Le piccole cose che noi uomini possiamo fare nella luce del giorno. Un fascio di molecole colorate che ci piovono addosso da una stella in un sistema solare alla periferia della via lattea, che ci riscaldano, ci permettono di distinguere, e illuminano questa giornata invernale come se fosse uno scarto dal calendario, una pausa prima del grande freddo che è alle porte. E’ in una giornata come questa che la mia automobile supera le colline boschive della Serra morenica che separa Ivrea e Biella, boschi di castagni, tigli, acacie, nocciuoli e faggi, e dove la scorsa estate ho visto per alcuni istanti la figura miracolo di un’upupa volare, con le ali barrate di bianco e di nero, sfrecciando davanti al muso dell’auto prima di scomparire fra le fonde del bosco. Questa volta non sono così fortunato, ma vedrò alcune poiane attraversare il cielo sopra Pollone, lanciando il tipico richiamo che si disperde nelle valli. Il Parco Burcina è uno dei parchi più celebri per la propria ricchezza di alberi secolari e monumentali del nord ovest; diretta da Guido Piacenza, diretto discendente del fondatore Giovanni, che mi ha accompagnato lo scorso autunno in una passeggiata nel parco. La sua stessa abitazione, nel centro del paese, ospita alcuni alberi monumentali, fra i quali spicca un Pinus nigra di centocinquant’anni che cresce poderoso, protetto, e che, come degli alberi di cui andrò a parlare in questo appunto, non figura nell’elenco degli alberi monumentali regionali.
Parcheggio in via Felice Piacenza, il nome del fondatore del parco e dell’industria manifatturiera di famiglia; la piazzola circolare presenta una chiesetta bianca, lastricata di bolognini, circondata da alberi che hanno delle sorti di fiori legnosi che stanno al termine dei rami. Inizialmente confondo questi alberi con le gimnocladi (Gymnocladus dioica), ma poi capisco che mi sbagliavo. L’unico albero che produce dei frutti del genere sembra il liriodendro, l’albero dei tulipani come viene chiamato comunemente, che però non posso verificare vista l’assenza delle tipiche foglie tetra lobate. Questa piazzetta è protetta da un siepe sui tre metri di altezza, agrifoglio, dalla cui cima spuntano alcuni abeti. Il parcheggio che sta a poche decine di metri ospita alcune ceppaie di noci del Caucaso, alte una decina di metri. L’ingresso al parco è al termine del parcheggio, si transita sotto abeti rossi di venticinque metri di altezza, carichi di pigne. Dopo il ponticello sulla sinistra si fra il primo incontro con un albero interessante, un castagno con ampie ramificazioni ondulate, un tronco sui quattro metri di circonferenza; faggi pendula, tigli, le querce palustri (Quercus palustris) che presentano una scorza grigia simile a quella del faggio ma una struttura particolare, con una massa decrescente di ramificazioni serpentine che fuoriescono da qualsiasi parte del tronco andando a costituire una sorta di vestito circolare che riveste l’intero albero; da giovani il tronco portante e i rami hanno uno spessore simile, negli anni invece il tronco si ispessisce e i rami si allargano e diradano. Ora riesco a dare un nome ai filari di alberi che sono stati piantumati da alcuni anni a Torino, in corso Settembrini, accanto alla Fiat di Mirafiori. Un giovane esemplare mi ricorda la scorza arricciata di un Prunus serrula che vidi a Kew, autoctono nel sud della Repubblica Popolare Cinese. Picea, faggi, aceri montani, l’evonimo sempreverde (Euonymus myrianthus) con foglie simili a quelle del leccio ma a lamina liscia; tante ortensie, rododendri, castagni, tigli, un tasso con un bel tronco inclinato, ruspante, color silice, ne misuro la circonferenza: tre metri; ad un metro di altezza il tronco si divarica in due tronchi che salgono fino a circa otto metri. Si arriva al laghetto ghiacciato, ed ecco la grande chioma che scende a terra: circumnavigando il bordo del laghetto si può penetrare alla base della fronda e si ammirano i cinque esemplari di Sequoia sempervirens, che stanno sotto questa grande chioma aghiforme e compatta. Risento il silenzio dei boschi di sequoia della California, a Big Sur, con la terra ricoperta dagli aghi morti, ma soprattutto queste colonne vegetali sembrano non finire mai, che non si riescono a fotografare integralmente, con la scorza fibrosa e durissima, rossa. Uno spettacolo. In una precedente visita Piacenza mi diceva che furono piantumati nel 1848, per celebrare l’approvazione dello Statuto Albertino, la carta che diverrà carta della monarchia italiana all’unione del Regno nel 1861. Questo dato storico accerta quindi l’anno di messa a dimora delle prime sequoie nel nostro paese.
