochi.

ora ogni volto è un luogo di confine,

ognuno fai suoi cenni

completamente incustodito.

faccio quaranta passi e torno a casa.

conosco quest’aria e i suoi rancori,

torna ogni anno sempre uguale

come le palle dell’albero

e i pastori.

*

immaginate la mattina presto

l’uomo, la donna e il mulo

che vanno lenti verso la campagna

a scorticare la terra

con la zappa per piantarvi un seme.

immaginate noi

con le famiglie nelle nostre case

gremite di beni poco rari.

noi che senza esporci a niente

continuamente cerchiamo ripari.

*

era molto che non parlavano di dio.

forse a parlarne c’erano altri

e c’ero io, forse eravamo

umanamente comprensivi

del nostro non comprendere

e in tutto questo eravamo compresi

da qualcuno, forse dalla sedie

su cui stavamo seduti,

dai quadri alle pareti, fermi più di noi

e muti.

*

si viene qui per visitare il cielo

o per guardare altri paesi da lontano.

si viene qui senza aspettarsi

una bellezza concitata, qualcosa che ci buchi

le costole o dia fuoco ai cuscini su cui dormiamo.

frigento è un umano insediamento

dove la vita è quella che è e quella che appare.

niente finzioni, ma un esercizio lento, elementare.

si cammina sulla pietra

si tocca un intonaco come fosse

la spalla di un amico

si ammira un portale come fosse l’occhio

di un padre quieto e laborioso.

si sale da un lato e si scende dall’altro

e chi voleva vedere l’imbroglio

dei nostri tempi, chi voleva frugare

nel sud dell’incuria e dell’inedia

trova un paese sobrio e semplice

come una sedia.

*

abitiamo l’altura

delle frane ripetenti.

dove il paese era un volto

rimane l’angolo sinistro della bocca.

la fessura inclina le lapidi,

la torre, le panchine

in forma di avvisaglie.

sotto di noi il tempo accresce

la ragnatela taciturna delle faglie.

*

se d’improvviso una sera

pure in questa lieve e perenne

insofferenza ci guardassimo negli occhi

e negli occhi si trovassero le mani fuggendo

dentro vicoli e cortili fino a un bacio breve

o lungo avremmo fatto un buon uso

un uso semplice e profondo

di noi e del mondo.

*

il mondo è un ago

e noi cammelli

ci strozziamo dentro

alla sua cruna

in cerca di una possibile

impossibile fortuna.

*

l’altro giorno c’era uno a santomenna

a cui avevano tolto le galline

e un altro a cui avevano tolto il banchetto

che aveva a salerno per fare i panini

e un altro che aveva lasciato

la moglie in america.

del quarto non ricordo niente

se non una chioma da predicatore

anche se era il più silenzioso.

più di tutto mi ha irritato la storia

delle galline: il divieto di tenerle in paese

perché puzzano.

per natale questa sarebbe una bella strenna:

riportare tutte le galline

a santomenna.

*

non vorrei morire
non subito almeno
certamente non vorrei morire
per una vena che si chiude
o si squarcia.
non vorrei neppure morire
con i medici al collo
col respiro rubato a una macchina
col corpo inerte
e l’anima addormentata.
si muore ogni giorno
e quando si muore per l’ultima volta
è bene che davanti a noi ci sia
solo qualche anima sconvolta.

*

oggi sentivo il silenzio del paese,

veniva dalle faine sparite,

dai ragni che hanno perso

le loro tele,

dai topi avviliti dentro le cantine

vuote,

sentivo il silenzio che riempiva

il buio della domenica pomeriggio,

mi agitavo per sfuggire

ma dentro le mie ossa banchettava

l’agonia del paese,

la cerimonia delle porte chiuse.

non c’è più il respiro degli asini

e dei maiali, non c’è più

il respiro di mio padre, le sue bestemmie,

non c’è più la forza serena

che portava in sé la sera.

così in questo silenzio disertiamo

anche le nostre vertebre,

e l’anima sembra una trombetta

comprata in qualche fiera.

*

ti attraverso in questo giorno d’aprile

in questa luce ampia, ventilata e spinosa.

sento che siamo arrivati ai giorni semplici

sento che mi hai tenuto qui ad allenarmi

e ora mi concedi di entrare in te

di farmi sentire il tuo fiato

che sa di pietra e argilla.

non devo guarirti e non devi guarirmi

non devo farti dispetti

e non devi farmi dispetti.

ti attraverso in questo giorno

che non è di pace né di guerra,

un giorno semplice, ripeto

e non so cosa voglia dire,

ma so che ti attraverso con fiducia

e penso con fiducia

ad ogni scena del vivere e del morire.

sto insieme a te e insieme ad altri

per fare di ogni fatica una fortuna.

andiamo dentro le ore

senza saltarne una.

16 pensieri riguardo “visita al cimitero mediatico

  1. la nostalgia
    Inserito da armin il sabato, 20 giugno 2009
    .La “nostalgia” ( nostos-algos) è di diritto, una qualità o uno stato d’animo benvenuto nella “comunità provvisoria”.E come essa non è uno stato patologico ed eccezionale,una malattia del corpo e dello spirito, non la si definisce solo per “mancanza” .Non è un “ospite inquietante” della comunità ma ne rappresenta la parte più intima, nascosta, appartata e meditativa.
    Come la malinconia non è asociale ma ha con la società un rapporto selettivo,biunivoco ed aristocratico anche se possono sembrare fattualmente e concettualmente incompatibili.
    La comunità ha bisogno come l’aria che respira di questi momenti appartati, meditativi e silenziosi per scoprire la profondità del suo essere un insieme di “io” singolari-plurali lontano dai rumori di fondo della superficialità insidiosa e omologante della società .E’ “ lo scarto originario che separa l’esistenza della comunità dalla sua essenza”.E’ un limite che la comunità stessa si pone da non dover varcare per non perdersi .La malinconia ci aiuta a tenere assieme con dolore e sofferenza l’essere e il niente della nostra esistenza individuale che mina dall’interno l’appartenenza e la condivisione ad una comunità né riduttiva né semplificata.
    La malinconia da sempre ci insegna in questa nostra esigenza di comunità che il limite non è eliminabile e che la comunità non è identificabile con se stessa , con tutta se stessa o se stessa come un tutto, con il rischio di una forma di tipo totalitaria come ideologicamente abbiamo sperimentato per tutto il Novecento.
    Dobbiamo evitare alla comunità di annientarsi nel tentativo di preservarsi o di liberarsi dal suo ‘niente’ ma aiutarla a scoprire in questi momenti di intimità che l’assale il suo carattere costitutivamente e costituzionalmente malinconico.Il nostro pensare non può liberarsi mai del tutto dalle sue sue tonalità malinconiche pena la sua immobilità e afasia .Ha la necessità di riconoscere la sua duplice declinazione – quella , negativa , della ‘tristizia’, dell’acedia e quella ,positiva, della consapevolezza profonda della finitezza, situandole una nella sfera dello ’inautentico’ , dell’improprio e l’altra in quella dell’esistenza ‘autentica e propria’.
    Recuperare ed attivare al sua esigenza e il suo senso di “quiete”, “silenzio”, “gioia” di assumere e riconoscere il limite , la finitezza come la nostra condizione più propria anche se nella sofferenza e nel dolore.
    Scriveva Heidegger“ ogni agire creativo ha luogo nella malinconia….” .questo ci porta a pensare che l’incompiutezza e la finitezza non è il limite del pensare comunitario ma esattamente il suo senso, essendo “l’essere-solo un modo difettivo “ delle esistenza umana.
    La comunità non è né un origine ,né un fine né una fine, né un presupposto, né una destinazione, ma la condizione, insieme singolare e plurale, della nostra esistenza finita.Non è solo un spazio liminare e definito da subire,da preservare o da allargare ma un luogo comune che ci è destinato e ci accomuna .E il pensiero della malinconia tocca il punto aldilà del quale non sappiamo e non dobbiamo andare ma anche lo spazio vitale in cui vivere nella “gioa e nel dolore” la nostra esistenza autentica .
    Con queste ragioni e sentimenti siamo a Cairano!

  2. anch’io stanotte ho ripassato parole
    quelle che ancora non so dire
    —————-
    franco, gli altri, altri sinuosi orizzonti

  3. L’inaspettata visita di Franco al “cimitero” ha commosso anche me “Per capire come la comunità sia rotta basta andare in un cimitero. Non troverete due lapidi uguali. Eppure in molti casi c’è un solo marmista.”
    Dopo la visita struggente ai versi del passato, mi piace qui proporre uno sguardo anche ai suoi nuovi versi, tratti dal sito PRIMO AMORE:

    PRIMA DEL SEMPRE SENZA FINE

    Mi piacerebbe che ogni individuo fosse capace di allungarsi, di dimenarsi all’interno della propria psiche al punto da sfasciarla e stare in mezzo agli altri senza il muro della coscienza, senza gli arredi di un partito o di una religione. Penso a individui che sappiano di essere un miracolo perché è un miracolo apparire per poco e poi sparire per sempre, in un sempre che non avrà mai fine.