Camelie, pesci rossi sotto il ghiaccio, quattro ippocastani. Una salita moderata ci accompagna all’edificio che ospita gli uffici, e sopra una collinetta con alcuni grandi cedri, mi sembra deodara. Più avanti si incontra un ragguardevole douglasia, un abete rosso del Caucaso con radice esposta (Picea orientalis), sequoie, un cipresso calvo con il caratteristico tappeto di pneumatofori che sbucano come relitti pietrosi dal terreno; un pettirosso bello grassoccio che sembra abitarvici. Una bella chioma scura declara la presenza di un Cephalotaxus fortunei, con un ramo sorretto da un sostegno in legno: le foglie aghiformi hanno la medesima distribuzione del comune tasso baccata ma più lunghe e morbide, al tatto. Nove larici con gli strobili oramai legnosi, alcuni sui rami, alcuni a terra; carpini dal caratteristico tronco sofferente, apparentemente danneggiato. Poi si incontra uno degli alberi più affascinanti dell’intera riserva, un poderoso faggio col tronco di 450 cm di circonferenza (quanta difficoltà a misurarlo), metri quadri di radici che sono emerse e ricoprono la terra alla base dell’albero, e lunghissimi ramificazioni che cascano, una di queste è oramai appoggiata a terra; scosto il fogliame rinsecchito per capire se è penetrato nella terra, ma trovo un ramo nascosto, ripiegato e infine tagliato. Conservo il dubbio che si tratti di una variante pendula. Dubbio che a fine giornata avrò sciolto: è un semplice Fagus sylvatica. Una lunga ferita, alta almeno due metri, è scavata dentro il tronco. Mi accorgo che dai rami fuoriescono delle specie di spine, che ad un esame più attento non sono affatto spine ma sono le future prime foglie, che già in gennaio fanno la loro comparsa. Di fronte si trovano una coppia di sequoie, una dal tronco poderoso, ancora più ampio di quello del faggio, fra i cinque e sei metri, e accanto un esemplare molto più piccolo, forse un figlio. Più avanti un altro grande faggio, spettacolare sebbene con una struttura completamente diversa, pendula, un tronco che si divarica quasi subito e sale e si espande: è molto suggestivo fotografarlo in questo periodo, con poche foglie, con i colori arancio e rosso che si mischiano alla terra e al grigio del tronco; sollevo alcune foglie, sono molto diverse dalle solite foglie del faggio: e rivedo il grande faggio gemello che respira a Pinerolo, nel parco di Villa Prever; foglie seghettate, l’esemplare infatti è una varietà asplenifolia, ovvero a foglia di felce. Legioni di tassi, di pini strobo, una bella ceppaia di criptomera con panchina sotto la chioma, vi si può sedere per ammirare i tronchi nervosi; i galbuli fessurati sono più piccoli della japonica. E poi tante sughere (Quercus suber), dritte, col tipico fogliame sempreverde e la scorsa grigiastra che si fessura profondamente di nero e di terra bruciata. Quindi quella quercia che non riuscivo a definire a Torino, al Parco della Tesoriera è una sughera! Ennesima dimostrazione che gli alberi vanno toccati e visti e non studiati soltanto sulle pagine dei libri… il fatto è che l’esemplare di Torino è cresciuto tutto storto, il tronco obliquo, sostenuto da una stampella metallica, secondo una geometria della contorsione che queste sughere che ora ho davanti proprio non hanno alcuna intenzione di suggerire. Corbezzoli. Un bosco di pini strobi alti delimita l’area del parco. Betulle, mirto, tre Tsuga canadensis con radici emerse, scorza fessurata, e strobili di circa 1,5 cm di lunghezza. Ne prendo uno che metto in tasca. Le foglie aghiformi sono pettinate e corte. Da uno dei mie libri leggo che all’inizio del Ventesimo secolo oltre il settanta percento del tannino – indispensabile per la concia delle pelli – estratto negli Stati Uniti veniva tratto dalla corteccia di questi abeti, che hanno subito una drastica riduzione numerica. Nella stessa area popolata da magnolie grandiflora e dai sugheri incontro un ulivo. Altre camelie. Arrivo finalmente al cospetto del principale albero che cercavo: il Cupressus macrocarpa