    L’EGOCENTRICO

    Si dice che se uno pensa solo a se stesso è egocentrico. Ma se uno oltre a pensare sempre a se stesso è capace anche di dire che pensa solo a se stesso, già diventa un’altra cosa. Mi pare di essere una creatura di questo tipo.

    L’AMBIZIONE

    L’ambizione che nessuno ha mai concepito, l’ambizione di farla finita con le forme, con l’imbuto di scegliere le parole, di calcolare la loro efficienza. Accogliere il percolato di un’esistenza gettata nella discarica dell’universo: una psiche e un corpo mischiati a ombrelli rotti, pannolini, profilattici, bambole, bottiglie, bucce di banana, e insieme ritagli di cielo, di corpi candidi e meravigliosi, di paesaggi assolati.

    SCOSTUMATO

    In me non c’è educazione, ma un cuore incivile, sincero e delicato come un bambino che precipita da un balcone.

  4. Quanta roba ,Franco. a me basterebbe solo un centesimo per apprezzare quello che scrivi. Ma come scrive Mercuzio la nostalgia prende la mano e allora lasciamola andare.

  5. Arminioooooooooooooooooooooooo?????!!! e che te lo dico a fare? tu mi fai piangere, emozionare! partorisci tanto di quel calore nelle tue parole che mi sembra quasi di vedere l’utero dal quale sfuggi, lo stesso che non molli. che dire a me piace tantissimo (ma è difficile scegliere tra queste prelibatezze per l’anima) questa:

    il sud me lo ha già detto troppe volte

    che non mi vuole

    e io sono rimasto qui

    a rifargli le suole

    per calpestarmi meglio.

    l’ho letta la prima volta su terracarne (libro nel quale ho viaggiato, solitaria con la mia anima, nel perenne tentativo di convincerla a non abbandonarmi per un’altro amore- quello degli spazi che hai così umanamente ben descritto) e non potrò dimenticarla mai più.
    io del cimitero non so un granchè. sono capitata tra le onde dei tuoi versi e dei tuoi pensieri per caso (per fortuna anche il caso a volte può renderci felici), in giro, nella rete, sulla carta. e non mi è parso un cimitero, ma un luogo tanto vivo, un utero, appunto. e non la lascio più andare la parola che sostiene il mio lamento, il mio dolore prezioso che si chiama (mannaggia alla miseria) sud.
    anche a me il sud non mi vuole e me lo ha già detto troppe volte e io sto sempre qui (o forse sono lì, ma sto qui – dicono si chiami padania) con la lingua immobile, la penna cocciuta e il cervello perennemente altrove nel segreto del suo pulsare.

  6. A quando la costituzione del Comitato Letterario per l’Edizione Scientifica delle 5000 e più poesie di Franco Arminio stivate in grandi bustoni neri ? Si, proprio quelle della NU, sacrilegio!… o no, forse proprio in omaggio a questo suo bellissimo epigramma

    “L’AMBIZIONE

    L’ambizione che nessuno ha mai concepito, l’ambizione di farla finita con le forme, con l’imbuto di scegliere le parole, di calcolare la loro efficienza. Accogliere il percolato di un’esistenza gettata nella discarica dell’universo: una psiche e un corpo mischiati a ombrelli rotti, pannolini, profilattici, bambole, bottiglie, bucce di banana, e insieme ritagli di cielo, di corpi candidi e meravigliosi, di paesaggi assolati.”

    Che gli volete offrire a uno che scrive questa meraviglia?

  7. salve a tutti, ieri il fratello di mio padre si è spento gettandosi dal balcone. diamoci dentro con le cose serie e infischiamoci delle inezie

  8. Io vo consiglierei di pubblicare questo articolo di Otto Pagine e lanciare l’allarme. I cimiteri non verranno più fotografati a scopi paesologici, ma adesso i nostri cimiteri (ovveor i nostri paesi) verranno videosorvegliati. La paranaoia è già a livelli allarmanti, ora stanno pure pensando di incrementarla. Piu di un milione di euro buttati nel cesso per fare una cosa inutile e dannosa per le comunità. Facciamo partire una rivolta anche da questo blog !
    Copiate e incollate questo link.
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