che avevo tanto perseguitato nell’area di Monterey, sulla costa pacifica degli Stati Uniti. Noto anche come Cipresso di Monterey, qui ve ne sono due esemplari, ma uno davvero notevole: è cresciuto sulla costa di una collinetta, appoggiandosi su grandi rocce, ed infatti alla base del tronco una radice sfugge in basso fuori dalla terra per oltre due metro. Adoro il colore dei tronchi di questa specie, in generale proprio degli alberi della famiglia delle Cupressaceae, dei cipressi, come il ginepro fenice o cedro licio (Juniperus phoenicea), come il calocedro, come il cipresso dell’Arizona che ho visto anche a Roma nel parco di Villa Dora Pamphilj, o come il ginepro occidentale o cedro rosso (Juniperus virginiana). Il cipresso del Burcina si divarica in tre branche primarie, quella centrale si divide in altre due a circa sei metri dalla base del tronco; le uniche ramificazioni che fuggono lateralmente dirigono sul selciato della passeggiata. Ho stimato l’altezza in circa sedici metri, la circonferenza fra i cinque e sei metri; la posizione non mi consente di verificarla sul campo, richiedo quindi le misure ufficiali a Piacenza che mi indica 540 cm. Età: cento anni. Un’altra possente crittomeria con un tronco molto grande. Mi soffermo su un grande osmanto (Osmanthus x fortunensi, classificcato anche come Osmanthus × fortunei, ibrido delle specie fragrans e heterophyllus): le sue foglie sono fra le più belle che abbia mai viste, coriacee, patinate, un verde scuro brillante, elegantissimo, la nervatura verde chiaro, la lamina liscia, margini dentato-spinosi; mi richiamano alla mente le foglie della quercia spinosa ma molto più grandi. Asporto sei bacche rosse, che spero di riuscire a seccare e a seminare a casa. Ho scoperto che mi piacciono gli osmanti. Proseguendo la salita si arriva ad un bivio, a destra si va per la faggeta, il viale panoramico dei liriodendri e il cipresso di Monterey, a destra invce si sale e si costeggiano altri esemplari di sequoia, sia sempervirens che di Sequoiadendron giganteum. In totale ho contato, nel parco, nove sequoie della California, quattro sequoie giganti. Molto suggestive sono tre sequoie giganti che si trovano prima della cima, superati alcuni tornanti ed una concentrazione di larici si segue il sentiero che volge a sinistra, un prato libero si apre alla vostra destra e in cima appaiono le chiome di tre giganti. In realtà soltanto le due a destra sono sulla medesima linea, quella più a sinistra è stata posizionata alla base di un declivio diversi metri più a monte. Ecco le misure: 765 quella a valle, 680 quella lungo il sentiero, 640 quella più in alto. Quest’ultima ha un tronco che alla base misura 950 cm, e allora torno a misure la prima, che delle tre appare più grande: e di fatti raggiungo la misura di dodici metri. Sono alte trenta metri.
Pollone è un paese pieno di sorprese. Nella seconda metà del XIX secolo, mentre altrove si combatteva per battere ogni giorno la fame, qui i signori si decoravano i parchi delle ville private e del Bric Burcina con alberi provenienti da diverse parti del mondo. Ho infatti individuato due altre ville con parchi interessanti, dove hanno ancora vita due sequoie secolare, messe a dimora nel 1870, oltre ad altri alberi quali uno splendido esemplare di Pterocarya fraxinifolia. Si tratta di due sequoie giganti: quella del parco di Villa Frassati (Alfredo Frassati è stato il fondatore de La Stampa) ha un tronco di 866 cm di circonferenza, quella di Villa Caminati presenta un tronco alla base di 12 metri e 30 cm, a petto d’uomo 830 cm. Inoltre non va dimenticato il giardino di Casa Piacenza, dell’attuale presidente del parco Burcina, Guido Piacenza. Fra le piante interessanti segnalo un Pino nero (Pinus nigra) che dovrebbe essere inserito nell’elenco degli alberi monumentali della regione: è stato di fatto piantato nel 1859. La circonferenza del tronco è pari a 500 cm!
2 pensieri riguardo “Homo Radix terza tappa: s’entra in Piemonte a caccia di sequoie sul Bric Burcina”